Tanya Tiberi
Dottoranda di diritto privato dell’Università degli Studi di Macerata
Il presente contributo mira ad esaminare, attraverso la letteratura di Leonardo Sciascia, il percorso che dal fatto conduce al diritto e dal diritto porta, poi, alla vera giustizia.
This article aims to examine, through the literature of Leonardo Sciascia, the path that leads from the fact to the right and from the right leads, then, to the true justice.
SOMMARIO: 1. Dalla realtà letteraria all’ «impura» letteratura del reale. Considerazioni introduttive. -2. La ragione come ponte necessario tra fatto e diritto. Oltre il giusnaturalismo. – 3. La necessità dell’humanitas per avere un diritto “giusto”. – 4. Il pensiero di Sciascia nella liquida società contemporanea. Riflessioni senza epilogo.
1. Molteplici sono i testi in cui viene rappresentata la giustizia, così come molti sono gli autori che della stessa hanno trattato, vuoi creando una realtà destinata a vivere solo all’interno dell’opera letteraria[1], vuoi mettendo “nero su bianco” il reale svolgimento di processi e giudizi senza, tuttavia, rinunciare a qualche opportuna finzione letteraria.
A quest’ultima categoria di scrittori appartiene, certamente, Leonardo Sciascia.
L’attenzione ai fatti, l’analisi del singolo caso, nonché la meticolosa ricerca –anche archivistica- di indizi, testimonianze, confessioni e notizie sugli eventi non sono, infatti, per lo scrittore di Racalmuto meri spunti per raccontare il mondo in una letteratura sradicata (ancorché non avulsa) dalla storia, ma veri e propri elementi che entrano nel testo e ne tessono la trama accanto a personaggi disegnati a tavolino in una commixtio che contribuisce ancora oggi ad identificare quella di Sciascia come una letteratura «impura» del reale[2].
Lungi, tuttavia, dall’effettuare una mera osservazione della complessa macchina giudiziaria per sottolinearne vizi e virtù, Sciascia non si limita mai ad una distaccata descrizione del lento concretizzarsi della giustizia. Del resto, ogni questione di libertà, dignità e rispetto tra uomo e uomo è per lui inscindibilmente legata al problema della giustizia[3] e nessun essere umano, anche se sprovvisto di supporto tecnico, può dunque considerarsi estraneo o profano all’amministrazione della stessa[4].
Due sono i principali fattori che appaiono aver concorso nella formazione di una tale considerazione della giustizia, da molti ritenuta una vera e propria ossessione[5].
Anzitutto, la provenienza dello scrittore da una terra, quale la Sicilia, connotata da una pluralità di leggi, giurisdizioni e fori privilegiati e, dunque, luogo ideale per il confronto dialettico[6]. In secondo luogo, l’aver vissuto lui stesso le contraddizioni del processo quando, come testimone, assistette alla condanna di un contadino per non aver consegnato ai magazzini pubblici pochi quintali di grano e alla contemporanea assoluzione di un arciprete che aveva, invece, sottratto all’ammasso un quantitativo di grano molto più ingente[7].
Oltre che nella passione per la giustizia, le influenze esercitate dall’ambiente siciliano e, in particolare, dal contatto con la letteratura del conterraneo Luigi Pirandello possono esser avvertite anche nello stile unico di Sciascia, tendente al superamento, attraverso i lumi della ragione, della relatività pirandelliana di una vita troppo mutevole per essere imbrigliata in leggi inevitabilmente riduttive e destinate, a dispetto di ogni formalismo, ad adattarsi alla capricciosità del caso concreto, oscillando sempre il diritto tra ciò che dovrebbe essere e ciò che non è, tra senso e “non senso”[8].
Se Pirandello esprime poi questa sua visione del diritto adottando la modalità ironico-drammatica di manzoniana provenienza, da Alessandro Manzoni lo scrittore di Racalmuto riprende, invece, la costante ricerca storica del vero, nonché la repulsione verso le ingiuste legittimazioni della forza[9], come emblematicamente dimostrato in tutti gli scritti dedicati ai “burocrati del male”[10].
La visione di Leonardo Sciascia come “cultore del vero giudiziario” nonché come “cronista del sociale” è, peraltro, presentata dal recentissimo libro di Ennio Amodio e Elena Maria Catalano “La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale”, Palermo, 2022, dalla cui lettura il presente contributo trae spunto ed ispirazione.
A differenza della summenzionata opera, questo articolo mira, tuttavia, a rileggere gli scritti di Sciascia uscendo dal campo processual-penalistico per arrivare a considerazioni più generali sul fatto, sul diritto e sulla giustizia.
In tale prospettiva e con il summenzionato intento, verrà, anzitutto, esaminato quello che i professori Amodio e Catalano definiscono come “illuminismo ben temperato” di Sciascia, ossia il necessario passaggio dal “pirandellismo in natura” al diritto impiegando i lumi della ragione, unico antidoto all’arbitrio, che, tuttavia, continua a dilagare nella prassi. Si passerà, dunque, ad indagare le cause dell’insufficienza della ragione per arrivare ad un diritto che possa considerarsi universalmente “giusto” e non arrendevole alla relatività dei fatti, ponendosi anche l’accento sulle ontologiche fragilità del processo, nonché sui problemi generati da eventuali tradimenti alla professione giuridica esercitata. Si giungerà, conseguentemente, a valutare –alla stregua di quanto auspicato dallo scrittore di Racalmuto- l’humanitas, ossia la “scienza del cuore umano”, come ulteriore e necessario passaggio per rendere vera giustizia, concludendosi il tutto con una riflessione sull’attualità del pensiero di Sciascia in riferimento alla liquida società contemporanea.
2. Non ogni fatto storico rappresenta necessariamente un fatto giuridico, ma ogni accadimento rilevante per il diritto è per Sciascia un dato dell’esperienza, un mutamento della realtà che può esser percepito direttamente o indirettamente con i sensi[11].
Quello emergente dalla letteratura sciasciana è, infatti, un diritto che mai prescinde dalla storicità ed irripetibilità del singolo caso[12]. È, in altre parole, un diritto empirico, sempre agganciato alla realtà da cui è prodotto e, dunque, conoscibile solo partendo da eventi concreti.
Come l’investigatore in divisa[13] si sforza di arrivare alla corretta spiegazione del delitto esaminando tracce e raccogliendo gli indizi più vari, anche il giurista –per lo più rappresentato dal giudice nelle opere di Sciascia[14]– non può pervenire all’applicazione della legge se non dopo un’attenta disamina dei fatti ed un ragionevole convincimento circa la riconducibilità del caso concreto nella fattispecie astratta[15], maturato attraverso il medesimo procedimento logico-induttivo.
È, dunque, la ragione –intesa come razionalità- a fare da ponte tra il fatto e il diritto: senza di essa non potrebbe, infatti, esistere il fatto[16] e solo con essa l’interprete può giungere ad applicare correttamente la legge al caso concreto.
Conseguenza di quanto appena detto è, certamente, rappresentata sia dal rifiuto di Sciascia di un diritto superiore e disancorato dal contesto sociale e temporale di riferimento, sia dalla fiducia -ancorché non incondizionata- riposta dal medesimo autore nella ragione.
In particolare, la forte avversione a pensare i soggetti come abitanti di uno “stato di natura” inesistente ed avulso dalla storia, nonché come modelli astratti di comportamento rende il pensiero di Sciascia quanto mai lontano dalla corrente del giusnaturalismo[17], da cui lo scrittore di Racalmuto si discosta anche per l’impossibilità di concepire il diritto come fenomeno preesistente alla realtà che lo crea, immutabile ed incontrovertibilmente evidente e, perciò, non bisognoso di alcuna spiegazione, trovando già in sé stesso la propria giustificazione[18].
Non desta, quindi, alcuno scalpore che nelle opere di Sciascia non vi sia alcuno spazio per categorie irreali, leggi non in mundo, dogmi ed innegabili Verità[19]: se gli stessi, infatti, non esistono, non possono neppure trovare ingresso nella sua letteratura del reale[20].
La forte fiducia nella ragione umana come unico strumento in grado di creare il diritto e far sì che lo stesso possa correttamente esprimersi nella caotica realtà avvicina, invece, la visione di Sciascia al pensiero illuminista[21].
A differenza, però, dell’Illuminismo –secondo cui la legge, intesa come espressione della “ragione umana” (Montesquieu) o della “volontà generale” (Rousseau), è sempre giusta e perciò destinata a governare, potendosi parlare non solo di legalismo, ma di vera e propria legolatria[22]– la visione di Sciascia non sfocia mai in un’ottimistica visione del diritto come intervento capace da solo di colmare la distanza tra l’ordine ideale e la realtà, criticando l’esistente e prefigurando nuove alternative[23]. Manca, cioè, in Sciascia quell’«animo del riformatore»[24] tipico degli illuministi.
Quel diritto prodotto e raggiunto solo attraverso la ragione finisce, infatti, per scontrarsi sempre con il caos dei fatti concreti e per piegarsi spesso all’irrazionalità di poteri contrari allo spirito di uguaglianza e libertà che anima la legge stessa, così disattesa.
Tale mancata applicazione del diritto è presente in tutta la narrativa sciasciana: dalla violenza con cui il potere investigativo irrompe nei domicili descritta ne Il contesto alla scorrettezza nello svolgimento dell’interrogatorio raccontata in Todo modo; dalla fragilità del percorso indiziario mostrata in A ciascuno il suo all’impiego di mezzi coercitivi nell’esame di imputati e testimoni presentata ne Il giorno della civetta; dall’accertamento negato da interessi di potere narrato ne I pugnalatori al mancato rispetto dei ragionevoli tempi del processo, nonché all’incursione della stampa nelle aule di giustizia di 1912+1.
Oltre alle descritte vulnerabilità del meccanismo processuale, particolare attenzione viene, altresì, dedicata dallo scrittore di Racalmuto alle distorsioni commesse da giudici ed avvocati nell’esercizio dell’attività professionale. I primi sono, infatti, descritti dall’autore come poco inclini a seguire il ragionamento indiziario in Una storia semplice, mentre i secondi vengono rappresentati come abilissimi, ma altresì fastidiosamente prolissi, parolieri in Nero su nero.
Come dunque evidente, per Sciascia la legge è tutto fuorché capace di impedire da sola il verificarsi di abusi ed ingiustizie attraverso la sua vincolatività. In altre parole, se per lo scrittore il diritto è degno di fiducia in quanto prodotto della ragione (che sempre mira alla libertà e all’uguaglianza degli esseri umani), lo stesso non è però immune da possibili applicazioni distorte operate dagli operatori di giustizia sotto l’impulso di arbitrari poteri.
3. Malgrado la letteratura di Sciascia presenti vicende giudiziarie ben lontane dal concludersi con la scoperta della Verità, con la punizione del colpevole[25] e, dunque, con la vittoria della legge sull’arbitrio, i suoi “gialli a fondo perso”[26] non sono mai “gialli senza speranza”.
L’autore crede, infatti, nella legalità[27]. Ma è altresì consapevole di quanto sia difficile applicarla in concreto[28], essendo l’operatore di diritto non una mera bouche de la loi avulsa dal contesto circostante[29], quanto piuttosto un essere umano incardinato in sistemi che spesso finiscono per prendere il sopravvento ed assoggettarlo alle loro logiche contrarie a quelle del diritto.
Lungi, dunque, dall’essere quella di Sciascia una speranza illusamente improntata su una netta distinzione tra “bianco e nero”[30] e sulla vittoria del primo sul secondo in nome di una Verità manifesta, la speranza dello scrittore è riscontrabile, piuttosto, nella necessità di mettere in luce[31] quella tensione, appunto, sussistente tra la realtà delle cose del mondo e gli ideali del dover essere per cui ogni essere umano –ed in particolare il giurista- deve combattere, al di là del fatto che egli poi vinca o perda[32].
Se, infatti, il giurista non mira a quegli ideali, a quel dover essere, uniformandosi alla realtà delle cose, la legge è inevitabilmente destinata a soccombere. Al contempo, tuttavia, se il giurista perde di vista la concretezza del caso, il contesto in cui esso si inserisce, le persone che lo stesso animano e l’opinione pubblica circostante[33] è, invece, la giustizia ad uscirne sconfitta.
Non basta, dunque la sola consapevolezza della realtà, così come non è sufficiente la mera legge per arrivare alla vera giustizia. Occorre, piuttosto, un’unione tra questi due elementi[34].
Serve, insomma, che alla “scienza dei codici” si affianchi la “scienza del cuore umano”[35], fungendo la prima da scala verso i più alti ideali e la seconda da nobile peso che tiene il giurista con i piedi ben saldi ad ogni gradino, opponendosi anche, se necessario, ad una legge percepita come ingiusta.
L’humanitas dell’operatore di diritto non è, dunque, solo ciò che consente di arrivare ad una giusta applicazione della legge, ma è anche elemento che consente, nel tempo, di rivedere la stessa.
Per Sciascia non esistono leggi immodificabili ed incontrovertibilmente valide.
Come ogni prodotto della storia e della realtà che la stessa anima, anche le norme sono destinate a mutare seguendo il cambiamento della società e della sua opinione[36]. Perciò il giudice chiamato ad applicarle deve, anzitutto, conoscere la realtà sociale di riferimento, ma deve altresì farsi prossimo all’uomo verso cui la sentenza andrà a produrre i suoi effetti –poiché consapevole di giudicare, da uomo, un altro uomo[37]– ed ascoltare sinceramente la sua coscienza.
Di conseguenza, è estremamente importante per Sciascia che il giudice si formi sull’humanitas oltre che sui codici.
Solo la “scienza del cuore umano” potrà essere, infatti, l’antidoto che gli consentirà durante la professione di inserirsi nel contesto senza che ciò gli impedisca, tuttavia, di vedere quello che l’anestetica abitudine ha nascosto ai più[38] e senza, dunque, lasciarsi imbrigliare da alcuna logica di potere contraria all’uguaglianza e alla libertà di ogni essere umano.
Solo l’humanitas è, in altre parole, ciò che può rendere “grande” anche un giudice “piccolo” –di statura e per umiltà[39]– come quello presentato in Porte aperte[40].
4. È davvero impossibile tentare di riassumere nelle poche righe a conclusione del presente scritto tutti gli aspetti giuridici della liquida società contemporanea che mostrano quanto quella di Sciascia sia una letteratura ancora viva ed estremamente attuale.
L’obiettivo di queste ultime pagine sarà, dunque, quello di fornire mere esemplificazioni di tale attualità che, lungi da alcuna pretesa di esaustività, consentano al moderno giurista di riflettere sulla complessità del reale, trovando anche lui stesso ulteriori elementi da poter aggiungere a questo finale senza epilogo.
I lunghi tempi processuali e la giustizia “tartaruga” presenti nelle opere di Sciascia trovano anzitutto spazio nella liquida società contemporanea, tanto che la recentissima riforma Cartabia è intervenuta anche sugli stessi cercando di rendere la durata del percorso processuale e l’arrivo al giudicato compatibili con gli standard europei.
Come poi narrato dallo scrittore di Racalmuto –in riferimento, però, agli strumenti di comunicazione del suo tempo- anche i nuovi media continuano spesso a trasformare la giustizia in spettacolo, irrompendo nelle case (italiane e non) con notizie di indagini e processi attraverso giornali e telegiornali, salotti televisivi e talk show [41].
L’insegnamento sciasciano del percorso logico-induttivo che il giudice deve seguire per arrivare a pronunciarsi è, inoltre, più che mai visibile nella motivazione della sentenza in cui sempre deve svelarsi l’iter che dal fatto concreto ha portato alla fattispecie astratta attraverso la tecnica della sussunzione del primo nella seconda.
Recenti scritti si occupano, peraltro, anche del delicato tema dell’antichissima arte della retorica[42] (indagato da Sciascia sotto vari personaggi che percorrono le sue opere), arrivando alla medesima conclusione di critica verso l’utilizzo di molte parole di scarso contenuto.
Quanto, infine, alla “scienza del cuore umano”, pienamente condivisibile è, a parere di chi scrive, l’opinione di Sciascia che essa rappresenti l’unica via in grado di condurre alla vera giustizia.
È, perciò, di estrema importanza che tale humanitas animi non solo il giudice, ma anche tutti gli altri operatori del diritto –dai pubblici ministeri agli avvocati; dai notai ai consulenti legali; dai procuratori ai professori universitari e così via- nonché ogni privato cittadino, non essendo nessuno escluso dal problema della giustizia ed essendo tutti chiamati a concorrere nell’attuazione della stessa[43].
Solo mettendosi nei panni dell’altro e conoscendo il peso e le enormi influenze che il diritto può avere nella vita di ogni singola persona si può, infatti, arrivare a rendere sempre meno frequente quel famoso brocardo latino del summum ius summa iniuria.
[1] Così, tra gli altri, Honoré de Balzac, per la cui disamina stilistica mi sia consentito rinviare al mio contributo Credito e debito: l’arte e la moda di obbligarsi illustrate nella “Comédie humaine” di Balzac, in Rassegna di diritto della moda e delle arti, 1/2022, p. 334.
[2] Lo stesso Autore, in un’intervista rilasciata nel 1963, si dichiarava a sostegno di una letteratura «impura», rivendicando la libertà di unire nell’opera elementi reali ed immaginari. Tale intervista all’Unità del 15 maggio 1963 è riassunta, in particolare, da G. Prandstraller, Il neo-illuminismo di Sciascia, in Comunità, 1964, p. 88 e ss.
[3] Sul problema della giustizia lo stesso Sciascia afferma, infatti, che “Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo. Un problema che si assomma in quello della scrittura, che nella scrittura trova strazio e riscatto” (A futura memoria, se la memoria ha un futuro, in Corriere della Sera, 14 ottobre 1983, Milano).
[4] Sciascia ritiene, infatti, che il singolo individuo sia parte integrante del sistema giuridico, in quanto delegato anch’egli, se non a giudicare direttamente, quanto meno a vigilare e criticare ogni caso giudiziario che presenti oscurità e contraddizioni. Sul punto, si veda, comunque, L. Sciascia, A futura memoria, se la memoria ha un futuro, cit., pp. 79-80.
[5] In tal senso cfr., tra gli altri, M. Onofri, Il diritto impossibile. Il giusnaturalismo eretico di Leonardo Sciascia, in Nel nome dei padri. Nuovi studi sciasciani, Milano 1998, p. 121 e M. Collura, Alfabeto Sciascia, Milano, 2009, p. 82.
[6] Parla della Sicilia di Sciascia come “quanto di più lontano si possa intendere come folclore o divertente intrattenimento”, rappresentando la stessa piuttosto “una metafora del mondo” U. Apice, Una musa per temi. Diritto e processi in letteratura, Milano, 2022, p. 179. Del resto, proprio così si intitola il libro-intervista che racconta la sua vita (L. Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, 1979, passim).
[7] Al tempo dell’Autore vi era, infatti, l’obbligo, imposto dalle leggi annonarie, per i produttori di conferire ai magazzini pubblici il raccolto di grano, affinché lo stesso potesse esser distribuito alle famiglie con criteri di razionamento. Nel commentare, comunque, l’episodio della condanna del contadino e dell’assoluzione dell’arciprete, Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 62, ha modo di sottolineare che “i fori privilegiati non erano ancora finiti, nonostante la proclamata uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”.
[8] Emblematico esempio del diritto che, oscillando tra ragione e non-sense, arriva al paradosso è, certamente, offerto dall’opera pirandelliana “La giara”, pubblicata per la prima vola sul Corriere della Sera del 20 ottobre 1909, successivamente inserita nella raccolta delle Novelle per un anno ed, infine, convertita in commedia teatrale nel 1925. La novella vede, infatti, per protagonisti il proprietario della giara Don Lollò e l’esperto Zì Dima che, nel riparare la medesima giara, vi rimane intrappolato. Anziché aiutarlo, Don Lollò comunica paradossalmente a Zì Dima che lo farà uscire solo se gli ripagherà nuova la giara, gettandogli all’interno il compenso pattuito per non subire rivendicazioni. Sulle implicazioni giuridiche discendenti da tale novella si veda, comunque, A. Malinconico, Diritto e letteratura. Manzoni e Pirandello, Roma, 2008. Altra opera pirandelliana da cui è possibile cogliere un diritto dai tratti fortemente caricaturali è, poi, “La verità” –conosciuta anche col nome della versione teatrale “Il berretto a sonagli” – ove i personaggi del presidente della Corte d’Assise e il contadino Tararà, accusato dell’omicidio della moglie, vengono rappresentati in modo tutt’altro che verosimile e confacente alla realtà processuale. Lo stesso Sciascia, in La Sicilia come metafora, cit., p. 63 afferma che, rispetto a quelli di Pirandello, i suoi non sono personaggi che “chiedono di esistere in un libro, bensì esseri già esistenti e che entrano spontaneamente nella pagina”. Una forte vicinanza con la letteratura pirandelliana è, però, visibile nell’opera di Sciascia “Il teatro della memoria”, ove le vicende dello smemorato protagonista si fanno portavoce di quella relatività e di quell’opportunistico cambiamento a seconda della situazione propri degli scritti di Pirandello.
[10] Tra le opere di Sciascia dedicate alle autorità milanesi dei processi agli untori e dei giudizi per stregoneria si inserisce, senza dubbio, “La strega e il capitano”, ove viene trattato il tema del processo alle streghe. Significativa è, sul punto, l’apertura dell’opera con una citazione dei “Promessi Sposi”. Quanto allo storicismo sciasciano, forte è l’influenza che in esso viene esercitata dall’opera di Manzoni “Storia della Colonna Infame” da cui lo stesso Sciascia, Storia della Colonna Infame, in Cruciverba, Opere, II, t. II, Milano, p. 598 ricava la consapevolezza che “il passato, il suo errore, il suo male non è mai passato, e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente”. Vero e proprio romanzo storico è, in tal senso, “Il Consiglio d’Egitto”, ove lo scrittore di Racalmuto ha tuttavia modo, diversamente dallo stile di Manzoni, di unire invenzione narrativa e verità storica, come sottolineato anche da A. Sgroi, L’impostura e la storia: Sciascia dalla parte di Manzoni, in Italogramma, 17/2019, p. 1.
[11] Interessante, poiché simile alla visione sciasciana, è la definizione del fatto data da F. Carnelutti, Introduzione allo studio del diritto, Roma, 1943, rist. 2016, pp.23-24 in cui si può leggere che “fare è l’espressione attiva del divenire, si dice fatto per denotare qualcosa che si fa e pertanto diviene. La nozione di fatto è, come quella dell’oggetto, relativa in quanto dipende dai limiti dell’osservazione: un fatto è, ad esempio, il nascere o il morire come la vita intera, il volo di una farfalla come il rotare della terra introno al sole. Inoltre la nozione di fatto è arbitraria, in quanto dipende non solo dai limiti che l’osservatore deve, ma da quelli altresì che vuole imporre alla sua osservazione”.
[12] Sui caratteri della storicità ed irripetibilità del fatto si veda, in particolare, M. Orlandi, Introduzione alla logica giuridica, Bologna, 2021, p. 14 ove l’A. afferma appunto che “ogni fatto ci appare con i caratteri della storicità e dell’irripetibilità: è storico, perché si manifesta in un preciso momento di tempo e in un determinato luogo; è irripetibile, perché anche a ipotizzare due fatti assolutamente identici (…), essi per definizione non possono accadere nel medesimo tempo e nel medesimo luogo”.
[13] Quella dell’investigatore in divisa è figura, non a caso, di notevole interesse per lo scrittore di Racalmuto. Emblematici esempi sono rappresentati, tra gli altri, dall’ispettore Rogas de Il contesto, dal brigadiere Lagandara di Una storia semplice, dal capitano Bellodi de Il giorno della civetta, dal Vice de Il cavaliere e la morte, nonché dal commissario di polizia di Todo modo.
[14] La letteratura sciasciana risente, infatti, del periodo storico in cui si colloca. E. Amodio e E. M. Catalano, La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale, cit., p. 82 sottolineano, infatti, che “la cultura giuridica dello scrittore siciliano riflette la visuale prevalente nel sentire collettivo della stagione del codice Rocco ed anche nel dopoguerra secondo cui il pendolo della giustizia penale oscillava dall’accusatore-giudice, cioè il pubblico ministero, al giudice-accusatore, vale a dire il giudice-istruttore”.
[15] Sul punto, N. Irti, Rilevanza giuridica, in Jus, 1967, ora in Id., Norme e fatti, Milano, 1984, p. 57 afferma che “l’accadere del fatto concreto suscita il giudizio giuridico: il pensiero raccoglie in uno schema ciò che la norma ha assunto come presupposto della propria applicabilità, e così riconduce il caso particolare nel concetto generale”.
[16] Sempre N. Irti, op. ult. cit., p. 5 rileva che “i fatti non pensati non si collocano –come specie del medesimo genere- accanto ai fatti pensati: il fatto non pensato è un nulla. Il fatto è sempre fatto rilevante: rilevante per il pensiero che interpreta e sistema la realtà (…). Il fatto non può uscire dal pensiero, se non a rischio di smarrirsi e di annullarsi”. Di tale avviso anche G. Gorla, Sulla cosiddetta causalità giuridica: «fatto dannoso e conseguenze», in Riv. dir. comm., 1951, I, p. 410 e F. Romeo, Analogia (per un concetto relazionale di verità nel diritto), Padova, 1990, pp. 86-87.
[17] Il giusnaturalismo vede, infatti, la civiltà giuridica imperniata sul diritto naturale, inteso come diritto non prodotto dalle varie entità politiche, ma che fa capo al di là di esse, in una realtà superiore, universale, sommariamente individuata col termine “natura”. Da ciò il carattere liberatorio ed affrancatorio di tale diritto, che oppone alle scelte contingenti del potere un complesso di principi e regole che al potere non si rifanno, fondandosi su qualcosa di più durevole e solido. Per un approfondimento sul giusnaturalismo si veda, comunque, P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, pp. 96 e ss. Un tentativo di individuare un giusnaturalismo nel pensiero di Sciascia è, tuttavia, riscontrabile, tra gli altri, in V. Vitale, Mitografia giuridica. Giustizia e potere nella pagine di Leonardo Sciascia, in Omaggio a Sciascia, Atti del convegno di Agrigento, Agrigento, 1991, pp. 62 e ss.
[18] Lo stesso Huig van Groot (latinizzato in Hugo Grotius, da cui l’italiano Grozio), massimo esponente del giusnaturalismo seicentesco, affermava nelle premesse del De iure belli ac pacis del 1625 i cardini di un nuovo metodo fondato sull’evidenza, essendosi egli preoccupato di ricollegare le prove a nozioni così evidenti che nessuno potesse negarle senza far violenza a sé stesso. Vengono così gettate le basi di un giusnaturalismo laico e fondato sull’evidenza di elementi che trovano in sé la propria giustificazione. Essendo, poi, quello prospettato dal giusnaturalismo un diritto astratto, il metodo che il giurista deve seguire per conoscerlo non può esser certamente di tipo logico-induttivo, ma di tipo matematico-scientifico, parlandosi pertanto di mos geometricus.
[19] Il rapporto di Sciascia con la verità è, in particolare, indagato, in riferimento all’opera La strega e il capitano da G. Luccioli, Il sopravvento della superstizione sulla verità e sulla giustizia: “La strega e il capitano”, in Aa. V.v., Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L. Cavallaro e R. G. Conti, Bari, 2021, pp. 115 e ss. In termini più generali parla del rapporto di Sciascia rispetto alla verità anche A. F. Guaricci, La giustizia nella narrazione di Sciascia: breve riflessione, in Rassegna di diritto della moda e delle arti, 1/2021, pp. 321 e ss. ed, in particolare, p. 326 ove l’A. afferma che “per Sciascia il rapporto tra verità e giustizia, tra giustizia e giudice e tra giudice e legge è un rapporto complesso, mai uguale e mai statico, come statica non è, d’altronde, neppure la verità che, usando l’aforisma di Franz Kafka, è difficile da afferrare con assolutezza “perché ne esiste sì una sola, ma è viva e possiede pertanto un volto vivo e mutevole”. La complessità della società e del suo dinamismo non consentono di cristallizzare in formule astratte o in categorie assolute la verità; ne consegue che necessariamente la legge deve continuamente essere riponderata, attualizzata rispetto al contesto e letta con le lenti dell’obiettivo primario ed ultimo: la protezione e la salvaguardia della persona”.
[20] Un riferimento critico al misticismo giuridico è, invero, presente nell’opera Il contesto e, segnatamente, nelle parole che il Presidente della Corte Suprema Riches rivolge all’ispettore Rogas paragonando il giudice ad un sacertote; come un sacerdote quando celebra la messa “così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non rivelarsi, transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a sé stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve d’istinto, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo”.
[21] Del resto, lo stesso Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 57-58 definisce Voltaire come “modello di scrittore, chiaro, svelto, conciso, intelligente, sintetico, ironico”, disinteressandosi, invece, di Rousseau che proclama come generale la volontà di una maggioranza.
[22] In tal senso, P. Grossi, op. cit., p. 113.
[23] Sul punto, P. Costa, Diritti, in Aa. Vv., Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Bari, 2006, p. 44 sottolinea che “è nella denunciata divaricazione fra il modello e la realtà che si colloca una delle grandi parole chiave dell’illuminismo, la riforma: la riforma come un intervento capace di colmare lo iato che separa l’ordine ideale dall’ordine reale e presuppone quindi, insieme, la critica dell’esistente e la prefigurazione di alternative”.
[24] Così E. Amodio e E. M. Catalano, La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale, cit., p. 41 che, conseguentemente, definiscono quello di Sciascia come un “illuminismo dimezzato”.
[25] Sul punto cfr. C. Ambroise, L’idea del codice nell’opera di Leonardo Sciascia, in Omaggio a Sciascia, Atti del convegno di Agrigento, Agrigento, 1991, p. 52.
[26] In tal senso, E. Amodio e E. M. Catalano, La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale, cit., p. 56 sottolineano che “i romanzi di Sciascia danno vita a una sorta di “giallo a fondo perso”, in cui la tensione, il mistero e il disorientamento conoscitivo non trovano il naturale sbocco liberatorio nella soluzione del mistero e nella piena ricostruzione dei fatti. Si tratta di un modello di rottura rispetto allo schema del giallo classico in cui l’accento è posto sul momento catartico della scoperta del colpevole, sul suggello ufficiale impresso ai risultati conoscitivi dell’investigatore, mentre il modello sciasciano disperde la capitalizzazione della carica emotiva in un esito deludente”.
[27] Nel paragonare Sciascia con Kafka, G. Mammone, Giustizia e individuo da Kafka a “Il contesto”, Aa. Vv., Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., afferma, infatti, che “entrambi credono nello Stato di diritto e nelle sue regole, con il loro corollario di principi fondamentali e garanzie individuali; Kafka in termini dommatici, Sciascia in termini razionali, in quanto legati all’osservazione delle cose della vita”.
[28] Lo scarto sussistente tra il diritto dei codici e l’esperienza applicativa della prassi è, peraltro, presentato attraverso le parole del personaggio Parinieddu ne Il giorno della civetta, che, pur credendo nella razionalità della legge, manifesta anche la possibilità, piuttosto frequente, che il potere possa prendere il sopravvento, lasciando campo aperto all’arbitrio. Completamente scettico nei confronti della legge è, invece, il professor Laurana di A ciascuno il suo.
[29] Tale è l’idea del riconducibile al pensiero di Montesquieu, ove il giudice è appunto definito come “bocca della legge”, dovendo egli solo applicare la norma e non anche interpretarla.
[30] Interessante antitesi alla netta contrapposizione tra bianco e nero appare mostrarsi nell’opera Nero su nero, il cui titolo risponde parodisticamente all’accusa di pessimismo che tanto spesso fu rivolta allo scrittore, offrendo “la nera scrittura sulla nera pagina della realtà”.
[31] A conclusione del suo contributo, M. Donini, Tra diritto pubblico e diritto penale: approssimazioni a “Il Consiglio d’Egitto”, in Aa. Vv., Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., p.45 scrive appunto che “almeno finché non cambieranno le leggi, e fors’anche dopo, solo il mondo della letteratura e dell’arte ci consente di vedere la luce”.
[32] Sul punto si veda N. Irti, “Il giorno della civetta” e il destino della legge, in Aa. Vv., Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., p. 24, ove l’A. sottolinea che “la sensibilità di Sciascia, il suo profondo gusto storico, avvertono che la “ragione universale” non può, di per sé, “dare” diritti, ed anzi sarebbe ingannevole se li promettesse o li facesse sognare e immaginare; onde vi è necessità di convertirla nella “ragione particolare” di leggi positive, per le quali l’uomo ha il dovere di combattere, così correndo l’incognita del vincere o del soccombere”. N. Lipari, Diritto e letteratura in “Todo modo”, in Aa. Vv., Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., p. 109, aggiunge, altresì, che “anche quando la “ragione” rimane sconfitta (e la storia del nostro Paese lo ha fatto vedere più volte), Sciascia ci insegna invece che essa deve continuare a dire no al male che attanaglia il mondo, rinunciando all’idea di un diritto come mera proiezione della forza”.
[33] Sul punto V. L. Sciascia, A futura memoria, se la memoria ha un futuro, cit., p. 81, ove l’A. afferma che “non si può essere giudice tenendo conto della opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”.
[34] Sempre N. Irti, op. ult. cit., p. 25 afferma che “questa, che si viene accennando nelle linee essenziali, è la tensione propria di una coscienza laica, di un guardare insieme alle cose del mondo e agli ideali del dover essere, sicché il destino di Nomos finisce per apparire di insuperabile e perenne tragicità. A Sciascia non bisogna chiedere (e non era ufficio suo di grande narratore) una concezione del diritto; ci bastano le inquietudini del suo spirito”.
[35] Cfr. L. Sciascia, A futura memoria, se la memoria ha un futuro, cit., p. 81.
[36] N. Lipari, op. ult. cit., p. 99 sottolinea, in particolare, che “la giustizia non va cercata né in un definito assetto istituzionale né in una pericolosa palingenesi della realtà. Va semmai costruita in una difficile quotidianità di gesti e di parole nella quale si riflette e si misura la nostra personale responsabilità”.
[37] Estremamente interessante è, sul punto, quanto scritto da L. Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare, pubblicato su Il giudice, anno I, n. 1, 1986, pp. 9-10 e riportato integralmente nell’appendice del libro Diritto verità e giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., ove si può leggere che “ne viene il problema che un tale potere –il potere di giudicare i propri simili- non può e non deve essere vissuto come potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”.
[38] Sul punto, lo stesso Sciascia, Prolusione al Convegno “Viaggiatori stranieri in Sicilia nell’età moderna”, in Viaggiatori stranieri in Sicilia nell’età moderna, Siracusa, 1988, pp. XVII-XXI, ha modo di scrivere che “noi viviamo dentro la realtà: certe cose hanno quella quotidianità, quella abitualità per cui non le vediamo più. Il viaggiatore straniero, invece, le vede. Quindi è giusto cercare una notizia della Sicilia, che di solito a noi quotidianamente sfugge, nei viaggiatori stranieri”. Come il viaggiatore straniero, anche il giurista è chiamato a vedere ciò che la realtà ha reso ormai abituale ed invisibile ai più.
[39] In tema di umiltà, bellissime parole sono spese da M. Orlandi, Introduzione alla logica giuridica, cit., p. 223: “la suggestione filosofica è il rifugio di ogni pensatore. E così pure del giurista, che non rinunci alla curiosità dell’oltre. Umano, troppo umano, verrebbe da dire. Sotto questa luce, vorrei rammentare a me stesso la più grande tra le virtù giuridiche e morali: l’umiltà. Il giurista non è chiamato a inventare il mondo a ogni sentenza. Il caso non è sorprendente scoperta di un supremo ideale di Verità e Giustizia; verità e giustizia del diritto mondano sono nella storia degli uomini; e nel dono ineffabile e disprezzato della parola. Il giurista è umile scienziato delle parole e dei fatti. Diagnostica il valore giuridico del fatto X e prevede l’applicarsi dell’effetto Y. Scopre fatti nuovi; disvela a poco a poco lacune tecniche; adegua significati ed eventi; ne svela passo a passo la sistematica e l’evoluzione. E così misura cose e fatti entro l’ordine schematizzante della scienza giuridica; che, in questo, è omologa a ogni altra”.
[40] Un interessante approfondimento dell’opera è effettuato da E. Lupo, Il diritto tra legge e giudizio: “Porte aperte”, in Aa. Vv., Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., pp. 129 e ss.
[41] Alquanto interessante è, in tema, il libro di V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Il Mulino, 2022, passim.
[42] Sul punto, cfr., tra gli altri, G. Benedetti, Oltre l’incertezza, Bologna, 2019, p. 94, ove l’A. sottolinea che “le strutture logiche del discorso convincente sono appunto analizzate e teorizzate dalla nuova retorica, che così assume un rilievo integrativo dell’ermeneutica. Perciò vorrei chiudere auspicando nelle facoltà giuridiche corsi di retorica (…)”. Sempre sulla retorica, M. Orlandi, op. ult. cit., p. 224 mette, tuttavia, in guardia che “l’argomentare non è giuridico perché retoricamente persuasivo” e che l’esser convincenti non basta, occorrendo altresì dimostrare.
[43] Una giustizia che, peraltro, è sempre più indagata anche nel settore contrattuale. Sul rapporto tra giustizia e contratto si veda, in particolare, G. D’Amico, “Giustizia contrattuale” nella prospettiva del civilista, Diritti Lavori Mercati, 2017, pp. 253 e ss.