Matilde D’Ottavio
Assegnista di ricerca dell’Università Politecnica delle Marche
Cass. Civ., I sez., 26.1.2018, n. 2039 – Di Palma Presidente – Nazzicone Estensore – Zeno P.M. (concl. conf.). – Galleria Arte Moderna F.lli Orler Società (avv.ti Lemme, D. Coliva, G. Coliva) – Fondazione Emilio e Annabianca Vedova (avv.ti Pafundi, Sironi, Vanzetti) – Conferma App. Milano, 28.4.2015
Diritto d’autore – Plagio artistico – Originalità creativa – Scarto semantico – Diligenza professionale – Responsabilità solidale
Si configura plagio artistico quando l’opera plagiata è meritevole di protezione presentando i caratteri della originalità creativa riconoscibile – intesa quale forma e non quale idea – e al contempo è positivo il giudizio di comparazione con l’opera plagiaria. In particolare, l’opera plagiaria deve essere priva di scarto semantico, la valutazione deve riguardare le difformità sulle caratteristiche essenziali ed essere complessiva e sintetica. In ipotesi di violazione dei diritti morali e patrimoniali d’autore, sono solidalmente responsabili tra loro tutti i soggetti che hanno dato un contributo rilevante all’illecito, ai sensi dell’art. 2055 cod. civ., così come il soggetto che abbia commercializzato le opere plagiarie nell’ambito della propria attività imprenditoriale, gravando su di esso, in considerazione della diligenza professionale, il dovere di evitare la messa in vendita di opere plagiarie.
La sentenza in commento enuncia l’interessante principio secondo cui anche le opere d’arte c.d. informale possono essere giuridicamente tutelate, in quanto la protezione dell’opera è strettamente connessa alla creatività, intesa come forma e non come idea.
Risulta tuttavia discutibile che il nuovo criterio dello “scarto semantico” proposto dalla Corte di Cassazione sia da solo sufficiente ad individuare la sussistenza del plagio d’autore, in assenza di confini giuridici precisi entro cui sussumere tale ultima figura.
Sul piano della responsabilità, invece, la sentenza considera solidalmente responsabile con l’artista di opere d’arte plagiarie colui che ne dà concreta diffusione mediante commercializzazione, in considerazione dell’attività professionale svolta.
The judgment sets out the interesting principle according to which the so-called informal art can be legally protected, because the protection of the artwork is closely linked to creativity, that is form and not idea.
However, it is questionable that the new “semantic gap” proposed by the Court of Cassation is sufficient on its own to identify the existence of copyright plagiarism, in the absence of legal boundaries within which to subsume the latter figure.
In terms of liability, however, the judgment considers the person who markets the plagiarised artwork jointly and severally liable with the artist in view of his professional activity.
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il fatto e i motivi della decisione. – 3. Il plagio artistico dell’arte informale e il criterio valutativo dello scarto semantico. – 4. La responsabilità solidale tra il gallerista d’arte e l’autore delle opere plagiarie. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Il plagio del diritto d’autore affonda le sue radici nella storia romana del I secolo dopo Cristo, in cui il poeta latino Marziale, noto per le sue taglienti invettive, era solito scagliarsi contro i rivali che ripetevano in pubblico i suoi versi, fingendo fossero i propri[1].
Dopo più di due millenni, le attività di plagio continuano a furoreggiare tanto perché le condotte emulative fanno parte della storia naturale dell’uomo che “nel creare, osserva, compara e copia[2]”, quanto perché negli ultimi decenni la rivoluzione del digitale ha modificato radicalmente il fenomeno creativo, rendendo ancora più labile il confine tra la “creazione” e la “(ri)produzione”.
La quasi totalità del mercato tecnologico attuale, infatti, con l’intento di massimizzare la produzione attraverso il minor spreco di energie, si limita spesso a riprodurre quanto già è stato creato, ridisegnando completamente gli scenari del processo intellettuale e delle opere d’ingegno, intesi per definizione come unicum. In aggiunta, siccome nel mondo artistico il confine tra l’”invenzione” (ovverossia, l’esemplare) e la “versione” di un’opera ha a che fare con le idee e con le forme, con l’etica e con l’estetica, è ancora più difficile individuare precisi criteri valutativi per stabilire quando ci troviamo effettivamente di fronte a creazioni c.d. parassitarie[3].
Per quanto sia faticoso individuare un concetto tecnico di “opera d’arte” altrettanto complesso è isolarne giuridicamente gli elementi caratterizzanti, cosí da perimetrare con certezza le eventuali ipotesi di plagio d’autore.
Ció che d’altronde principalmente osta alla stabilità giuridica dell’illecito di plagio è la scarsità della normativa di riferimento: l’unica norma che ne dà una definizione, seppur approssimativa, è rintracciabile nell’art. 171, l. n. 633/1941 (c.d. Legge sulla protezione del diritto d’autore) che lo definisce quale “appropriazione, intesa come riproduzione, in tutto o in parte di un’opera creativa altrui senza averne diritto”.
Cosí, in difetto di specifici indici normativi, la Suprema Corte è stata in più occasioni chiamata a ridefinire la limacciosa questione e nel recente periodo ha non solo ricapitolato, in via interpretativa, i principi che guidano il giudizio di plagio nelle opere d’arte, ma si è anche pronunciata circa la responsabilità di chi, muovendosi nel mondo artistico, commercializza a fini imprenditoriali prodotti plagiari di terzi. In questa sede, con l’intento di ricondurre a sistema la particolare tematica, si approfondirà la sentenza in epigrafe, la quale, pur analizzando evolutivamente l’ipotesi di plagio specifico di arte c.d. informale, non contribuisce in modo determinante all’avanzamento della materia del diritto d’autore circa i casi di riproduzione artistica parassitaria illecita. Diversamente, per quanto concerne il piano della responsabilità, la Corte nella pronuncia in esame giunge ad un’interessante soluzione, stabilendo che sono solidalmente responsabili dell’illecito di plagio, insieme al suo autore materiale, anche tutti i soggetti che vi abbiano contribuito sostanzialmente mediante la commercializzazione e la promozione delle opere plagiarie. Questi ultimi, infatti, sarebbero chiamati ad operare nell’adempimento delle loro mansioni specializzate secondo il canone di diligenza previsto dall’art. 1176, comma 2, c.c. il quale, richiamando l’obbligo qualificato del professionista, consente di risolvere in termini di responsabilità contrattuale anche vicende svincolate ex se da un rapporto obbligatorio.
2. Una galleria d’arte moderna commercializza direttamente in una mostra e promuove mediante il vincolo indiretto della televendita i dipinti dell’artista vivente De Lutti.
L’erede universale del noto pittore di arte c.d. informale De Vedova, rappresentato dalla Fondazione E. e A. Vedova, lamenta il plagio delle opere del primo (il De Lutti) ed agisce in giudizio per accertare l’illecito, oltre che per chiedere la condanna in solido dell’artista e della galleria d’arte al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito dagli attori a causa della commercializzazione delle opere plagiarie. La sussistenza del plagio, in realtà, era già stata accertata nei gradi precedenti da parte del Tribunale di Milano e della Corte di Appello di Milano, ma la Corte di Cassazione, nella sentenza che annotiamo, ha rielaborato, per certi versi discostandosene, non solo i principi già enunciati in precedenti decisioni, ma ha anche affrontato importanti questioni giuridiche, ritendendo infondati tutti e quattro i motivi posti alla base del ricorso del gallerista.
Gli ermellini si sono, in concreto, pronunciati su quattro importanti questioni: a) i presupposti del plagio artistico, dettando una serie di criteri che devono concernere il giudizio di comparazione tra opera plagiata ed opera plagiaria, fra cui il principio del c.d. scarto semantico, la cui valutazione deve essere operata sulla base del riscontro delle difformità rispetto alle caratteristiche essenziali (nucleo individualizzante o creativo) dell’opera originaria, all’esito di un vaglio complessivo e sintetico da eseguire in sede di merito, mediante l’espletamento di una consulenza tecnica; b) il grado di diligenza che, ai sensi dell’art. 1176, comma secondo, c.c. incombe su una galleria d’arte, in virtù dell’attività professionale qualificata cui essa è preposta, e la responsabilità solidale tra tutti i soggetti che danno un contributo rilevante all’illecito, includendovi anche l’operatore che ha commercializzato le opere d’arte; c) la liquidazione del danno, con riferimento alla retroversione degli utili (art. 158, l. 22 aprile 1941, n. 633); d) la legittimazione di una Fondazione (rappresentata degli eredi universali dell’artista De Vedova) ad agire in giudizio anche per il danno non patrimoniale sofferto, in quanto l’Ente non esercita il diritto morale d’autore (art. 20 e 23 della l. n. 633 del 1941), ma un autonomo diritto alla propria immagine, in qualità di soggetto preposto a custodire l’opera dell’artista ed a diffonderne la corretta conoscenza, stante il suo compito istituzionale di tutela.
3. Il tema del plagio artistico subisce l’assenza di un esaustivo quadro normativo di riferimento, il che ha obbligato la Suprema Corte di Cassazione ad intervenire in più occasioni tanto per limare le spigolosità della materia, quanto per enunciare nuovi principi che, assumendo il valore di “criteri orientativi”, hanno impresso nel tempo un nuovo corso alla giurisprudenza di merito.
La principale difficoltà che attanaglia la tematica del plagio verte sul “giudizio di accertamento”, poiché anche se la valutazione centrale che la consulenza tecnica è chiamata ad esperire ruota intorno alla riproduzione dell’opera plagiata nell’opera plagiaria, non può esistere un unico giudizio di accertamento del plagio che sia valido per tutte le opere protette se non ricorrendo in modo inevitabile a generalizzazioni eccessive e pericolose.
Conscia della complessità che caratterizza il mondo dell’arte e con l’intento di diversificare i giudizi di plagio in base ai settori artistici, la Corte di Cassazione nella sentenza in esame ha articolato per la prima volta un criterio orientativo per la valutazione delle opere d’arte c.d. informali, inaugurando una stagione di loro “iper-protezione[4]”.
L’individuazione di un caso di plagio, infatti, diviene ancor più complicata nel momento in cui ci si trova a dover operare un giudizio su prodotti artistici, come quelli c.d. informali[5], appartenenti alla corrente dell’arte contemporanea, la quale è nota per il suo sottrarsi al figurativo e per il suo esaltare, anche in segno di protesta ai canoni estetici classici, il momento creativo allo stato puro.
È evidente, al riguardo, che operare un raffronto tra un’opera plagiata ed una plagiaria, cercando di comprendere se e dove giaccia l’appropriazione del “significato” che un’opera d’arte vuole trasmettere, diventa un’operazione quasi impossibile.
Eppure, malgrado la complessità nel definire un prodotto artistico contemporaneo[6], la Corte nel caso di specie ha tentato di tutelarne i confini essenziali, sostenendo che “pur quando l’idea artistica si esprima e si concreti mediante linee, segni o aree di macchie o colori, non immediatamente riproduttive di nessuna forma del reale, così come risulterebbe da una fotografia, ma piuttosto trasfigurandolo ed interpretandolo in maniera affatto originale, resta che proprio la potenza di questa personalissima interpretazione e trasfigurazione va giuridicamente tutelata”. Una tale protezione dell’arte c.d. informale, seppur (iper)specializzata, si colloca in realtà nella tradizione giurisprudenziale perché già nel 2011[7] si riteneva “oggetto di tutela” non l’idea in quanto tale, ma piuttosto la personalissima interpretazione e trasfigurazione che l’autore della stessa ne fa.
Un principio quest’ultimo da sempre fondamentale per l’interpretazione della materia, tanto da esser stato tradotto anche in disposizioni positive, quali ad esempio l’articolo 9.2 TRIPS[8], vincolante per tutti gli Stati membri aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), e l’art. 2 WTC[9].
Malgrado l’influenza che ha guadagnato nell’ambito del diritto d’autore, ci sembra piuttosto facile constatare che un tale principio, essendo almeno apparentemente generico, non possa che limitarsi a costituire un criterio esclusivamente orientativo, senza elevarsi ipso facto a passaggio logico del test di valutazione del plagio[10], ancor di più se si tiene presente che in ambito artistico non è affatto semplice distinguere il contenuto ideale (dunque, l’idea) dalla forma espressiva che l’artista gli conferisce.
Così, anche se la dicotomia tra idea e rappresentazione dell’idea è ormai confermata e consolidata nel diritto d’autore quale principale criterio di valutazione, risulta al momento quantomai necessario un suo adattamento, che ne consenta l’utilizzo non solo nelle diverse categorie d’opera (letteratura, cinema, arte pittorica…), ma anche nelle diverse categorie di una medesima opera.
Su tale ultimo fronte, infatti, intendeva aprirsi la Corte di Cassazione, sostenendo che anche riguardo alle opere fatte di “macchie e colori” (le opere, dunque, informali) ad assumere rilevanza è l’indagine soggettiva sulla volontà dell’artista, la quale va studiata necessariamente ex post tramite consulenza tecnica alla luce della storia pittorica dell’autore di riferimento.
Posto, però, che una tale interpretazione risulta essere giá consolidata nella materia e, dunque, inadatta ad apportare evoluzioni allo stato dell’arte del giudizio di plagio, è bene analizzare il secondo criterio valutativo, sempre vagliato dalla presente Corte: il c.d. scarto semantico, da applicare quale rimedio specifico alle difficoltà cui inevitabilmente condurrebbe l’esclusivo utilizzo di un criterio interpretativo astratto. Secondo la nuova giurisprudenza, infatti, un’opera d’arte per essere originale “deve essere priva di un c.d. scarto semantico, idoneo a conferirle rispetto all’altra (l’originale) un proprio e diverso significato artistico”.
A ulteriore spiegazione di questo insegnamento, la motivazione della sentenza prosegue articolando che “è esclusa la sussistenza del plagio, allorché la nuova opera si fondi sì sulla stessa idea ispiratrice, che è per altro lecito, ma si differenzi negli elementi essenziali che ne caratterizzano la forma espressiva”.
In sostanza, per potersi parlare di plagio deve ricorrere un requisito negativo: l’assenza di scarto semantico tra l’opera plagiata e quella plagiaria.
Prima face, un tale nuovo criterio valutativo e non soltanto orientativo sembrerebbe confacente anche alle opere d’arte contemporanee: si pensi al c.d. appropriation art[11], in cui gli artisti, pur utilizzando immagini note della cultura di massa, attraverso lo strumento dell’appropriazione “interpretativa”, cambiano totalmente il significato dei prodotti tradizionali sia da un punto di vista materiale che concettuale, rendendo tangibile il distacco artistico dall’opera originale. Anche in tal caso, però, malgrado gli intenti innovativi, ci sembra che la Corte di Cassazione[12] non faccia altro che ridurre la teoria dello scarto semantico ad una ennesima riproposizione del principio che contrappone l’idea alla forma espressiva. Nella sentenza, infatti, si afferma la protezione della “tecnica” e dello “stile” di un’artista, ma una tale spiegazione cosí come risulta essere di per sé generalista, è tra l’altro giá stata percorsa, seppur sotto altri aspetti, da parte della giurisprudenza di legittimità, se analizziamo in modo diacronico le precedenti pronunce[13] circa il tema del plagio.
Ancora, con il divieto di “ricalcare in modo pedissequo quanto da altri ideato ed espresso in forma determinata e creativa” è come se la Corte finisse per richiedere al convenuto di dimostrare di aver creato un’opera originale, sebbene espressione di un’idea già messa in circolazione da altri[14].
Pertanto, risulta alquanto discutibile che il nuovo concetto di scarto semantico sia da solo sufficiente ad individuare la sussistenza del plagio d’autore, in assenza di confini giuridici precisi entro cui sussumere tale ultima figura[15].
Tentare di applicare un criterio universale su una fattispecie empiricamente determinata, dunque, non fa altro che uniformare quanto la Corte, nel caso di specie, voleva invece differenziare.
Il punto da sottolineare, in sostanza, è che per far sì che un test di valutazione del plagio raggiunga risultati apprezzabili, quali la certezza del diritto, si dovrebbe evitare l’applicazione di criteri elastici e generalizzanti.
Ai fini della individuazione del giudizio del plagio d’autore, sarebbe piuttosto opportuno oltre all’intervento tecnico degli esperti in materia, sulla cui natura obbligatoria la Corte ha già avuto modo di esprimersi in altre occasioni[16], un intervento ad hoc del legislatore, al fine di raggiungere risultati prevedibili e al contempo conformi ai valori che la stessa legge del diritto d’autore, al momento soltanto in potenza, traduce in norme.
4. Una volta accertata l’esistenza del plagio di opera d’arte c.d. informale, la Corte di Cassazione si sofferma sul profilo della responsabilità da creazione e commercializzazione di opere d’arte plagiarie, un aspetto che assume una rilevanza del tutto particolare dal momento che il contratto di acquisto tra i privati, cioè tra il gallerista/mercante e il collezionista raramente assume la forma scritta, basandosi spesso sull’atto verbale della famosa “stretta di mano”[17].
Il Supremo Tribunale, nel caso di specie, ha stabilito un’ipotesi di responsabilità solidale ai sensi dell’art. 2055 c.c. tra l’autore del plagio (il De Lutti) e la galleria d’arte, in virtù dell’attività di commercializzazione dei prodotti plagiari esercitata da quest’ultima tanto in via diretta quanto in via indiretta mediante il vincolo della televendita[18].
La Corte giustifica un tale concorso di cause per il fatto che il gallerista d’arte, nell’adempimento della sua attività professionale, possiede uno specifico dovere di diligenza qualificata, che lo porta ad assumere una posizione di garanzia nei confronti di coloro che si avvalgono della sua mansione.
Infatti, richiamando a tal riguardo un proprio precedente, anche se di diversa fattispecie[19], la Cassazione specifica che neanche la buona fede del venditore di un’opera d’arte, erroneamente attribuita ad un autore determinato, ne escluderebbe, di per sé, la colpa e la conseguente responsabilità per l’inadempimento, se non sia in concreto provato, ai sensi dell’art. 1218 c.c., che l’errore avrebbe potuto essere evitato con l’ordinaria diligenza di cui all’art. 1176 c.c.
Non solo.
A supporto di una tale affermazione, viene richiamata lungo le motivazioni della sentenza la disciplina speciale del Codice dei beni culturali e del paesaggio, D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 che, oltre a rintracciare un vero e proprio indice normativo sulla professionalità e sulla serietà di chi commercializza opere d’arte, nell’art. 64, prevede anche l’obbligo di consegnare all’acquirente gli attestati di autenticità e di provenienza o, in alternativa, una dichiarazione, recante tutte le informazioni disponibili al riguardo[20] (senza, però, indicarne la sanzione in caso di inadempimento), ampliando di conseguenza quanto soltanto genericamente previsto dall’art. 1477, comma 3, c.c. che impone al venditore di consegnare al compratore i documenti relativi alla proprietà e all’uso della cosa negoziata.
In aggiunta, si noti che la stessa giurisprudenza di legittimità già in un’altra precedente pronuncia aveva sostenuto che la consegna al compratore di un’opera d’arte degli attestati di qualità in possesso del venditore, “essendo un atto dovuto ai sensi dell’art. 2 della legge n.1062 del 1971, non può costituire di per sé un comportamento valutabile secondo l’art. 1362, comma 2, c.c. ai fini dell’accertamento della volontà negoziale”[21]. In sostanza, la comune intenzione soggettiva delle parti risulta irrilevante in presenza di un documento tecnico di autenticità, che risponde di per sé a canoni ermeneutici oggettivi.
Così, mentre il ricorrente contestava l’ipotesi di responsabilità solidale, ritenendo che tale situazione avrebbe costituito un illegittimo addebito di responsabilità oggettiva perché avrebbe fatto gravare sullo stesso il difficile (se non impossibile) dovere di ravvisare qualsivoglia plagio nelle opere per andare esente da responsabilità, la Suprema Corte ha osservato invece che in capo all’operatore stesso sussisteva un “concorso effettivo” nella produzione del danno, per lo meno a titolo di colpa.
Una colpa dovuta per aver il gallerista svolto delle attività in violazione di regole specifiche di condotta che gli imponevano di svolgere le proprie mansioni a condizioni precise.
Di conseguenza, sussisteva in capo all’operatore professionale un obbligo solidale al risarcimento del danno patrimoniale[22] e non patrimoniale[23] cagionato.
Lungo le motivazioni della sentenza (punto IV) si legge, però, che “pur trattandosi di responsabilità aquiliana, e dunque senza inversione dell’onere della prova in ordine all’elemento soggettivo della fattispecie, il concorso colposo è stato correttamente individuato nel non avere il gallerista rilevato, con la specifica diligenza professionale, la palese imitazione delle opere dell’artista di Vedova”.
Da una tale affermazione, sorge spontaneo interrogarsi su come possa concorrere ad un illecito per mancanza di diligenza professionale un soggetto che, nel caso di specie, rispondeva per responsabilità aquiliana e, dunque, per una responsabilità sciolta ex se da un vincolo obbligatorio. A livello normativo, infatti, l’art. 1176, secondo comma, c.c. richiede l’impiego di una diligenza qualificata esclusivamente nell’adempimento di un rapporto contrattuale, tant’è che è proprio in base alla diligenza ivi richiesta che può in un secondo momento scaturire la responsabilità da inadempimento del debitore ai sensi dell’art. 1218 c.c.
La responsabilità aquilana presente nel caso di specie, di converso, escludendo il presupposto della contrattualità, non potrebbe richiedere al comune individuo svincolato da vincoli obbligatori una condotta professionalmente qualificata.
Senonché, alla norma, la giurisprudenza, ormai da tempo, ha opposto specifiche deroghe.
È stata infatti riconosciuta l’esistenza di una responsabilità contrattuale nei confronti dei terzi che prescinde dalla presenza di un negozio giuridico, anche qualora non vi siano beni costituzionalmente protetti: si pensi, a tal proposito, alla figura del perito estimatore che, in virtù del suo status professionale, pur soggiacendo alle regole generali di responsabilità extracontrattuale[24], ha il dovere di comportarsi secondo la diligenza specifica richiesta dall’art. 1176, secondo comma, c.c.
Al riguardo, ragionando in modo trasversale, se il gallerista svolge la mansione tecnica di “perito dell’arte”, allora è pacifico che la sua figura sia assoggettabile alla medesima interpretazione cui viene sottoposta quella del perito estimatore, che tra l’altro presenta con l’esperto d’arte significativi margini di compatibilità.
Difatti, ai sensi della nuova elaborazione giurisprudenziale di contatto sociale[25] o, nello specifico, di “contatto sociale qualificato”, tutte quelle relazioni esistenti tra due soggetti che prevedono un obbligo primario di protezione specifica di una parte nei confronti dell’altra, sono fonte di obbligazione in senso tecnico, pur se private della presenza di un formale negozio giuridico.
In sostanza, il sempre più intenso raffinamento delle competenze professionali, richieste ai protagonisti della vita socioeconomica[26], ha finito per estendere i confini della responsabilità contrattuale, tanto da non tollerare che i settori di infungibile specificità possano limitarsi all’obbligo generico da mero contatto occasionale del neminem leadere.
Se, dunque, ad un esperto d’arte è richiesta una diligenza qualificata nell’espletamento delle proprie mansioni, non può da tali ultime condotte non conseguirvi un’assunzione specifica di responsabilità contrattuale (anche) nei confronti dei terzi soggetti che vi fanno specifico affidamento.
L’obbligo di diligenza qualificata in tali ipotesi diventa dunque la prestazione infungibile per poter parlare di “corretto adempimento” o, in difetto, di inadempimento, dal quale ne deriverebbe l’obbligo di risarcimento del danno nei confronti dei terzi.
A corroborare una tale conclusione vi è, tra l’altro, il fatto che l’operatore professionale nel caso di specie si trovava a svolgere un’attività del tutto ordinaria, consistente nel ripetitivo controllo delle certificazioni di autenticità delle opere d’arte, che caratterizza la generalità delle obbligazioni cui è tenuto un esperto d’arte. Diversamente, infatti, nel caso in cui una specifica prestazione avesse richiesto delle conoscenze o delle competenze totalmente straordinarie e non consolidate, vi sarebbe stata senz’altro una limitazione della responsabilità del professionista, secondo quando vorrebbe l’art. 2336 c.c. nelle ipotesi di “particolare difficoltà” dell’adempimento[27]. Una tutela per il professionista, tra l’altro, stabilita anche dalla figura della responsabilità da contatto sociale, la quale prevede il divieto di svolgere mansioni circa le quali il professionista non ha avuto alcuna conoscenza, in quanto uno specifico dovere di correttezza e diligenza impongono anche di astenersi dal compiere mansioni che esulano dalla propria sfera di consapevolezza.
Nel caso, dunque, di un controllo ordinario dell’attribuzione di paternità di un’opera tornerà a valere, all’inverso, il principio generale secondo il quale la colpa nel concorso dell’illecito è sottintesa dal fatto (certo) dell’inadempimento specifico della prestazione, fatta ovviamente salva la possibilità di dimostrare la non imputabilità dell’evento[28].
A rigore, dunque, la figura del gallerista d’arte, è considerabile in un’accezione ben più ampia di quella cristallizzata nelle varie discipline a tutela del consumatore[29], poiché, nel caso della responsabilità da contatto sociale, il professionista non ha soltanto doveri di correttezza informativa nei confronti della parte debole, ma ha un obbligo di garanzia nei confronti dell’affidamento del terzo, che si ingenera grazie alla presenza di uno status professionale qualificato.
5. Al netto delle considerazioni fin qui rese, risulta evidente come la complessità del mondo dell’arte non possa sottrarsi dal dialogare con il mondo del diritto, il quale ultimo è chiamato a conferire certezza alle relazioni tra i privati e a limitare l’insorgere di controversie che, di fatto, nell’ambito artistico, si diramano tra contese del tutto umorali e battaglie titaniche che sono tuttora oggetto di giudizio nei tribunali.
Lasciare, però, libero il giudice di valutare la sussistenza o meno di un’ipotesi di plagio artistico esclusivamente sulla base di criteri orientativi del tutto generali stabiliti a livello giurisprudenziale, significherebbe dar luogo a pericolose incertezze, soprattutto mancando un sistema normativo che possa essere utilizzato quale metro utile per verificare la legittimità delle decisioni assunte. L’assenza di confini, infatti, finirebbe per penalizzare anche quelle opere d’arte non plagiarie se si decidesse di adottare, per la singola fattispecie, un’interpretazione iperprotettiva della tecnica e dell’idea dell’artista. A rigore, dunque, i vuoti normativi nei quali la materia del diritto d’autore continua a muoversi, evidenziano l’opportunità di una rilettura critica de iure condendo del fenomeno soprattutto in vista della complessa evoluzione digitale della tecnica e delle arti e dell’estensione delle tutele che le nuove opere d’ingegno necessiterebbero. Lo stesso status professionale qualificato richiesto ai soggetti che operano all’interno della società artistica è una chiara conseguenza del sistema di “protezione” che connota un tale ambito. Consentendo, infatti, agli eredi[30] (terzi) dell’artista plagiato la possibilità di agire ex contractu per la lesione di diritti patrimoniali[31] contro l’operatore professionale, anziché invocando la norma dell’art. 2043 c.c., è una forma di evidente agevolazione per i danneggiati, tanto con riguardo al più ampio termine di prescrizione decennale per l’esercizio dell’azione di risarcimento, quanto in riferimento all’onere della prova, dato che ai sensi dell’art. 1218 c.c. la colpa non si eleva ad elemento costitutivo della domanda di risarcimento.
L’adozione del concetto di contatto sociale permette, dunque, di evitare la parificazione della condotta di un peritus artis con quella del quisque de populo, che oltre ad essere inappropriata risulterebbe anche pericolosa in quei rapporti che, di fatto, nascono come qualificati da un punto di vista economico e sociale.
La fonte dell’obbligazione di protezione[32] senza prestazione va, in sostanza, ricercata nell’esigenza di tutela della pubblica fiducia, presente anche nell’ambito del diritto d’autore[33], che scaturisce dallo status professionale di coloro che, in virtù delle loro specifiche competenze, finiscono per vincolarsi a delicate relazioni, anche in assenza di effettivi rapporti contrattuali.
Provvedimento
Il Tribunale di Milano ha accertato, su domanda della Fondazione E. e A. V., che i dipinti di P.d.L., promossi e venduti dalla galleria d’arte O. mediante una mostra-mercato tenutasi nei mesi di marzo ed aprile 2007 a Venezia e, soprattutto, nel corso di televendite, costituiscono plagio dei dipinti di E.V., dalla prima volta a volta riprodotti, con violazione dei diritti spettanti alla Fondazione E. e A. V., erede universale dell’artista. Il giudice di primo grado ha, quindi, inibito la prosecuzione dell’illecito, ordinato la distruzione dei materiali promozionali e pubblicitari relativi, comminato la penale di euro 1.000,00 per ogni violazione ulteriore e per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione e condannato in solido P.d.L. ed Arte Moderna F.lli Or. Eredi Er. Or. s.n.c. al risarcimento dei danni in favore della Fondazione, liquidati in euro 300.000,00, di cui euro 200.000,00 per danno patrimoniale ed euro 100.000,00 per danno non patrimoniale, ivi compresi gli interessi maturati, nonché´ condannato in solido P.d.L. e la Casa delle Aste Meeting Art S.p.A. al risarcimento dei danni in favore della Fondazione, liquidati in euro 5.000,00, ivi compresi gli interessi maturati, con riguardo alla pubblicazione su catalogo dell’opera di de. Lu. denominata (Omissis), plagio del dipinto di E.V. denominato (Omissis). La Corte d’appello di Milano, adita dai soccombenti, con sentenza del 28 aprile 2015 ha respinto le impugnazioni. La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che: (Omissis) b) sussiste l’illecito di plagio delle opere dell’artista E.V., posto che la protezione del diritto d’autore non riguarda l’idea creativa come tale, ma la forma espressiva che la veicola all’esterno rendendola percepibile agli altri, avendo ogni artista, pur appartenente alla stessa corrente e condividendo con altri una certa sensibilità artistica, una riconoscibile impronta ed apporto creativo sotto il profilo dell’impegno estetico, compiutezza espressiva o scarto semantico rispetto ad opere anteriori altrui, avuto riguardo all’opera nel suo insieme, senza che assumano rilievo le consonanze o dissonanze di dettaglio, il pregio artistico o il valore economico delle opere: dunque, alla stregua della disposta consulenza tecnica d’ufficio e dell’esame delle opere, il plagio è ravvisabile sia nel lavoro (Omissis), di cui la corte del merito ha ritenuto la ‘‘sostanziale sovrapposizione’’ con quello alla mera vista comparativa dei dipinti (svolti entrambi su due piani, con le medesime masse cromatiche a campitura rossa e gialla ed uguale localizzazione dei colori), mentre l’esame di dettaglio rivela piuttosto lo svilimento delle forme del messaggio artistico (dimensione ridotta, più commerciabile, uso della spatola invece del pennello), sia nei cd. dischi, che si servono della medesima tecnica con imitazione dei moduli stilistici (stessi chiaro-scuri, forma, collocazione, tecnica e supporto dell’opera), senza nessun significato artistico diverso, anzi svilendo il messaggio per lo spettatore, posto che solo quelli di E.V. corrispondono nel diametro all’apertura delle braccia dell’artista; c) la responsabilità di Arte Moderna F.lli Or. Eredi Er. Or. s.n.c. sussiste, avendo concorso alla promozione, diffusione e vendita di tutte le centinaia di opere a firma de. Lu., che costituiscono sistematica appropriazione del frutto della altrui elaborazione artistica, con apporto causale particolarmente intenso, in ragione dell’utilizzo della televendita: dovendo reputarsi responsabile dell’illecito civile di plagio artistico non solo chi realizza l’opera, ma anche chiunque intervenga nella commercializzazione di essa, rientrando nel dovere di diligenza qualificata, di cui all’articolo 1176 cod. civ., gravante sugli operatori esperti nel mercato dell’arte, la verifica che le opere poste in vendita non si palesino plagiarie; tenuto conto, in particolare, che nella specie sussiste notorietà dello stile artistico di E.V., del suo tratto originale e riconoscibile entro l’arte cd. astratta informale; d) contrariamente all’assunto dell’appellante, secondo cui non è provato che l’attività del P.d.L. abbia prodotto una svalutazione delle opere di E.V. considerata la diversità di mercati e la rinomanza degli artisti, il tribunale ha correttamente applicato, nella liquidazione del danno patrimoniale, la l. 22 aprile 1941, n. 633, articolo 158, comma 2º, il quale permette la liquidazione del danno da lucro cessante tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, ossia il criterio della cd. retroversione degli utili, in tal modo innovando, come per l’articolo 125 c.p.i., al tradizionale sistema con l’aggiunta della sanzione punitiva a quella restitutoria, onde la condanna relativa non è condizionata alla prova dell’esistenza di un danno risarcibile, ma al conseguimento degli utili causalmente collegati alla violazione commessa; il Tribunale ha, pertanto, correttamente calcolato il quantum del risarcimento sulla base degli utili realizzati, quantificando il danno da lucro cessante ai sensi dell’articolo 2056 cod. civ., comma 2º, con equo apprezzamento delle circostanze concrete, quali il numero delle 108 opere plagiarie messe in vendita ed il loro prezzo medio, correttamente quantificando gli utili nell’importo pari ad un terzo dei guadagni complessivi, attesi i costi ipotizzabili; e) contrariamente all’assunto dell’appellante, secondo cui la fondazione non sarebbe stata legittimata ad agire per la tutela dei diritti morali di E.V., intrasmissibili mortis causa ed a persona giuridica, anche il danno non patrimoniale è stato correttamente riconosciuto, posto che la Fondazione ha patito un pregiudizio per la diffusione sul mercato di opere, in cui un terzo si è appropriato del frutto dell’ingegno artistico del V., con un danno alla propria immagine, quale soggetto preposto a custodire l’opera del medesimo ed a diffonderne la corretta conoscenza. Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per Cassazione da Arte Moderna F.lli Or. Eredi Er. Or. s.n.c., sulla base di cinque motivi. Resiste con controricorso l’intimata Fondazione, che propone ricorso incidentale condizionato per due motivi. Le parti hanno depositato altresì la memoria di cui all’articolo 378 c.p.c. I motivi. 1. – Il ricorso principale propone cinque motivi d’impugnazione, che possono essere come di seguito riassunti: 1) violazione e falsa applicazione degli art. 12, 18, 20, 23, 107 e 158 l. n. 633 del 1941, oltre ad omesso esame di fatto decisivo, per avere la corte del merito omesso ogni valutazione circa la legittimazione attiva in capo alla fondazione Vedova, confermando la pronuncia del tribunale che ha ad essa attribuito il risarcimento del danno non patrimoniale, quale erede di Emilio Vedova, laddove l’art. 23 cit. riserva a soggetti tassativamente indicati l’esercizio del diritto morale d’autore; mentre, quanto al danno patrimoniale, esso sarebbe spettato alla fondazione solo ove ne fosse stata proprietaria, oppure ad essa i diritti fossero stati trasmessi dall’autore che li avesse mantenuti pur dopo la cessione del corpus mechanicum, punto su cui invece la corte territoriale nulla ha detto; 2) violazione e falsa applicazione degli art. 1, 2 e 156 l. n. 633 del 1941, per avere la corte del merito ritenuto che l’imitazione dello stile possa costituire «plagio» di opera pittorica astratta, laddove tale termine va invece riservato all’usurpazione della paternità di un’opera e la corte ha fondato il suo convincimento sopra elementi generici, come chiaro-scuri, forma, collocazione dei segni, tecnica e supporto: ma l’imitazione dello stile di un artista è libera, posto che ognuno si ispira, più o meno dichiaratamente, a modelli precedenti e che oggetto del diritto d’autore non è il contenuto ideologico dell’opera, come codificato all’art. 9.2 dell’accordo TRIPs (The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), né lo sono pensieri ed emozioni di chi guarda i dipinti, ma unicamente la forma specifica assunta dall’idea in concreto, in quanto si sia tradotta in una res; ciò tanto più per la corrente artistica della c.d. arte informale, dove l’idea si sostanzia in macchie e colori, senza nessuna rappresentazione della realtà, dovendo quindi farsi ricorso a parametri diversi circa il concetto di imitazione, con difficoltà potendosi qui applicare la tradizionale dicotomia tra la non proteggibile idea e la sua tutelabile espressione esterna, nonché il concetto di forma interna, inapplicabile all’arte astratta, ove forma e contenuto sono inscindibili; mentre poi non può guardarsi alla complessiva impressione suscitata dalle opere, ma si richiede una loro valutazione analitica; 3) violazione e falsa applicazione degli art. 2055 e 2056 c.c., 156 e 158 l. n. 633 del 1941, 64 D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, per avere la corte d’appello ravvisato la responsabilità concorrente della galleria d’arte sulla base della mera contraffazione, affermando l’obbligo della stessa di verificare che le opere poste in vendita non integrino violazione dei diritti altrui, dunque con imputazione di una responsabilità sostanzialmente oggettiva, anche attesa l’opinabilità della materia, nonché sostenendo che il De Lutti avrebbe dovuto produrre quadri almeno dello stesso valore delle opere di Vedova per non essere reputato un plagiario; 4) violazione e falsa applicazione dell’art. 158 l. n. 633 del 1941, oltre ad omesso esame di fatto decisivo, in quanto il danno patrimoniale è stato liquidato col criterio della retroversione degli utili, affermando la corte del merito che ne potesse anche mancare ogni prova, e per una serie indefinita di quadri, senza verificare il plagio di ognuno di essi, e non avendo la sentenza impugnata tenuto conto del fatto che, mentre le opere di Vedova valgono centinaia di migliaia di euro, quelle del De Lutti sono valutate ciascuna al massimo euro 9.000, onde sono inidonee a scalfirne il prestigio ed il valore; 5) violazione degli art. 112 e 183, 6º comma, c.p.c., con nullità della sentenza, per avere la corte d’appello ritenuto che, sebbene l’atto di citazione in primo grado avesse richiesto il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per la violazione dei diritti di esclusiva, la domanda di risarcimento per la violazione dei «diritti all’identità morale e patrimoniale della fondazione», proposta in primo grado solo nella memoria ex art. 183 c.p.c., fosse stata correttamente reputata dal tribunale una mera precisazione ammessa della domanda di accertamento della violazione dei diritti di esclusiva sui quadri di Emilio Vedova, ed avendo la corte d’appello ritenuto infondata l’impugnazione, in quanto la fondazione avrebbe subito un danno all’immagine, quale danno non patrimoniale. Il ricorso incidentale condizionato reca due motivi, ovvero: 1) violazione o falsa applicazione degli art. 333 e 343 c.p.c., con nullità della sentenza, per avere la corte d’appello ritenuto che l’impugnazione principale proposta da O. potesse qualificarsi come impugnazione incidentale ammissibile; 2) violazione degli art. 112 e 326 c.p.c., con nullità della sentenza, per omessa pronuncia sull’eccezione di tardività dell’appello di Orler. 2. – Il primo ed il quinto motivo del ricorso principale, che, in quanto connessi, possono essere congiuntamente trattati, sono in parte inammissibili ed in parte infondati. 2.1. – Inammissibile, per difetto di autosufficienza, è la deduzione secondo cui il credito risarcitorio per violazione del diritto patrimoniale d’autore spetterebbe alla fondazione a condizione che la medesima fosse la proprietaria delle opere, oppure ad essa fossero stati trasmessi i diritti dall’artista sul corpus mysticum, quale bene intellettuale immateriale, che li avesse mantenuti pur dopo la cessione del corpus mechanicum, vale a dire la cosa in cui è incorporata l’opera e che la rende fruibile. Prima di ogni altra considerazione, invero, il mancato riferimento della sentenza impugnata a tale deduzione, nonché l’omessa indicazione, in questa sede, del luogo e del tempo dell’anteriore prospettazione, conducono alla declaratoria della sua inammissibilità, ai sensi dell’art. 366, 1º comma, n. 6, c.p.c. (ex multis, Cass. 15 giugno 2016, n. 12288; Cass. 15 luglio 2015), non senza doversi rilevare come sul punto, che non risulta essere stato prospettato adeguatamente al giudice del gravame, si sarebbe poi formato il giudicato interno. 2.2. – Quanto al danno non patrimoniale, va anzitutto disattesa la tesi della presunta mutatio libelli, allorché l’attrice in primo grado, che aveva in citazione richiesto il risarcimento dei «danni patrimoniali» e «non patrimoniali» patiti, provvide a precisare nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c. trattarsi, quanto ai secondi, della lesione non al diritto morale del pittore ex art. 20, l. n. 633/1941, ma del diritto spettante a titolo originario alla fondazione e, precisamente, del diritto alla propria identità personale ed alla «immagine», quale ente collettivo, per statuto preposto alla protezione e promozione della figura, della memoria e dell’opera di Emilio Vedova. È noto, infatti, che la persona giuridica e l’ente collettivo in genere ha titolo al risarcimento del danno non patrimoniale qualora l’altrui condotta ne leda i diritti della personalità, compatibili con l’assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, che identificano il soggetto dell’ordinamento o ne individuano la dimensione nel contesto sociale, quali sono i diritti alla reputazione e all’identità, determinando una diminuzione della considerazione e della stima di cui il soggetto gode nell’ambito sociale ed economico di appartenenza (cfr., ex multis, Cass. 1º ottobre 2013, n. 22396; Cass. 22 marzo 2012, n. 4542; Cass. 9 maggio 2011, n. 10125; Cass. 4 giugno 2007, n. 12929). Dunque, se la tutela dell’opera di un artista costituisce il compito istituzionale di una fondazione, ciò non può non estendersi all’azione giudiziale a salvaguardia di essa. La corte del merito ha ritenuto la fondazione legittimata attiva all’azione di risarcimento, in particolare, del danno non patrimoniale fatto valere, posto che essa non ha esercitato il diritto morale d’autore, di cui agli art. 20 e 23 l. n. 633 del 1941, ma un autonomo diritto «alla propria immagine», quale soggetto preposto a custodire l’opera del medesimo ed a diffonderne la corretta conoscenza. Se la seconda qualificazione va stigmatizzata, non propriamente di «immagine» trattandosi, ma di reputazione in un contesto sociale, resta fermo tuttavia che nessuna inammissibile mutatio libelli sussiste e che dunque la decisione impugnata si sottrae alla censura proposta. 3. – Il secondo motivo è infondato, sotto tutti i profili che esso propone. 3.1. – In primo luogo, correttamente la corte del merito ha discorso di plagio, con tale termine l’art. 171 l. n. 633 del 1941 definendo il fatto di chi «senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma, a) riproduce … un’opera altrui». Il plagio, dunque, si realizza con l’attività di riproduzione – si parla perciò di «appropriazione» – totale o parziale degli elementi creativi di un’opera altrui, così da ricalcare in modo «parassitario» quanto da altri ideato e quindi espresso in una forma determinata e identificabile. 3.2. – In secondo luogo, giova osservare come, secondo le elaborazioni degli interpreti, siano stati ormai in modo alquanto consolidato chiariti alcuni principi, che devono guidare il giudizio di fatto di comparazione tra le opere, per giungere ad una valutazione positiva o negativa di plagio. Anzitutto, trattandosi appunto di porre a raffronto due opere, alcune caratteri sono stati fissati per l’una come per l’altra. L’opera plagiata, da un lato, deve presentare i caratteri dell’originalità creativa riconoscibile, sebbene, come questa corte ha già ritenuto, il concetto giuridico di creatività, cui fa riferimento l’art. 1 l. n. 633 del 1941, non coincida con quello di creazione, originalità e novità assoluta, riferendosi, per converso, alla personale e individuale espressione di un’oggettività appartenente alle categorie elencate, in via esemplificativa, nell’art. 1 citata legge, di modo che un’opera dell’ingegno riceva protezione a condizione che sia riscontrabile in essa un atto creativo, seppur minimo (Cass. 28 novembre 2011, n. 25173; Cass. 12 marzo 2004, n. 5089). Inoltre, non si tutela l’idea in sé, ma la forma della sua espressione, ovvero della sua soggettività, di modo che la stessa idea può essere alla base di diverse opere che sono o possono essere diverse per la creatività soggettiva che ciascuno degli autori spende e che, in quanto tale, rileva ai fini della protezione (Cass. 28 novembre 2011, n. 25173). Non si parla, dunque, di plagio con riguardo all’idea su cui l’opera Sentenze annotate n Parte prima NGCC 7-8/2018 985 Sinergie Grafiche S.r.l. si fonda, non proteggendo la disciplina sul diritto d’autore l’idea in sé (ottenibile anche fortuitamente, come autonomo risultato dell’attività intellettuale di soggetti diversi e indipendenti), trovando invece esso il presupposto nell’identità di «espressione», intesa come forma attraverso la quale si estrinseca il contenuto del prodotto intellettuale, meritevole di tutela allorché rivesta il carattere dell’originalità e della personalità: le idee per sé stesse non ricevono protezione nel nostro ordinamento, ma è necessario che sia identico il modo in cui sono realizzate e cioè la forma esterna di rappresentazione. Per quanto riguarda l’opera plagiaria, dall’altro lato, secondo criteri giocoforza più complessi, si ritiene che: – perchè essa sia tale deve, in sintesi, essere priva di un c.d. scarto semantico, idoneo a conferirle rispetto all’altra un proprio e diverso significato artistico, in quanto abbia dall’opera plagiata mutuato il c.d. nucleo individualizzante o creativo (cfr. Cass. 19 febbraio 2015, n. 3340); in sostanza, è necessario che l’autore del plagio si sia appropriato degli elementi creativi dell’opera altrui, ricalcando in modo pedissequo quanto da altri ideato ed espresso in forma determinata e identificabile; al contrario, è esclusa la sussistenza del plagio, allorché la nuova opera si fondi sì sulla stessa idea ispiratrice, ma si differenzi negli elementi essenziali che ne caratterizzano la forma espressiva; – la verifica va operata sulla base del riscontro delle difformità dalle caratteristiche essenziali, mentre non sono sufficienti originalità di mero dettaglio dell’opera plagiaria (Cass. 15 giugno 2012, n. 9854; Cass. 28 novembre 2011, n. 25173; Cass. 27 ottobre 2005, n. 20925; Cass. 10 marzo 1994, n. 2345; Cass. 10 maggio 1993, n. 5346): dunque, non sussiste il plagio qualora due opere, pur avendo in comune il c.d. spunto o motivo ispiratore, differiscano quanto agli ulteriori elementi caratterizzanti ed essenziali, permanendo viceversa il plagio anche quando esso sia «camuffato» (o «mascherato») mediante varianti solo apparenti; – non rileva in sé la confondibilitá tra due opere, alla stregua del giudizio d’impressione utilizzato in tema di segni distintivi dell’impresa, ma la riproduzione illecita di un’opera da parte dell’altra (Cass. 15 giugno 2012, n. 9854; Cass. 27 ottobre 2005, n. 20925); – il giudizio deve seguire una valutazione complessiva e sintetica, non analitica, incentrata sull’esame comparativo degli elementi essenziali delle opere da confrontare, dovendosi cioè valutare il risultato globale o l’effetto unitario; – si tratta di giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità (Cass. 27 ottobre 2005, n. 20925): il giudizio relativo ad opere d’arte contemporanea, quali quelle per cui è causa, caratterizzate dall’impiego di materiali, forme, concezioni relativamente agevoli da riprodurre, viene svolto di regola mediante espletamento di una consulenza tecnica, dal giudice fatta propria; in ogni caso, la riproposizione, in sede di legittimità, delle valutazioni e degli apprezzamenti di merito è inammissibile (cfr. Cass. 26 maggio 2016, n. 10937). Ciò posto, la sentenza impugnata si sottrae a tutte le critiche avanzate. Rispetto alle opere plagiate, essa ha applicato i principi predetti, avendo offerto tutela non al contenuto dell’idea come tale, ma proprio alla sua espressione concreta. La corte d’appello ha ritenuto necessaria all’ipotesi di plagio l’identità di essenza rappresentativa tra le opere, premettendo proprio che il plagio resterebbe escluso nel caso di spunto comune tratto dal patrimonio di pensiero e di idee proprio di tutti, di cui nessuno può rivendicare la paternità, e sia nel caso di disuguaglianza di risultato espressivo. Né può predicarsi un diverso e più ampio criterio, come il ricorso richiederebbe, con riguardo alla corrente artistica della c.d. arte informale, secondo la Orler qualificabile radicalmente come «non-arte» o «arte antiformale»: concordi o no che siano gli esperti del settore con tali ulteriori definizioni, non si potrebbe non convenire nel senso che, pur quando l’idea artistica si esprima e si concreti mediante linee, segni o aree di macchie o colori, non immediatamente riproduttive di nessuna forma del reale così come questo risulterebbe da una fotografia, ma piuttosto trasfigurandolo ed interpretandolo in maniera affatto originale, resta che proprio la potenza di questa personalissima interpretazione e trasfigurazione va giuridicamente tutelata. Parimenti, per quanto attiene alle opere plagiarie, la corte territoriale, sia sulla base della consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado, sia dall’esame diretto dei documenti in atti, ha ravvisato l’esistenza del plagio: ciò, quanto all’opera «Oltre la tela», per essere la medesima «quasi del tutto sovrapponibile» al «Ciclo ‘62- BB9», con ampia descrizione delle identità di posizione dei piani, masse cromatiche, proporzioni, aggiungendo che le minime diversità riscontrate, fuor che costituire segno di rielaborazione creativa, appaiono semplificanti o commerciali (come le minori dimensioni); quanto ai c.d. dischi, la tecnica è la medesima, con ripetizione dei moduli stilistici privi di significato artistico diverso. In tal modo, la corte del merito si è pienamente attenuta ai su esposti principi, focalizzandosi sulle caratteristiche essenziali delle opere ed operandone una valutazione complessiva, pur dopo l’analisi del dettaglio, e, infine, evidenziandone elementi tutt’affatto che generici, anzi precisi e significativi, proprio per il tipo di corrente artistica imitata. 4. – Il terzo motivo è infondato. La corte del merito ha applicato il condivisibile principio secondo cui, in ipotesi di violazione dei diritti morali e patrimoniali d’autore, sono solidalmente responsabili tra loro tutti i soggetti che hanno dato un contributo rilevante all’illecito, ai sensi dell’art. 2055 c.c., ivi compreso, dunque, oltre all’autore materiale del plagio, anche il soggetto che abbia commercializzato le opere nell’ambito della propria attività imprenditoriale: nella specie, la galleria d’arte, che le abbia esposte e vendute, sia in via diretta, sia mediante il veicolo della c.d. televendita. Ha aggiunto la corte del merito che proprio quest’ultimo strumento palesava una particolare idoneità lesiva, attesa la diffusione che permette nella distribuzione dell’opera plagiaria. Accertata, dunque, l’esistenza oggettiva del plagio, in ragione dell’appropriazione degli elementi essenziali dell’altrui opera pittorica e creativa, in presenza di determinanti ed indubbi elementi di identità, non è viziata da errore di diritto la deduzione circa il concorso nella produzione del danno da parte del gallerista, quanto meno a titolo di colpa, dovendo egli rispondere in solido con l’autore delle opere plagiarie, per la violazione del dovere fondamentale di diligenza qualificata, di cui all’art. 1176 c.c., con il conseguente obbligo del risarcimento del danno cagionato. Tutt’altro, dunque, che un’imputazione non consentita di responsabilità oggettiva, ma accertamento compiuto di una responsabilità colpevole per l’inadempimento ai doveri di diligenza gravanti sul gallerista d’arte, in ragione della natura dell’attività esercitata. Questa corte ha già ritenuto, in diversa fattispecie, che la buona fede del venditore di un’opera d’arte erroneamente attribuita ad un autore determinato non ne esclude, di per sé, la colpa, e la conseguente responsabilità per l’inadempimento, se non sia in concreto provato, ai sensi dell’art. 1218 c.c., che l’errore avrebbe potuto essere evitato con l’ordinaria diligenza di cui all’art. 1176 c.c. (Cass. 3 luglio 1993, n. 7299). Pur trattandosi, nella specie, di responsabilità aquiliana e non contrattuale, dunque senza inversione dell’onere della prova in ordine all’elemento soggettivo della fattispecie, il concorso colposo del gallerista è stato correttamente individuato nel non avere egli rilevato, con la specifica diligenza professionale, la palese imitazione delle opere di Vedova. Occorre, al riguardo, ricordare, per la corretta ricostruzione del sistema, che l’art. 64 D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, codice dei beni culturali e del paesaggio, pone a carico di chi esercita l’attività di vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita di opere (fra l’altro) di pittura l’obbligo di consegnare all’acquirente gli attestati di autenticità e di provenienza, o, in mancanza, una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili al riguardo. Tale previsione vale tanto più ad evidenziare la particolare professionalità e serietà che si richiede a chi svolge una simile attività, con la correlata fiducia in essi riposta. Né la corte d’appello ha mai affermato, contrariamente all’assunto della ricorrente, la quale al riguardo non coglie l’esatta ratio decidendi della decisione impugnata, che per escludere il plagio le opere plagiarie avrebbero dovuto almeno valere sul mercato quanto quelle plagiate: con conseguente inammissibilità della censura. 5. – Il quarto motivo è infondato. La corte del merito ha fatto applicazione del principio secondo cui, a norma dell’art. 158 l. n. 633 del 1941, la quantificazione del danno subito dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un’opera, di cui sia rimasto accertato il plagio, avviene da parte del giudice facendo uso del «potere-dovere di commisurarlo, nell’apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al beneficio tratto dall’attività vietata, che assurge ad utile criterio di riferimento del lucro cessante, segnatamente quando esso sia correlato al profitto del danneggiante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo» (Cass. 29 maggio 2015, n. 11225). Essa ha altresì precisato che si trattò di liquidazione del danno patrimoniale secondo criteri equitativi, sulla base appunto della considerazione del vantaggio conseguito dagli autori dell’illecito. Del resto, proprio quando, come nella specie, tra prodotto originale e prodotto plagiario sussista una notevole differenza di prezzo, tale da non consentire di ritenere con necessaria certezza che il numero di prodotti venduti corrisponda ad un identico numero di prodotti originali non venduti, il danno patrimoniale risarcibile può essere individuato tenendo quantomeno conto degli utili realizzati. Ne consegue che l’affermazione della corte del merito, secondo cui, in tal caso, il danno non va provato, costituisce un argomento ad abundantiam, irrilevante nell’economia della decisione ed avverso il quale il motivo si palesa dunque inammissibile. La doglianza relativa alla quantificazione del danno sulla base di un esame solo limitato di talune delle opere è, d’altro canto, inammissibile per difetto di autosufficienza, non risultando prima proposta, né il luogo ed il tempo della pregressa deduzione; onde, per lo stesso motivo, neppure può integrare la fattispecie di cui all’art. 360, 1º comma, n. 5, c.p.c., sotto il profilo del fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti. Infine, la deduzione concernente il ridotto valore delle opere plagiarie, rispetto a quello ingente degli originali, non rileva ai fini della quantificazione del danno, che appunto dal prezzo di vendita delle prime, e non delle seconde, ha tratto fondamento e che non vale ad escludere il pregiudizio. 6. – Il ricorso incidentale condizionato resta assorbito. (Omissis)
Il poeta latino Marziale fu il primo ad utilizzare il termine “plagiarius” in riferimento ad una fattispecie che oggi si potrebbe definire quale “usurpazione di paternità”, ma che al tempo evocava un istituto del diritto romano disciplinato e punito dalla Lex Flavia de plagiariis, in base alla quale si puniva con la pena capitale o con i lavori forzati il comportamento criminoso di chi “con violenza o frode, vendeva o comprava o donava o accettava come dote un cittadino quale schiavo, ovvero si appropriava dello schiavo altrui”.
Successivamente, nell’epigramma 1.53, 18, che recita “Indice non opus est nostris nec iudice libris, stat contra dicitque tibi tua pagina «Fur es»”, il poeta Marziale si riferisce al plagio in termini di vero e proprio furto. ↑G. Dore, Plagio e diritto d’autore. Un’analisi comparata e interdisciplinare, Milano, 2021, cit. p. 3. ↑
Una storica sentenza del Tribunale di Napoli stabilisce infatti che “le leggi sui diritti di autore nel proteggere le opere di arte non possono prevedere tutte le conquiste che all’uomo è dato di fare nel dominio dell’arte: l’arte è infinita come il suo oggetto” (Trib. Napoli, 21.05.1906, in Filangieri, 1907, p. 310). ↑
G. Liberati Buccianti, La Cassazione su plagio artistico e arte informale, in La nuova giurisprudenza civile commentata, XXXIV, 7-8/2018, p. 988. ↑
Il termine “informale” è stato coniato nel 1951 dallo studioso francese Michel Tapiè ed è prevalso in virtù della sua genericità. Le altre denominazioni possibili erano Art Autre, che evidenziava la distanza assoluta di questo tipo di arte dalle precedenti, oppure Tachisme, che fa riferimento a un modo particolare di distribuire il colore a macchie. Il termine informale, però, a differenza degli altri proposti era perfettamente in linea con l’essenza della nuova corrente: l’informale è, infatti, una concezione ribelle dell’arte perché “rifiuta la forma” ed interviene direttamente nella materia con segni espressivi e gesti spontanei del “qui ed ora” da esprimersi nel modo più libero, spontaneo e violento possibile, abbandonando ogni genere di regola precostituita. ↑
La dottrina sottolinea che la complessità del mondo dell’arte contemporanea è dovuta soprattutto al fatto che la stessa si presenta nelle forme del “private market”, il quale risulta difficilmente regolamentabile non soltanto per via della particolare natura dei beni scambiati, ma anche a causa del carattere soggettivo nella determinazione dei prezzi, delle asimmetrie informative che lo caratterizzano, dei conflitti di interesse che vi si annidano e, in generale, delle opacità del mercato stesso. (A. Barenghi, L’attribuzione di opere d’arte. Vero o falso, in Corr. Giur. n. 8-9/2019, p. 1093 e ss.). ↑
Cfr. ex multis, Cass. civ., 28.11.2011, n. 25173, in Foro.it, 2012, I, p. 74 ai sensi della quale “il concetto giuridico di creatività, cui fa riferimento l’art. 1 della legge n. 633 del 1941, non coincide con quello di creazione, originalità e novità assoluta, riferendosi, per converso, alla personale e individuale espressione di un’oggettività appartenente alle categorie elencate, in via esemplificativa, nell’art. 1 della legge citata, di modo che un’opera d’ingegno riceva protezione a condizione che sia riscontrabile in essa un atto creativo, seppur minimo, suscettibile di manifestazione nel mondo esteriore” e, dunque, “la creatività non è costituita dall’idea in sé, ma dalla forma della sua espressione, ovvero dalla sua soggettività”. ↑
L’articolo 9.2 TRIPS prevede che “Copyright protection shall extend to expressions and not to ideas, procedures, methods of operation or mathematical concepts as such”. Sul punto, cfr. in dottrina: R. Mongillo, Opere dell’ingegno. Idee ispiratrici e diritto d’autore, Napoli, 2015. ↑
M. Bertani, Diritto d’autore europeo, Torino, 2011, p. 106 e ss. ha sottolineato che, in realtà, gli artt. 9.2 TRIPS e 2 WTC non fanno altro che esplicitare una regola generale ragionevolmente sottintesa ed implicitamente ricavabile da tutta l’ulteriore disciplina del diritto d’autore europeo, come, ad esempio, dall’art. 2, comma 8, CUB; dall’art. 1.2 e dal considerando 11 della Dir. 24/2009, così come analogamente dall’art. 2, n.8, l.a. e dall’art. 3.2 Dir. 9/1996. ↑
M. S. Spolidoro, I criteri di accertamento del plagio nel diritto d’autore, in Riv. di dir. ind., 2019, p. 580 e ss. ↑
La c.d. appropriation art si riferisce alla pratica artistica di riutilizzare immagini, oggetti ed opere d’arte preesistenti, apportando significative modificazioni agli stessi. La storia dell’appropriazionismo dell’arte ha inizio sin dal Cubismo, in cui due dei suoi massimi esponenti, Picasso e Braque, utilizzavano oggetti del reale, quali per esempio frammenti di giornali, per formare i loro collage. Non solo. Marcel Duchamp, dal 1917, già realizzava il suo ready-made Fountaine, dove un orinatoio si trasformò in vera e propria opera d’arte, finché la pop art negli anni ’50 non ha iniziato a saccheggiare tutto il mondo delle immagini della cultura di massa per creare nuove opere d’arte in un’epoca consumistica che voleva snaturare il concetto stesso di “esclusiva”. Oggi, la casistica di questa corrente artistica è particolarmente ampia: si pensi alla notissima Gioconda con i baffi di Marcel Duchamp (L.H.O.O.Q.) o ai famosi casi di Giacometti c. Baldessari (Trib. Milano, ord. 13.7.2011, in Giur. Comm, II, 2013); Sanguinetti c. Kambalou (Trib. Venezia, ord. 7.11.2015, in Riv. dir. ind., 2018). ↑
La Corte di Cassazione nella sentenza in esame continua affermando al punto III che “la verifica va operata sulla base del riscontro delle difformità delle caratteristiche essenziali, mentre non sono sufficienti originalità di mero dettaglio nell’opera plagiaria: dunque non sussiste il plagio qualora due opere, pur avendo in comune il c.d. spunto o motivo ispiratore, differiscano quanto agli ulteriori elementi caratterizzanti ed essenziali, permanendo viceversa il plagio anche quando esso sia camuffato o mascherato mediante varianti solo apparenti.”
Per completezza, si richiamano i precedenti giurisprudenziali della stessa Corte di Cassazione sul tema in esame: ex multis, Cass. civ., 15.06.2012, n. 9854, in Dir. aut., 2012, p. 350; Cass. civ., 28.11.2011, n. 25173, in Foro.it, 2012, I, p. 74; Cass. civ., 27.10.2005, n. 20925, in Foro.it, 2006, I, p. 2081.
Sempre sul concetto di scarto semantico, cfr. anche Cass. civ., 19.02.2015, n. 3340, in Corr. Giur., 2003, p. 1475. ↑Sul punto, cfr. Cass. civ.., sez. III, 19.02.2015, n. 3340, ai sensi della quale “in tema di plagio di un’opera musicale, la riproduzione di un frammento di una canzone in un’altra non costituisce di per sé un atto di plagio, occorrendo accertare se il frammento, inserito nel nuovo testo, conservi una identità di significato poetico-letterario ovvero se, al contrario, evidenzi, in modo chiaro e netto, uno scarto semantico ed un diverso significato artistico rispetto a quello che aveva nell’opera anteriore”. ↑
Cosí lucidamente nota M. S. Spolidorio, op. cit., p. 588. ↑
Di diversa opinione è la dottrina di G. Liberati Buccianti, op. cit., p. 990 e ss. L’Autore, ricordando vari precedenti della Corte di Cassazione, tra cui in particolare la nota pronuncia della sez. III, n. 3340, del 19 febbraio 2015, circa il famoso caso del plagio musicale della canzone “Prendi questa mano zingara”, considera il criterio dello “scarto semantico” determinante per individuare il confine tra illecito di plagio e lecita rielaborazione dell’opera. In effetti, dopo una querelle ventennale, la Cassazione nel caso richiamato ha escluso l’ipotesi di plagio da parte del De Gregori poiché, malgrado la somiglianza letterale tra il testo del cantante romano e quello originario cantato dalla Zanicchi, il primo aveva cambiato completamente il significato dell’opera, aggiungendo una nuova strofa e sostituendo dei vocaboli. Era, insomma, secondo la Corte, esistente un valido scarto semantico tra le due canzoni in quanto la mera presenza di parole differenti è di per sé idonea (e sufficiente) a distinguere, in termini di plagio, il nuovo testo da quello originario. La sentenza che ivi annotiamo, invece, insiste per una tutela iper-protezionista del diritto d’autore e si oppone, dunque, alla menzionata pronuncia della Cass. civ., sez. III, n. 3340, 19.02.2015 ripercorsa nello scritto di G. Liberati Buccianti. ↑
Al riguardo, cfr. Cass. civ., sez. I., 26.05.2016, n. 10937, in Foro.it., 2016, I, p. 2409 ai sensi della quale il giudice deve tenere in considerazione la consulenza tecnica ai fini della valutazione dell’autenticità di un’opera d’arte e che è, in aggiunta, inammissibile in sede di giudizio di legittimità una riesamina e rivalutazione degli apprezzamenti posti in essere nella fase del merito da parte del perito. ↑
Si noti che in alcune rare ipotesi, il rapporto tra il gallerista e l’acquirente viene cristallizzato nella forma giuridica del “contratto estimatorio” (ai sensi degli artt. 1556, 1557 e 1558 c.c.) per cui “una parte consegna una o più cose mobili all’altra e questa si obbliga a pagarne il prezzo, salvo che restituisca le cose nel termine stabilito”. ↑
A tal proposito, si noti che i precedenti gradi del Tribunale di Milano e della Corte di Appello di Milano avevano ravvisato che proprio l’utilizzo dello strumento della televendita rappresentava una particolare idoneità lesiva, attesa la rapida diffusione che un tale mezzo consente nella distribuzione dell’opera plagiaria. ↑
Cass. Civ., sez. II, 03.07.1993, n. 7299, in Giust. Civ., 1994, I, p. 1925. ↑
Si noti come, invece, nell’ambito delle vendite all’asta è molto frequente la previsione di una clausola c.d. di limitazione di responsabilità, in cui si esplicita che ciò che viene consegnato dalla casa d’aste, in quanto venditore per conto terzi, non è una dichiarazione di autenticità, bensì una mera opinione. Ad ogni modo, si ritiene opportuno precisare che l’accettazione dei limiti di responsabilità del venditore attraverso apposite clausole, nei modi anzidetti, perché sia valida, deve essere specificatamente approvata per iscritto dall’acquirente ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c. ↑
Cass. Civ., sez. II, 3 luglio 1993, n. 7299, in Giust. Civ., 1994, I, p. 1925. ↑
A proposito del danno patrimoniale sofferto dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un’opera, di cui sia rimasto accertato il plagio, si è espressa la Cass. civ., 29.05.2015, n. 11225. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che la quantificazione del danno avviene da parte del giudice “facendo uso del potere-dovere di commisurarlo, nell’apprezzamento delle circostanza del caso concreto, al beneficio tratto dall’attività vietata, che assurge a criterio utile di riferimento del lucro cessante, segnatamente quando esso sia correlato al profitto del danneggiante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo”. ↑
Nel caso di specie, gli eredi dell’artista plagiato sono rappresentati da una fondazione, la quale risulta comunque legittimata iure proprio a richiedere il risarcimento del danno anche non patrimoniale, per tale intendendosi la lesione del diritto alla reputazione in un determinato contesto sociale e non la lesione del diritto morale del pittore. Sul punto, oltre la giurisprudenza di legittimità che annotiamo, si sono espresse anche Cass. civ., 04.04.2017, n. 8662, in Danno e resp., 2017, p. 481; Cass. civ., 01.10.2013, n. 22396, in Danno e resp., 2014, p. 895. In dottrina, invece, cfr. S. Nobile De Santis, Danno non patrimoniale e persona giuridica privata, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2015, II, p. 339 e ss. ↑
Sul punto, cfr. Cass. civ., 4.02.2000, n. 1240, in Giur.it., 2000, p. 1662. In aggiunta, nella giurisprudenza della Cass. civ., 18.09.2015, n. 18313, in Massima redazionale, 2015, si parifica il perito ad un consulente tecnico d’ufficio. ↑
La teoria della responsabilità da contatto sociale è stata enunciata, per la prima volta, da parte della storica sentenza della Cass. civ., 22.01.1999, n. 589, la quale ha sovvertito i consueti parametri di giudizio in tema di responsabilità civile del medico dipendente dal servizio sanitario, attestandosi sulla tesi della natura contrattuale della responsabilità derivante dall’attività medica. ↑
Il settore che ha nel tempo, proprio in virtù della ricchezza delle questioni che presenta, offerto un utile laboratorio di analisi al giurista è quello medico, che viene valorizzato tanto per la raffinatezza tecnico-scientifica che lo caratterizza quanto per il profilo c.d. esistenziale che lo connota. La responsabilità medica, attualmente, soggiace ad uno statuto specifico, affidato, dopo un tormentato itinerario giurisprudenziale e normativo, alla l. 8.03.2017 n. 24 e integrata dalla l. 22.12.2017 n. 219, la quale ultima ha esteso il contenuto della relazione di cura all’informazione. Sul punto, C. Scognamiglio, Il nuovo volto della responsabilità del medico. Verso il definitivo tramonto della responsabilità da contatto sociale?, in Responsabilità medica. Diritto e pratica clinica, 1/2017.
Analoga casistica circa la responsabilità da contatto sociale, tuttavia, si trova anche in settori specifici che non presentano il carattere “esistenziale” che distingue l’ambito medico-sanitario: si pensi al caso della responsabilità dell’insegnante a seguito delle auto-lesioni inflitte dall’allievo, la quale ultima secondo la Corte di Cassazione non potrebbe inquadrarsi nel fenomeno dell’art. 2048 c.c. quale forma di responsabilità oggettiva del precettore per il danno dell’allievo verso terzi (cfr. Cass. civ., n. 3612/2014, ma anche Cass. civ., 19158/2012). O ancora, si pensi alla responsabilità del banchiere per avere pagato un assegno non trasferibile ad un soggetto non titolare. In tale ultimo caso, si ravvisa un contatto sociale tra il titolare effettivo del pagamento e la banca trattaria, in cui l’impiegato di quest’ultima si presume dotato di quelle necessarie competenze tecniche che gli impongono di accertare la legittimazione del soggetto che si presenta per l’incasso ai sensi dell’art. 1172, secondo comma, c.c. Sempre adottando la medesima interpretazione, anche il mediatore tipico sarà soggetto alla responsabilità contrattuale dell’art. 1218 c.c. nel caso di violazione degli obblighi da contatto sociale.
In dottrina, per una lucida ricostruzione della responsabilità del professionista qualificato, cfr.: R. Calvo, Expertise degli strumenti ad arco e affidamento nel prisma della responsabilità senza contratto, in Contr. impr., 2010, p. 8 ss. ↑Al riguardo, cfr. ex multis Cass. civ., 31.07.2015, n. 16275 ai sensi della quale “la responsabilità del professionista è limitata alle sole ipotesi di dolo o colpa grave qualora l’esecuzione della prestazione d’opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, nozione che ricomprende non solo la necessità di risolvere problemi insolubili o assolutamente aleatori, ma anche l’esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza”. ↑
R. Calvo, op. cit., p. 7 e ss. ↑
S. Faillace, La responsabilità da contatto sociale, Padova, 2004, p. 162 e ss. L’Autore ricorda che si è tentato di allargare l’estensione della figura da contatto sociale anche all’impresa che abbia una posizione economica di una tale rilevanza da indurre un affidamento specifico nei suoi interlocutori. Ciò è stato prospettato al fine ultimo di qualificare come “responsabilità da contatto” anche l’ipotesi della società controllante, che mette una dichiarazione di patronage cosiddetta debole. Ma a tale impostazione, come ricorda lo stesso Autore, sembra potersi validamente eccepire il fatto che il patronnant non è un soggetto istituzionalmente preposto a fornire informazioni corrette o veritiere al suo diretto interlocutore. ↑
L’art. 85 l.a. non stabilisce a chi spetti la titolarità dei diritti non patrimoniali, ma per applicazione analogica dell’art. 23 della medesima legge si può ipotizzare che gli stessi debbano essere allocati in capo agli stretti congiunti dell’artista. Sul punto, cfr. M. Bertani, Diritto d’autore europeo, Torino, 2011, p. 326 e ss. Ancora, G. Dore, op. cit., p. 85 sostiene che i diritti morali d’autore possono essere esercitati dai congiunti dell’autore defunto, in virtù di un loro autonomo diritto a proteggere la memoria dell’autore. ↑
L’azione giurisdizionale di tutela dei diritti morali, invece, puó essere esercitata senza incorrere in limiti di prescrizione. Sul punto, cfr. A. PIETROLUCCI, Sul concetto di indisponibilità del diritto morale, in Dir. Autore e Nuove Tecnologie, 2005, 2, p. 145. ↑
Sul punto, cfr. in dottrina C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, II, Milano, 1997, p. 177 e ss.; ID., L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in Aa. Vv., Studi in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995, p. 147 e ss. ↑
Nel caso del diritto morale d’autore, infatti, parte della dottrina ritiene che, pur non essendovi alcun riferimento esplicito nella Costituzione ad un tale diritto, è comunque possibile rintracciarne un fondamento costituzionale negli artt. 2, 4, 9, 21 e 33 Cost., la cui lettura attenta consente di rinvenire una solida base costituzionale per il diritto morale; oppure negli artt. 9, 21, 33 e 42, in riferimento alla legittimità delle norme sulle eccezioni e limitazioni al diritto d’autore. Sul punto, G. Dore, op. cit., p. 81. Si discute, inoltre, se il diritto morale, oltre a tutelare gli interessi personali e individuali dell’autore, possa altresì tutelare l’interesse pubblico, in particolare a non essere tratto in inganno da informazioni errate sulla paternità di un’opera. Su tale ultimo aspetto, cfr. G. Dore, op. cit., p. 81, ma anche M. FABIANI, Note in tema di diritto d’autore, interesse sociale e tutela della personalità, in Dir. autore, 1975, p. 163; L. DI FRANCO, La socializzazione del diritto di autore nella nuova legge italiana, in Riv. dir. comm. 1943, II, p. 166. ↑