Riccardo Coletta
Dottorando di ricerca in diritto processuale civile dell’Università degli Studi di Macerata
Muovendo dal confronto fra realtà giuridica e realtà artistica, il saggio ripercorre le linee fondamentali del pensiero di Carnelutti, Satta e Capograssi sul tema della ricerca dei principi generali dell’ordinamento. La capacità del diritto di rappresentare tali principi solleva gli interrogativi sul fine della scienza e sulla funzione del processo.
Starting with a comparison between legal and artistic reality, this essay examines Carnelutti, Satta, and Capograssi’s perspectives on the quest for fundamental principles in the legal system. The law’s ability to represent such principles raises important questions about the purpose of legal science and the role of the trial.
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Funzione e struttura del diritto in Carnelutti. Legge giuridica e legge naturale a confronto. – 3. (Segue). Il diritto come potenza rappresentativa. – 4. Interpretazione e ricerca dei principi del diritto in Satta e Capograssi. – 5. La scienza del diritto quale risposta all’esigenza di ordinare l’esperienza giuridica. – 6. (Segue). Note sul fine della scienza giuridica. – 7. Giurisdizione e processo: l’affermazione dell’unità dell’ordinamento nel caso concreto. – 8. Conclusioni.
1. «Si sarebbe tentati di dire che il diritto è nel mondo delle forme visibili quel che l’arte è nel mondo delle forme invisibili» affermava Satta nella relazione al quarto convegno dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile del 1958[1].
Cosa intendesse esprimere questo studioso sulla forma del diritto – e, da ultimo, sul diritto stesso[2] – attraverso il paragone con l’arte, lo si può provare a cogliere mediante il confronto con le riflessioni avviate alcuni anni addietro da Carnelutti.
In particolare, risale al 1949 un volumetto intitolato Arte del diritto[3], originariamente scritto in lingua spagnola e successivamente tradotto in italiano, con cui l’autore si propone di chiarire – a sé stesso, prima ancora che agli altri[4] – i rapporti tra il diritto e l’arte[5].
«Studiare il diritto o l’arte» scrive quest’ultimo «significa aggredire da due lati diversi il medesimo problema (…). Il medesimo problema, dico, sotto il profilo della funzione e della struttura. L’arte come il diritto servono a ordinare il mondo»[6].
L’accostamento tra il diritto e l’arte, che emerge in modo dirompente dalle riportate citazioni, pare offrire un momento di contatto nel pensiero dei due autori[7]. Gli stessi, infatti, trovano nei confronti tra questi due ambiti dell’agire umano apparentemente lontani un’occasione per interrogarsi su alcune questioni fondamentali della riflessione giuridica[8].
In questi termini, il paragone con l’arte, lungi dal rappresentare un mero artificio retorico, offre la porta di accesso alla dimensione esistenziale ed umana del diritto, e con essa ai principi che costituiscono la profonda unità dell’ordinamento.
Il presente contributo, in questi termini, cercherà di tratteggiare le linee fondamentali delle riflessioni di questi autori – idealmente uniti dalla figura di Capograssi[9] – attorno ai concetti di diritto, scienza, e processo, quali componenti del più ampio panorama dell’esperienza giuridica. Nondimeno, chi scrive avverte sin da subito la necessità di precisare che, stante l’altissima caratura scientifica degli studiosi qui in analisi, sarebbe pressoché impossibile offrire in questo spazio una trattazione non solo complessiva della loro visione sui temi in questione, ma anche un’illustrazione che, procedendo spesso per confronti, rinvenga tra loro una costante univocità di pensiero nei profili di volta in volta affrontati.
2. Fatte queste premesse, pare opportuno avviare la trattazione con l’analisi della richiamata affermazione secondo cui lo studio del diritto, come dell’arte, ha ad oggetto la sua struttura e la sua funzione.
Carnelutti ricostruisce la funzione e la struttura del diritto attraverso un confronto tra legge giuridica e legge naturale, volto a coglierne differenze ed analogie. Chiarito il suo dissenso rispetto all’impostazione della reine Rechtslehre sul tema[10], l’autore nota come entrambe le leggi descrivano relazioni di causalità tra due termini di un complesso.
Dal punto di vista della struttura, infatti, legge giuridica e legge naturale si equivalgono, esprimendo entrambe il rapporto tra un prius ed un post: «Quando il naturalista dice: posto che un uomo è nato deve morire, è lo stesso che se il giurista dichiara: posto che un uomo ha ucciso deve essere ucciso»[11].
Di contro, tale equivalenza sembra attenuarsi sotto il profilo della funzione. La legge giuridica, in questa prospettiva, parrebbe superare quella naturale poiché meglio di quest’ultima farebbe trasparire il proprio scopo. In altre parole, la legge giuridica, sia pure in maniera ancora implicita, sarebbe in grado di chiarire maggiormente la relazione di finalità che intercorre tra i due termini che compongono la sua struttura.
Ciò posto, perché la legge giuridica possa trasformarsi in diritto, occorre l’opera di un interprete che, riuscendo a cogliere il principio costitutivo, le asserzioni implicite, nonché le relazioni di finalità in questa insite, le renda esplicite ed intellegibili. In ciò, si coglie il rapporto tra il giurista e l’artista: «Arte è quella degli uomini, che cercano di rappresentare agli altri le leggi dello spirito come le leggi della natura»[12].
3. L’osservazione ora riportata merita alcune riflessioni più approfondite. Ciò che sembra accomunare il giurista e l’artista consiste nell’opera di ricerca e rappresentazione del proprio oggetto di studio.
Al pari dell’artista, il giurista è un’interprete che si occupa di individuare tra gli elementi particolari e molteplici della propria esperienza ciò che vi è di essenziale, ossia ciò che guida ed infine unisce i suddetti elementi, per poi farne rappresentazione agli altri individui[13]. Secondo questa concezione, infatti, l’interpretazione non è una prerogativa esclusiva del diritto, assumendo la figura dell’interprete un posto di rilievo pure nella fenomenologia dell’arte[14].
Ciò che cambia nelle due forme di interpretazione è solo il medium utilizzato, ossia il mezzo di rappresentazione di cui viene a servirsi l’interprete. Mentre per il giurista «il mezzo di rappresentazione (…) è la parola»[15], il che rende la sua un’arte discorsiva, per l’artista, invece, il mezzo può assumere di volta in volta forme differenti.
In questi termini, ciò che accomuna il diritto e l’arte è dato dalla loro «potenza rappresentativa»[16], resa atto attraverso l’opera dei loro interpreti.
Muovendo ancora dal pensiero del co-fondatore della Processuale (già civile), si osserva come la «potenza rappresentativa» del diritto trovi espressione in due distinti momenti.
Da un lato, attraverso l’attività dell’interprete, il diritto è in grado di raffigurare del suo modello (la legge) ciò che in esso vi è di esplicito e di implicito: una volta descritto il dato, il giurista ricerca i principi. Tale ultimo aspetto viene approfondito in particolare nel saggio Matematica e diritto (1951) dove l’autore– di nuovo, attraverso un paragone[17] –, evidenzia il significato e l’importanza di questo compito. A fronte di una legge non in grado, da sola, di servire al proprio scopo[18] – evidenza, quest’ultima, che si palesa di fronte alla considerazione per cui, se l’ordinamento giuridico non consistesse che nelle norme esistenti, i casi non previsti rimarrebbero privi di regolamento –, è lo strumento dell’interpretazione, specialmente di tipo analogico, ad integrare l’esistente con la possibilità: «Interpretazione ed analogia, esigenze elementari dell’ordinamento giuridico, inteso come complesso di norme, implicano, in ultima analisi, la ricerca dei principi e, come mezzo al fine la ricostruzione del diritto»[19].
Da un secondo punto di vista, inoltre, la potenza rappresentativa si manifesta nel profilo temporale, avendo il diritto la capacità non solo di descrivere, ma anche di preannunciare ai soggetti i risultati giuridici del loro agire, prima ancora che essi si producano.
Così, nella sua potenza rappresentativa, il diritto stabilisce un ampliamento del presente, inglobando in sé quella porzione di futuro oggetto di rappresentazione: «La potenza rappresentativa della legge giuridica e pertanto dell’arte del diritto supera quella di qualsiasi altra arte e al giurista spetta il nome di artista ancora più propriamente che al poeta, (…) perché anticipando la conseguenza futura del bene o del male passato, riesce, anche meglio a far vedere, a far godere o far soffrire il futuro»[20].
4. Come osservato, dunque, il confronto con l’arte restituisce in Carnelutti l’idea del diritto come potenza rappresentativa, che, nel primo dei profili descritti, vuole dire capacità di racchiudere in sé i principi essenziali dell’ordinamento; una potenza rappresentativa che, a fronte della natura non esplicita dei suddetti principi nelle norme, deve essere resa atto attraverso l’opera dell’interprete.
Ciò posto, l’idea dell’esistenza di una dimensione interiore della norma sembra trovare risconto anche Satta, per il quale pure, attraverso l’interpretazione, è possibile cogliere i principi che dominano e riconducono ad unità le manifestazioni particolari della legge. Come noto, i temi appena richiamati trovano occasione di esprimersi in quest’ultimo autore soprattutto nel suo dialogo con Capograssi[21] e, in particolare, nelle riflessioni sull’analisi scientifica dell’esperienza giuridica[22].
Il quesito da cui origina la riflessione, per l’appunto, riguarda il ruolo della scienza del diritto e la possibilità che attraverso di essa si possano cogliere nel dato positivo, i «principi costruttivi del mondo umano»[23], ossia quelli che danno vita all’esperienza giuridica nella sua peculiarità.
Ebbene, secondo Satta e Capograssi, quando la scienza del diritto pone in analisi tutti gli atti di volontà si accorge che questi atti, in ogni loro parte, possono essere ricondotti ad un unico atto di volontà che, attraverso di loro, persegue lo stesso fine generale. Detto con altre parole, l’intelletto del giurista si trova a compiere un ampio inventario degli atti che compongono la realtà giuridica e, all’esito di tale percorso, riconosce che «ogni parte e ogni momento ha una sua unità con ogni altro e una sua particolarità inconfondibile con ogni altro»[24].
La funzione della scienza del diritto, nel contesto rappresentato, consiste nel cogliere l’unità dell’ordinamento, all’interno del quale l’azione umana, e quindi l’agire dei soggetti giuridici, viene ad operare.
Tale azione umana – che viene chiamata «volontà soggettiva» per contrapposizione rispetto alla norma, definita «volontà oggettiva»[25] – deve sempre rimanere fedele all’unità che caratterizza l’ordinamento, la quale trova origine da un’eterna idea di giustizia[26]. Tanto è vero che, quando ciò non accade, ossia quando la volontà soggettiva si pone in maniera discordante rispetto a quella oggettiva, l’ordinamento reagisce ponendola nel nulla. L’evidenza empirica di ciò si coglierebbe nel sistema delle nullità, delle responsabilità, e delle disposizioni penali più in genere.
Come si è anticipato, specialmente per Satta, la «volontà obiettiva» non è altro che la norma. E tuttavia, nell’atto di posizione formale della stessa si annida un pericolo, ossia quello di perdere tutto il segreto dell’esperienza giuridica che ha condotto alla sua fissazione in quella forma particolare, conducendo, in questo modo, al suo svuotamento formalistico[27].
A fronte di tale rischio, in termini simili rispetto a quanto sinora osservato ripercorrendo il pensiero di Carnelutti, il recupero della dimensione interiore della norma e della sua partecipazione all’unità dell’ordinamento deve procedere attraverso l’interpretazione.
In questo senso, Satta spiega come l’interpretazione giuridica consista nel «riportare la norma alla totalità delle norme, implicando necessariamente che la totalità faccia un’unità: (…) l’interpretazione giuridica è un mostrare che c’è nella norma di più di quello che appare, c’è tutta l’unità dell’ordinamento da cui essa nasce e di cui essa non è che una parte»[28].
In questo modo, le riflessioni di Satta, sia pure in termini non espliciti, paiono invocare il concetto carneluttiano di «potenza rappresentativa» del diritto, nonché l’idea dell’interpretazione quale strumento per cogliere ciò che le disposizioni lasciano intravedere nella trasparenza del loro involucro, ossia l’esperienza giuridica che in loro si è sedimentata.
Così, il giurista tradizionale, scoprendo la chiarezza dei propri concetti «si stupisce, come l’artista che non conosce la bellezza dell’opera sua»[29].
Di nuovo, l’arte e il diritto.
5. Come visto, dunque, la necessità di riportare il dato dell’esperienza giuridica all’unità dell’ordinamento attraverso la ricerca dei principi, viene indagata da Satta e Capograssi attraverso la lente della scienza del diritto.
Rispetto a questi temi, sembra fruttuoso anche il confronto tra Capograssi e Carnelutti, dal quale pure emerge come l’indagine sulla funzione della scienza del diritto nasca dall’esigenza di ordinare l’esperienza giuridica[30], ossia di individuare delle manifestazioni di razionalità nella congerie degli atti umani[31].
Sembra utile ripercorrere per linee generali il processo attraverso cui opera la scienza del diritto secondo i due autori.
Procedendo con ordine, il primo passo che la scienza compie è quello dell’individuazione del dato. Si potrebbe dire che la scienza nasca proprio dal dato e dall’esigenza di comprenderlo. Entrambi gli autori, occorre precisarlo, sono concordi nel ritenere che quest’ultimo non sia rappresentato dalla norma, ma prima ancora dall’esperienza giuridica[32], che si compone di atti umani[33], fra i quali si annovera tutto il campo degli atti giuridici e quindi non soltanto degli atti legislativi[34].
Ora, per la scienza del diritto, già la scelta del dato non è un’operazione semplice.
Nello specifico, per Capograssi, affinché possa studiare il proprio oggetto, la scienza deve come toglierlo dal flusso vitale nel quale è inserito. L’enucleazione del dato che l’intelletto compie all’inizio del processo conoscitivo consiste in un «processo di astrazione»[35], una sorta di taglio nel reale che occorre in quanto nel concreto il dato non opera da solo, ma si interseca e si immedesima con gli altri. Dall’altro lato, per Carnelutti, l’individuazione del dato prende le mosse da un’intuizione che deve essere collaudata, e che consiste nell’idea che attraverso lo studio di quel dato si possa individuare una certa regolarità nel reale[36].
Una volta individuato il dato, la scienza del diritto ne compie un’elaborazione. Qui troviamo una prima differenza. Per il primo, lo studio consiste nel rintracciare e risalire l’esperienza giuridica che si è sedimentata in esso. Per il secondo, si tratta, invece, di comparare il dato con gli altri dati dell’esperienza giuridica. In particolare, attraverso l’esame comparato degli istituti propri alle varie discipline «si può arrivare a cogliere l’unità e a conoscere i principi fondamentali, mettendo in luce le somiglianze e le differenze»[37].
Superata questa fase, la scienza giuridica tenta di classificare il proprio oggetto di studio, ossia di ordinare i propri dati in gruppi omogenei, al fine di ricavarne i concetti giuridici e ricomporli all’interno di un sistema coerente. Tale ultima operazione, come osservato in dottrina[38], si mostra come una vera e propria esigenza estetica di ordine, come una ricerca di simmetria nella formazione dei concetti.
Ebbene, al termine di questo percorso, quando l’intuizione originariamente formulata ha avuto esito positivo, ossia quando i concetti giuridici elaborati hanno trovato un profondo riscontro con il reale, la scienza del diritto si avvede dell’esistenza di un «sistema di permanenze»[39], ossia di costanti «al di sotto delle variazioni superficiali della storia»[40]. E tali costanti non sono nient’altro che i «principî che fanno la essenza e la vita umana dell’esperienza giuridica»[41], le regole o norme giuridiche che rispondono ad una profonda idea di giustizia[42].
Anche nello studio che compie la scienza del diritto, pertanto, emerge fortemente l’dea dell’interpretazione quale mezzo attraverso il quale cogliere i principi generali del diritto, ossia i principi universali che dominano l’esperienza, originano dalla «normatività dell’ethos sociale»[43] e si sviluppano attorno alle certezze supreme della vita e dell’azione umana.
6. Come si è potuto osservare, dunque, in tutti e tre i nostri autori, la scienza del diritto, muovendo dall’esigenza di ordinare l’esperienza, elabora i concetti giuridici e perviene al rintracciamento dei principi che la guidano.
Problema ulteriore è il comprendere se la funzione della scienza del diritto si limiti alla sola ricognizione dei concetti entro i quali è riducibile la realtà giuridica, rimanendo tuttavia estranea rispetto ad essa, oppure se con il proprio lavoro intenda contribuire e partecipare alla vita di questa realtà.
Per i nostri autori, l’opzione si risolve in una sicura adesione alla seconda idea.
La scienza conosce il dato scomponendolo nei suoi elementi logici, per partecipare alla vita di quest’ultimo: «essa intende servire il dato contribuendo con il suo lavoro alla vita della realtà giuridica, chiarendo le norme, interpretandole, riducendole a termini con cui esse possano penetrare nella realtà dell’azione, e d’altra parte riducendo l’azione in termini logici per cui possa essere suscettibile di essere informato dalla norma»[44].
Non solo.
Il fine della scienza sembra andare ancora oltre quando si osserva che il sistema di permanenze e di principi che la scienza ha scovato all’interno dell’esperienza e che ha espresso attraverso l’elaborazione dei concetti fondamentali della dogmatica, deve proprio attraverso di essa essere mantenuto fermo ed incolume rispetto alle variazioni superficiali della storia.
Accanto all’individuazione delle regole di diritto, il compito della scienza è quello di elaborare le «regole sul diritto» o «regole per fare agire le regole del diritto»[45], ossia quelle che ne fondano la validità, entro la quale si esprime l’idea che pure «l’opera del legislatore non val nulla se non risponde alla giustizia»[46].
In questi termini, pertanto, la scienza giuridica procede da una funzione conoscitiva ed ordinatrice dell’esperienza giuridica, per poi inoltrarsi in una funzione deontologica, e finanche protettiva dell’essenza del diritto.
7. Giunti a questo punto, è ora possibile osservare attraverso Satta e Capograssi come il luogo privilegiato entro cui si assiste allo sviluppo dell’esperienza giuridica, nonché all’enucleazione dei principi costitutivi l’unità dell’ordinamento, sia principalmente rappresentato dal processo, realtà nella quale convergono tutte le insufficienze e le incompiutezze della vita del diritto, affinché possano essere risolte[47].
Per comprendere appieno le affermazioni appena spese occorre procedere per gradi.
Quando un soggetto reclama il riconoscimento di un proprio diritto a fronte della sua incertezza o violazione da parte di altri, o ancora, quando non può autonomamente ottenere l’effetto che promana dall’attuazione di quel diritto, questi invoca l’aiuto e l’intervento da parte dell’ordinamento giuridico.
Dall’altro lato, tuttavia, è proprio in tali situazioni che l’ordine normativo rivela la propria insufficienza; tutte le norme, infatti, fintanto che rimangono nella loro forma generale ed astratta sono inservibili alla tutela del caso concreto[48].
Invero, come già osservato, nella viva complessità che compone il quadro dell’esperienza giuridica, ordine normativo e soggetto si trovano a coesistere facendosi ciascuno portatore di una specifica volontà: rispettivamente, il primo, della volontà oggettiva – ossia della volontà di legge –, il secondo, della volontà soggettiva. In questo contesto, entrambe le forme di volontà hanno come fondamentale pretesa che il diritto intervenga a regolare le situazioni di crisi e di incertezza che l’esperienza è in grado di produrre: vogliono in comune che lo ius intervenga a realizzare l’ordo nel caso concreto e con esso a compiere l’esperienza giuridica[49].
Ebbene, secondo i due autori, la volontà di legge e la volontà soggettiva convergono nel processo poiché, pur essendoci un accordo sulla necessità che l’ordine giuridico si compia, esiste da qualche parte un disaccordo sul come tale ordine debba realizzarsi. Il disaccordo in questione, che dà origine al processo, nasce a causa di un’incertezza, che a sua volta è provocata da due ragioni principali.
In un primo senso, l’incertezza deriva dalla possibilità che la volontà di legge possa essere disobbedita, e tale eventualità non può essere tollerata dall’ordinamento in quanto è in grado dimostrare che può essere contraddetta la verità che la volontà di legge deve sempre realizzarsi nel caso concreto.
L’incertezza in questione, peraltro, nasce anche per una ragione più profonda.
Come si è potuto osservare nello studio del concetto di diritto come «potenza rappresentativa», l’ordinamento giuridico esprime una volontà di legge composita, ossia una volontà nella quale confluiscono una moltitudine di principi, di fini, e di esigenze: «è una volontà ricca di tutte le esigenze umane e perciò una volontà che vuole in modo complesso e cioè in modo da salvaguardare non una ma tutte le esigenze del mondo umano. È proprio questa volontà così complessa, questa volontà avente per oggetto la totalità dei principii a cui obbedisce, che deve diventare ordo nell’esperienza»[50]. Ciò premesso, l’incertezza trova origine nella radicale antinomia fra il modo in cui si presenta l’ordinamento, cioè come una volontà oggettiva unitaria che non si frammenta nelle singole norme e pretende di realizzarsi ex integra causa, e il singolo caso, che nell’esperienza non si mostra nella totalità appena descritta, ma suddiviso in posizioni, fini, e volontà soggettive particolari, e che tende all’attuazione dell’ordinamento in modo frazionato.
Così, dalla richiamata antinomia sorge quell’incertezza e quel contrasto che si manifesta in modo lampante nel processo. In questa sede, infatti, il contrasto di interessi tra le parti si traduce nel contrasto tra principi che ciascuna vorrebbe far prevalere. Ogni parte preleva dall’ordine normativo il principio con il quale propone di regolare il rapporto, ne domanda l’applicazione perché l’ordine si realizzi in proprio favore, e ne descrive i possibili assetti: vi sarà così chi invoca un principio e chi lo nega, così come chi, a fronte di un principio invocato dalla controparte, ne chiamerà a sostegno uno diverso[51].
Precisate le ragioni da cui origina il disaccordo sull’assetto da dare al caso concreto, occorre tornare alla fondamentale esigenza dell’ordinamento di essere attuato nella sua profonda unità, esigenza cui risponde la giurisdizione e la realtà del processo.
La giurisdizione, in questo senso, costituisce il momento solenne attraverso cui si informa il singolo caso e il singolo rapporto della totalità dell’ordinamento, la giurisdizione, anzi, si presenta essa stessa come «affermazione dell’ordinamento nel caso concreto»[52].
In questo modo, attuare l’ordinamento nella sua interezza significa ricercare nel groviglio di interessi, fini e diritti che compongono la realtà, ed in particolare quegli interessi e diritti – e quindi quei principi – che debbono avere la prevalenza perché attraverso la loro soddisfazione vengono assolte tutte le esigenze dell’ordinamento giuridico[53].
Nella concezione di Satta e Capograssi, pertanto, Stato e parti nel processo si sottopongono alla superiore necessità della ricerca e della formazione dell’ordinamento concreto.
A tal proposito, quindi, la composizione della lite rappresenta un interesse fondamentale dell’ordinamento non tanto perché senza di essa si scioglierebbe la compagine sociale, ma perché attraverso di essa si rimuove l’incertezza sull’intrinseca verità che tiene unita tutta l’esperienza giuridica: è principalmente per tale ragione che il processo «fa diventare particolare e attuale (…) nel più povero e umile caso di vita, quella profonda ratio in cui si realizza la più profonda volontà di vita dell’ordinamento»[54].
8. Compiuta l’analisi attorno al ruolo del processo, ci sembra opportuno richiamare le tappe fondamentali del percorso affrontato in questo lavoro, per poi dirigerci verso la formulazione delle sue conclusioni.
Il confronto tra arte e diritto da cui il presente saggio ha preso le mosse ha permesso di giungere al concetto carneluttiano di «potenza rappresentativa», intendendosi con quest’ultimo la capacità del diritto di racchiudere e nascondere in sé i principi essenziali dell’ordinamento.
A fronte di questa peculiarità, si è altresì osservato, spetta al giurista cogliere i suddetti principi tramite la sua attività interpretativa (che in taluni momenti è «ars combinatoria»[55]), e così restituire al diritto la compiutezza e la coesione che gli è propria.
Quest’ultima attività poi, quando dallo studio delle sole norme allarga il proprio orizzonte fino a ricomprendere i dati della più ampia esperienza giuridica, evolve in scienza del diritto, e assume il compito non solo di indagare le asserzioni implicite della volontà di legge, ma anche quello di individuare nello sconfinato flusso degli atti umani e giuridici le manifestazioni di razionalità, per preservarle, e quelle di irrazionalità, per emendarle.
La scienza quindi, procedendo in questo lavoro, deve risalire ai sommi principi che guidano il sistema e riconducono ad unità l’ordinamento. E tale unità non può essere messa in discussione né dagli interessi particolari della volontà soggettiva – esigenza cui risponde eminentemente la realtà del processo –, né tanto meno da quegli atti di volontà oggettiva che non rispondono a questa idea di armonia. A tale ultimo proposito, infatti, comune nei nostri tre autori è la visione di una scienza giuridica che assume il compito di garantire l’immunità del «sistema di permanenze» che costituisce l’essenza organica del diritto, ossia quell’idea di giustizia immanente ed immutabile.
Ebbene, facendo un passo indietro, e richiamandoci alle considerazioni da cui ha preso avvio il nostro studio, ci sembra di poter concludere che, per quanto talvolta possano sembrare appariscenti, le giustapposizioni e i confronti tra il diritto e gli altri ambiti dell’agire umano, quale ad esempio quello dell’arte, sono in grado di fornire spunti di riflessione fecondi per una conoscenza più approfondita realtà giuridica. Muovendo dal tentativo di cogliere i punti comuni tra quest’ultima realtà e quella artistica, infatti, è stato possibile esplorare il tema della ricerca dei principi dell’ordinamento nello snodo tra diritto, scienza e processo. In conclusione, confrontare diritto e arte significa cercare di esplorare le proprietà intrinseche del proprio oggetto di studio, ossia ricercare quel sistema di principi che riportano l’esperienza ad unità.
[1] Relazione poi apparsa nel saggio Il formalismo nel processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1958, p. 1141, e ora in Il mistero del processo, Milano, 1994. L’accostamento in termini espliciti tra il diritto e l’arte nell’a. si ritrova espresso pure in S. Satta, Critica del giudizio in Cassazione, in Id., Quaderni del diritto e del processo civile II, Padova, 1969, p. 130.
[2] Per un chiarimento dell’inciso, v. infra, § 4, nt. 27.
[3] F. Carnelutti, Arte del diritto, con prefazione di C. Consolo, Torino, 2017, prima ed. 1949.
[4] La funzione sostanzialmente terapeutica dell’indagine si rivela sin dalla Prefazione dell’opera, dove l’a., richiamandosi alla formula arte del diritto utilizzata in occasione della commemorazione di V. Scialoja, afferma come a partire da quel momento l’idea di una relazione tra i due concetti non lo avesse più abbandonato, e come, pertanto, fosse giunto il momento di regolare quel conto: «Per vivere in pace ho bisogno di mettere in ordine i miei pensieri» (F. Carnelutti, Arte del diritto, cit., p. 4).
[5] Si noti come l’interesse per questo rapporto non rimane isolato nell’opera richiamata, avendo l’a. trovato più occasioni per esprimerlo: cfr., ad es., F. Carnelutti, Crisi dell’arte e crisi del diritto, in Riv. dir. proc., 1962, pp. 517 ss.; e – come ricorda D.M. Cananzi, «Un codice somiglia dunque a una partitura?» Annotazioni sull’arte del diritto in F. Carnelutti, in Riv. dir. proc., 2015, p. 1075 – anche in F. Carnelutti, La prova civile. Parte generale, Milano, 1992, p. 6.
[6] F. Carnelutti, Arte del diritto, cit., p. 6.
[7] È appena il caso di ricordare, infatti, come siano state numerose le occasioni di divergenza – sempre sul piano scientifico e metodologico – nel corso della vita dei due autori. Ne offre una cifra, ad es., F. Carnelutti, Diritto e parola, in Riv. dir. civ., 1962, I, pp. 325 ss., ma anche lo stesso S. Satta, Introduzione, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, pp. 32, 34.
[8] A titolo di esempio, l’indagine condotta in F. Carnelutti, Arte del diritto, cit., si compie attraverso sei lezioni, rispettivamente intitolate: Cos’è il diritto? Cosa è la legge? Cosa è il fatto? Cosa è il giudizio? Cosa è la sanzione? Cosa è il dovere?
[9] Per una testimonianza bibliografica diretta di questa unione, cfr.: G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, in Riv. dir. proc., 1950, p. 1 ss., ora in Opere, V, Milano, 1959, pp. 51 ss.
[10] Ci si riferisce, come è chiaro, all’opera di H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. R. Treves, Torino, 1975, dove, in estrema sintesi, si dà una differenza netta tra legge naturale e legge giuridica, rappresentando la prima ciò che è (Sein) e la seconda ciò che deve essere (Sollen). Spiega F. Carnelutti, Arte del diritto, cit., p. 21, in chiave critica rispetto all’impostazione di Kelsen, come anche le leggi naturali debbano essere ricomprese nel ciò che deve essere, stante il loro carattere solo probabilistico dimostrato dagli stessi studi scientifici. Per una trattazione più estesa sul punto, cfr. anche, F. Carnelutti, Nuove riflessioni intorno al metodo, in Discorsi intorno al diritto, III, 235, pp. 241 ss.
[11] F. Carnelutti, Arte del diritto, cit., p. 25.
[12] F. Carnelutti, op. ult. cit., p. 30.
[13] Così: «La umanità si è sempre divisa in una piccola minoranza, che guarda o ascolta ciò che la moltitudine non può né vedere né udire, e nella moltitudine, che guarda e che ascolta non ciò che codesti uomini riuscirono a vedere o a udire ma ciò che essi raccontano di aver visto e udito (…). L’artista, veramente, narra quello che i suoi occhi e non gli occhi della moltitudine giunsero a vedere nel fondo della realtà» (F. Carnelutti, Arte del diritto, cit., pp. 29-30).
[14] Frequenti nella letteratura giuridica sono gli accostamenti tra l’interpretazione nel diritto e nell’arte. Senza pretesa di esaustività, si vedano: G. Maggiore, Estetica del diritto, in Studi in onore di Francesco Carnelutti, I, Milano, 1950, pp. 275 ss.; G. Zaccaria, L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, Padova, 1990; G. Alpa, L’arte di giudicare, Roma-Bari, 1996; G.B. Ferri, Filippo Vassalli o il diritto civile come opera d’arte, Padova, 2002.
[15] F. Carnelutti, Arte del diritto, cit., p. 30.
[16] F. Carnelutti, op ult. cit., p. 31.
[17] Quello del paragone, per l’a., sembra divenire nell’età della maturità un metodo di ricerca esistenziale del diritto: «Il giovane si accontentava col concetto scientifico del diritto; il vecchio sente che in questo concetto si perde il suo impeto e il suo dramma e, pertanto, la sua verità. Il giovane cercava i contorni decisi della definizione; il vecchio preferisce le sfumature di un paragone» (F. Carnelutti, op ult. cit., p. 19).
[18] In questo senso, afferma F. Carnelutti, Matematica e diritto, in Riv. dir. proc., 1951, p. 208: «Se pure la nozione di ordinamento giuridico si riduce a un complesso di norme chi s’illude che le norme, come sono scritte, bastino all’ufficio loro? Se così fosse il codice si potrebbe mettere nelle mani di chiunque, pur che sappia leggere; e i giuristi se n’andrebbero a spasso».
[19] F. Carnelutti, op ult. cit., p. 209.
[20] F. Carnelutti, Arte del diritto, cit., p. 31.
[21] Per una testimonianza diretta del rapporto tra S. Satta e G. Capograssi cfr.: S. Satta, Il giurista Capograssi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, pp. 785 ss., anche in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., pp. 363 ss.; Id., Giuseppe Capograssi, in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., pp. 353 ss.; Id., Rilettura di Giuseppe Capograssi, “Incertezze sull’individuo”, in Quaderni del diritto e del processo civile, III, Padova, 1970, pp. 151-158; G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, in Riv. dir. proc., 1950, pp. 1 ss., anche in Id., Opere, V, Milano, 1959, pp. 51 ss.; nonché, Id., Lettere a Salvatore Satta / Giuseppe Capograssi, a cura di F. Mercadante, Roma, Fondazione “Giuseppe Capograssi”. I rapporti tra i due Aa. vengono ulteriormente approfonditi ed analizzati, tra i molti, in: F. Marinelli, Il diritto e la vita. Le “spirituali conversazioni” tra Giuseppe Capograssi e Salvatore Satta, in Giust. civ., 2015, pp. 833 ss.; P. Grossi, Uno storico del diritto in colloquio con Capograssi, in Nobiltà del diritto, Milano, 2008, § 9; Id., Giuseppe Capograssi, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, Bologna, 2013, voce n. 428; A. Delogu, Le radici fenomenologiche-capograssiane di Satta giurista-scrittore, in Salvatore Satta giurista scrittore, Nuoro, 1990; Id., Giuseppe Capograssi tra Salvatore Satta e Antonio Pigliaru, in A. Delogu-A. M. Morace (a cura di), Esperienza e verità, Bologna, 2009.
[22] Come è noto, il contributo fondamentale dell’opera di G. Capograssi si sostanzia nel rifiuto della visione rigidamente normativistica e istituzionale del diritto, e della tendenza a ridurre il ruolo della scienza giuridica alla sola descrizione degli aspetti formali della legge. Al contrario, secondo la concezione dell’a., il ruolo della scienza giuridica è quello di cogliere le interrelazioni del diritto con la vita, e quindi studiarne il contesto costituzionale che lo determina, le ideologie sottese, e le concrete applicazioni che danno luogo all’esperienza giuridica: «Vedere nel diritto l’uomo e la storia, significa dire che il diritto è esperienza (…)» (S. Satta, Il giurista Capograssi, cit., p. 791). Su questi aspetti, si vedano le opere fondamentali: G. Capograssi, Analisi dell’esperienza comune, Milano, 1975 (ed. originale, 1930); Id., Studi sull’esperienza giuridica, Roma, 1932; Id. Il problema della scienza del diritto, Roma, 1937.
[23] S. Satta, Il giurista Capograssi, cit., p. 791.
[24] S. Satta, op. ult. cit., p. 792.
[25] S. Satta, op. ult. cit., p. 793 e passim.
[26] Sotto questo specifico aspetto, appare evidente il contatto tra il pensiero di Satta e quello di Capograssi. Secondo quest’ultimo, infatti, l’unità dell’ordinamento, pure a fronte del mutamento delle disposizioni particolari, è assicurata da una regola primigenia di verità, che è legge universale e morale posta a fondamento di tutto il diritto. In questa concezione, infatti, tutte le autorità e tutti i diritti nascono dalla necessità umana «di attuare o di sempre più accostarsi a questa eterna idea della giustizia che è legge dell’assoluto» (G. Capograssi, Riflessioni sulla autorità e la sua crisi, in Opere, I, Milano, 1959, p. 179).
[27] Sul punto, v. S. Satta, Il giurista Capograssi, cit., pp. 793-794. Invero, tali considerazioni erano state espresse nel già richiamato convegno del 1958 (cfr., retro, § 1), dove l’a., discutendo attorno alle differenze tra i concetti di forma e di formalismo nel diritto – e più specificamente, nel processo –, aveva chiarito che se con il primo ci si riferisce alla «forma essenziale», ovvero l’essenza stessa del diritto, con il secondo si evoca invece il concetto empirico di esteriorità, ossia di «forma esteriore», cui non corrisponde l’essenza della cosa definita. Proseguendo su questa linea, pertanto, l’a. afferma che il diritto stesso non è altro che forma, e in particolare, quella forma essenziale che può essere colta nel prisma dell’esperienza giuridica che ha condotto alla sua fissazione (S. Satta, Il formalismo nel processo, cit., pp. 1143-1144).
[28] S. Satta, Il giurista Capograssi, cit., p. 796.
[29] S. Satta, op. ult. cit., p. 795.
[30] Si noti come il concetto capograssiano di «esperienza giuridica», comune anche a Satta, non sia estraneo neppure a Carnelutti. In questo senso, cfr. F. Carnelutti, L’esperienza del diritto, in Riv. int. fil. dir., 1943, pp. 97 ss.
[31] Per una trattazione su come tale ordine si realizzi per Capograssi e Carnelutti nel più specifico ambito degli atti economici, si permetta il rinvio allo studio di F. Gambino, Giuseppe Capograssi e Francesco Carnelutti, o del diritto tra economia ed etica, in Aa. Vv., Diritto ed Economia: problemi e orientamenti teorici, Padova, 1999, pp. 99 ss.
[32] G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto, cit., p. 23.
[33] Osserva F. Carnelutti, Metodologia del diritto, Padova, 1939, p. 35: «La materia giuridica è un tessuto di regole. Ma le regole sono dei rapporti, non dei fenomeni (…). Le regole giuridiche non sono veramente il dato da osservare, ma già il risultato della elaborazione di un dato diverso. Ciò che cade, o meglio, può cadere sotto i sensi del giurista sono gli atti, dai quali si argomentano le regole»; e negli stessi termini, v. Id., Nuove riflessioni intorno al metodo, in Discorsi intorno al diritto, III, Padova, 1961, p. 234.
[34] Fra questi ritroviamo, a titolo esemplificativo: «dall’atto processuale amministrativo, agli atti leciti e illeciti civili, atti penali, sentenze, testamenti, delitti» (G. Capograssi, Leggendo la “metodologia”, di Carnelutti, in Riv. int. fil. dir., 1940, p. 23).
[35] G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto, cit., pp. 163 ss.
[36] F. Carnelutti, Nuove riflessioni intorno al metodo, cit., p. 240.
[37] Così, F. Viola, Metodologia, teoria ed ideologia del diritto in F. Carnelutti, in Riv. dir. proc., 1967, p. 15.
[38] In particolare, è stato rilevato come la sistematica concettuale che viene ricavata al termine del processo di elaborazione scientifica risulta nella Metodologia «costantemente pervasa dall’esigenza di simmetria nella formazione dei concetti. Per il C. si tratta quasi di una esigenza estetica, cioè di perfezione architettonica» (F. Viola, op. ult. cit., p. 16).
[39] G. Capograssi, Leggendo la “metodologia”, di Carnelutti, cit., p. 32.
[40] G. Capograssi, op. loc. cit.
[41] G. Capograssi, op. loc. cit.
[42] F. Carnelutti, Metodologia del diritto, cit., p. 28.
[43] In questi termini, v. G. Zaccaria, Una filosofia dell’interpretazione giuridica: l’applicazione del diritto in Giuseppe Capograssi, in Id., L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, cit., p. 253.
[44] Così, G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto, cit., p. 24. Nella richiamata citazione è ben evidente la natura ambivalente dell’oggetto di indagine della scienza del diritto: da un lato, il dato inteso come norma giuridica; dall’altro, la stessa azione umana, anch’essa bisognevole di essere resa intellegibile alla norma.
[45] F. Carnelutti, Metodologia del diritto, cit., p. 26.
[46] Così, F. Carnelutti, op. ult. cit., p. 28. Come è intuibile, le riflessioni sulla sorte del diritto a fronte della precarietà storica delle leggi – comuni a tutti e tre gli autori –, assumono un valore ancora più profondo se si contestualizzano nel periodo storico nel quale vengono enucleate, ossia negli anni delle leggi razziali e in quelli del secondo dopoguerra. A fronte degli orrori commessi in nome del rispetto formale della legge, e dell’inevitabile crisi del positivismo, gli scetticismi sulla funzione del diritto e della scienza giuridica apparivano del tutto leciti. Lo stesso G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, cit., p. 55, pone il dubbio: «Dove è la verità di queste istituzioni? O meglio: hanno una loro verità, una loro sostanza o non sono che forme vuote e modi esteriori che possono servire a tutti i fini? Sono vuote forme capaci di essere riempite di ogni contenuto, e quindi non le snaturano le forze storiche se le fanno servire a mettere in croce la vita (a mettere nei forni i viventi); o hanno una loro sostanza o verità che le costituisce nel loro valore di vita (…)?». Lungi dal poterci inoltrare in una trattazione approfondita del tema in questa sede, è sufficiente rilevare come la risposta degli autori in analisi sia, per l’appunto, quella di cui si dà conto nel testo: la scienza deve fermare il diritto nei suoi concetti ma anche garantirlo di fronte a sé stesso. Per le ulteriori riflessioni sul punto, sia consentito il rinvio a: G. Capograssi, Il diritto dopo la catastrofe, in Jus, 1950, pp. 177 ss.; Id., L’ambiguità del diritto contemporaneo, in Aa. Vv., La crisi del diritto, Padova, 1953, p. 13; Id., Incertezze sull’individuo, Milano, 1969, anche in Id., Opere, V, cit., p. 429; Id., Su alcuni bisogni dell’individuo contemporaneo, in Aa. Vv., Scritti giuridici in memoria di V. E. Orlando, Padova, 1957, I, p. 302; S. Satta, Il caso Bettermann, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., pp. 444 ss.; Id., Il giurista Capograssi, cit., p. 794; G. Zaccaria, Al di là del giusnaturalismo e del positivismo giuridico, in Id., L’arte dell’interpretazione, cit., pp. 3 ss.; F. Marinelli, Il diritto e la vita. Le “spirituali conversazioni” tra Giuseppe Capograssi e Salvatore Satta, cit., §§ 4-5.
[47] In questo senso, cfr.: G. Capograssi, Intorno al processo, in Riv. int. fil. dir., 1938, 252 ss., ora in Opere, IV, Milano, 1959, pp. 131 ss.
[48] Le affermazioni riportate si riferiscono ancora a quanto osservato da G. Capograssi, op. ult. cit., p. 134, il quale, evocando la nota concezione dell’attività giurisdizionale quale tutela strumentale e sostitutiva rispetto al diritto sostanziale, osserva: «tutto l’ordine normativo, tutto il sistema di norme esiste, ma se qualcuno chiede aiuto e lo invoca, la norma fintanto che sta generale e astratta sopra di lui, non gli giova: chi chiede aiuto vuole proprio che quella volontà generale diventi per lui volontà efficace, gli dia la mano e lo assicuri». Su questi concetti, anche per gli opportuni riferimenti dottrinali, sia consentito il rinvio a C. Mandrioli-A. Carratta, Diritto processuale civile, I, ed. 27a, Torino, 2019, p. 4 ss.
[49] In particolare, G. Capograssi, Intorno al processo, cit., p. 137, evidenzia come il fondamentale accordo sulla necessità che l’ordine giuridico si realizzi, sussiste nonostante la diversità dei fini che l’ordinamento e i soggetti si propongono quando intendono affermare la propria volontà, e segnatamente: il primo, per procurare l’ordine attraverso la risoluzione delle contese, così regolare l’azione dei soggetti che vi partecipano; i secondi, ciascuno, per perseguire i propri scopi particolari.
[50] G. Capograssi, op. loc. cit. In questo senso, v. anche S. Satta, Giurisdizione (nozioni generali), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, p. 224, secondo cui: «caso concreto significa che vi è un minimo frammento di vita di cui si nega la conformità all’ordinamento».
[51] Secondo questa visione, il contrasto in parola sussiste pure nel campo della giurisdizione volontaria, in quanto l’ordinamento, in ogni caso, compie un controllo sull’eventualità che dalla soddisfazione dell’interesse soggettivo che la parte domanda, non siano pregiudicati altri interessi e principi dell’ordinamento: così G. Capograssi, Intorno al processo, cit., 138, nt. 1, che, a tal proposito, richiama lo studio di P. Calamandrei, Linee fondamentali del processo civile inquisitorio, in Aa. Vv., Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda nel 25 anno del suo insegnamento, Padova, 1927, pp. 153 ss.
[52] Così, S. Satta, Giurisdizione (nozioni generali), cit., p. 224. Come naturale conseguenza di quanto illustrato, in Satta e Capograssi, da un lato, il fine intrinseco del processo non può coincidere con la composizione della lite, e dall’altro, il fine proprio dell’atto di volontà attraverso cui la parte dà vita al processo non è semplicemente quello di conseguire un vantaggio od ottenere la tutela di un diritto (idea quest’ultima, lo si precisa, non condivisa da F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, in Riv. dir. proc., 1928, pp. 23 ss.). Tale ultimo scopo superficiale, infatti, pure rimanendo vivo nella parte, non vuole essere perseguito risolutamente e ad ogni costo, ma vuole passare attraverso il riconoscimento dell’ordinamento. In questi termini, il fine proprio dell’azione consiste nel fatto che lo scopo particolare del soggetto coincida con il fine universale che il processo è destinato a realizzare nella sua concreta e totale esperienza (così: G. Capograssi, Intorno al processo, cit., p. 141). Affinché ciò accada, è necessario che la parte affermi di volere il processo e, attraverso di esso, la soggettivazione dell’ordinamento nel proprio rapporto. In altri termini, vuole che l’ordinamento nel suo complesso intervenga a regolare il caso concreto dedotto nel giudizio (così, S. Satta, Giurisdizione (nozioni generali), cit., p. 224, per il quale l’azione, in conclusione, consiste nella «postulazione dell’ordinamento»).
Sul rifiuto della concezione soggettiva dello scopo processuale, ossia sull’idea che fine intrinseco dell’azione non possa coincidere con lo scopo particolare che la parte intende perseguire, suscitano particolare interesse le riflessioni di G. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, in Id., Saggi di diritto processuale civile, I, pp. 5 ss., 34, il quale – nel criticare la posizione di Carnelutti (op. ult. cit.) –, forte del concetto di giurisdizione come attuazione del diritto obiettivo, mantiene ben distinto il fine intrinseco dell’azione dal fine dell’agente: «In sostanza, la concezione soggettiva dello scopo processuale confonde la finalità attuale, immediata, costante delle attività processuali col loro remoto e possibile o sia pur necessario risultato. Come chi dicesse che le attività che compie un pittore per comporre un affresco hanno per loro scopo d’ornare il tempio».
[53] Afferma G. Capograssi, Intorno al processo, cit., p. 140: «Si tratta di dare al caso singolo la consapevolezza dell’intero ordinamento che esso porta implicito in sé, di allargare l’orizzonte particolare del soggetto sino a tutto l’orizzonte dell’ordinamento, sino alla totale volontà della legge». In questo stesso ordine di idee, v. anche: S. Satta., Il processo nell’unità dell’ordinamento, in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., pp. 127 ss.; Id., Attualità di Lodovico Mortara, in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., 388 ss.; Id., Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1960; Id., Torniamo al giudizio, in Riv. dir. proc., 1949, pp. 165 ss.
[54] G. Capograssi, Intorno al processo, cit., p. 150.
[55] F. Carnelutti, Matematica e diritto, cit., p. 209.