Charles Dickens e il diritto

Rossella Virgini

Dottoranda di ricerca presso l’Università di Camerino

Nel presente articolo si propone una riflessione intorno al peculiare rapporto tra Charles Dickens e il diritto, adottando peraltro una duplice chiave di lettura. Da un lato, quella comparatistica, in forza della quale si mira ad una più approfondita comprensione del sistema di Common Law in età vittoriana; dall’altro, quella che pertiene più strettamente al tema – che affascina da tempo la dottrina – dell’inestricabile connubio esistente tra diritto e letteratura. Con riferimento a tale ultimo orizzonte prospettico, ripercorrendo ed analizzando alcuni dei passi più significativi ed emblematici dei romanzi dell’autore è dato, in primo luogo, apprezzare come i due ambiti testé richiamati comunichino dialetticamente, in forza di un rapporto di reciproca integrazione. In secondo luogo, dalla breve analisi condotta emergono molteplici spunti idonei a far acquisire contezza di molteplici ed interessanti elementi di convergenza tra diversi esponenti del mondo della letteratura, proprio in merito alla loro percezione individuale – ma sintomatica di un sentimento diffuso e imperante in tutta la società civile – del sistema della giustizia. 

The present article offers a reflection on the peculiar relationship between Charles Dickens and the law, adopting a dual interpretative key. On one hand, the comparative perspective, aiming for a deeper understanding of the Common Law system in the Victorian era; on the other, the perspective more closely related to the theme – long discussed by scholars – of the inextricable bond between law and literature. Referring to this latter framework, by revisiting and analyzing some of the most significant and emblematic passages from the author’s novels, it is first appreciated how these two fields communicate dialectically, through a relationship of mutual integration. Secondly, from the brief analysis conducted, multiple insights emerge that help to acquire an awareness of various and interesting elements of convergence among different figures from the literary world, particularly regarding their individual perception – symptomatic of a widespread and prevailing sentiment in all civil society – of the justice system.

Sommario: 1. Premessa. – 2. La prospettiva comparatistica come prima chiave di lettura delle opere di Dickens. – 3. Law and Literature: un connubio caratterizzante le opere di Dickens e di altri autori. – 4. Conclusioni.

1. L’opera che ci si accinge ad analizzare, «Charles Dickens storico del diritto»[1], rappresenta, in primo luogo, un’occasione di non poco momento funzionale a cogliere e comprendere i tratti che più significativamente connotano il sistema della giustizia presso le Corti inglesi nella prima metà dell’Ottocento, epoca in cui visse il celebre scrittore Charles Dickens. 

Peraltro, se tale ultimo aspetto rileva in chiave comparatistica, si avrà altresì cura di mettere in luce come l’oggetto della presente trattazione offra innumerevoli spunti di riflessione in merito allo specifico tema del rapporto tra diritto e letteratura[2], di notevole interesse per il giurista. Si cercherà dunque di affrontare anche tale ultimo aspetto, al fine di comprendere a pieno le peculiari sfaccettature che connotano tale interessante connubio, oltre che soffermarsi sugli ulteriori autori che, al pari di Dickens, hanno fornito – più o meno consapevolmente – il proprio indispensabile contributo in materia, potendo in tal modo essere essi stessi qualificati come storici del diritto.

Il volume in questione è frutto di un progetto[3] finalizzato a rendere fruibile e accessibile l’opera di W. S. Holdsworth anche in lingua italiana, facendo in modo che il testo possa essere maggiormente apprezzato anche dai non avvezzi alla lingua inglese. 

Il testo, che si articola in quattro capitoli corrispondenti alle lezioni tenute dal giurista inglese presso la Yale Law School nel 1927 in occasione della William Storrs Lecture, risulta altresì corredato da una interessante prefazione ad opera del curatore, che ben pone in evidenza l’opportunità – rectius, l’imprescindibilità – dell’impostazione di metodo assunta dallo storico in parola. Tale approccio metodologico, infatti, risulta di notevole utilità per chiunque intenda cimentarsi nella disamina della struttura complessiva del sistema della giustizia inglese nel XIX secolo; ciò, peraltro, senza limitarsi ad un’indagine che, da un lato, si attenga esclusivamente a fonti prettamente giuridiche[4], dall’altro – anche qualora voglia accedere alle ricostruzioni altrove operate in testi letterari – si esaurisca in una mera agiografia dell’autore di riferimento, priva dell’obiettivo di fornire una descrizione o interpretazione del sistema nel suo complesso. Si sottolinea, in particolare, come siano ben pochi gli storici del diritto che – come Holdsworth – siano stati in grado di valorizzare gli apporti forniti da fonti anche extra-giuridiche in maniera così analitica e accurata, adottando un approccio sistematico e – come tale – teso a cogliere il sistema nel suo complesso, ricavandone una visione d’insieme; si evita così di soffermarsi su singole questioni avulse dal contesto e volte esclusivamente a intercettare una corrispondenza tra specifici individui realmente esistiti o eventi storicamente ben individuati e il riferimento operato dall’autore nella sua opera.[5]

2. Nel caso di specie, il riferimento letterario d’elezione è rappresentato dagli scritti di Charles Dickens[6], il quale può a buon diritto essere annoverato tra gli storici del diritto[7].

La penna di Dickens appare inequivocabilmente spinta dall’urgenza di denunciare e rendere evidenti le storture dell’apparato della giustizia anglosassone della sua epoca, e risulta connotata da un senso di inquietudine interiore che accompagnerà l’autore per tutto il corso della sua vita, verosimilmente determinato dalla propria personale esperienza[8], che lo ha indotto a maturare un sentimento di ostilità e avversione – si direbbe quasi di nausea e ripugnanza – rispetto al sistema di amministrazione della giustizia del tempo.

Volgendo l’attenzione al cuore dell’opera in commento, viene da Holdsworth preliminarmente posto in evidenza come – ai fini di un inquadramento quanto più possibile completo e attendibile della realtà dell’epoca sotto il profilo in questione – sia fondamentale accedere all’opera di Dickens, in quanto solo attraverso di essa risulta possibile acquisire piena consapevolezza del funzionamento degli ingranaggi della macchina della giustizia.  

Attraverso la lente di autori non giuristi vissuti nel periodo storico di riferimento è dato analizzare il medesimo oggetto da un punto di osservazione altro, come tale idoneo a restituire al lettore un’immagine che dalle fonti giuridiche ufficiali non sarebbe possibile ricavare. Si tratta, dunque, di una descrizione complementare a queste ultime, idonea a colmare le lacune da cui esse risultano inevitabilmente caratterizzate. 

Nel caso di Dickens, peraltro, l’interprete-storico del diritto che intenda arricchire il proprio arsenale conoscitivo rispetto ad una determinata epoca trova terreno fertile in quanto, a differenza di altri romanzieri, l’autore si contraddistingue per la dovizia di particolari nella descrizione e per la capacità di analizzare aspetti e situazioni anche complessi mediante la rievocazione di immagini e suggestioni in maniera estremamente efficace e icastica.

Holdsworth intende – come già anticipato – enucleare ed estrapolare, a partire dai contributi più significativi di Dickens, uno spaccato assai particolareggiato del funzionamento dei tribunali nella prima metà del XIX secolo, analizzando aspetti differenti del medesimo fenomeno, in particolare dedicando ciascun capitolo-lezione a tematiche specifiche. Rispettivamente, egli si sofferma sulle Corti e gli ambienti degli avvocati, sui rappresentanti della legge e sugli altri funzionari e operatori del diritto, sulla procedura della Court of Chancery e su quella di Common Law.

Viene innanzitutto posto in evidenza come Dickens abbia rivestito il ruolo di «corrispondente per la posterità»[9] in riferimento alle innumerevoli immagini e informazioni da lui fornite con notevole dovizia di particolari. Egli scrive infatti in un’epoca di transizione, in cui i primi, timidi accenni di cambiamento e tentativi di riforma del sistema della giustizia stanno gradualmente emergendo. Tuttavia, l’autore ambienta i propri romanzi in un’epoca poco più risalente, in cui lo stato delle cose risultava ancora drammaticamente immutato. Ciò che rileva è la capacità di Dickens di restituirci, con sguardo penetrante, ritratti che non potrebbero essere rinvenuti altrove, in quanto caratterizzati da una tale acutezza e profondità nell’osservazione, da essere in grado di rievocare con estrema immediatezza e vividezza una situazione, un ambiente o un’atmosfera, e di suscitare in modo altrettanto efficace ogni sensazione o suggestione connessa allo scenario tratteggiato, quasi si vivesse in prima persona l’esperienza da lui sapientemente descritta. È grazie alle suddette peculiarità dello scrittore di Portsmouth che si è particolarmente agevolati nell’operazione ricostruttiva di un aspetto così complesso e sfaccettato come quello dell’ingranaggio della giustizia di inizio 1800. Ciò che interessa all’autore non è la completezza nella rappresentazione di un personaggio o di un ambiente, bensì l’impressione, la sensazione o l’immagine che dalla descrizione di loro singoli tratti caratteristici vengono evocate e si è in grado di percepire, quasi fossero frutto – per così dire – di un guizzo o di un’agile intuizione, come tale insuscettibile di essere restituita a parole se non attraverso la geniale e peculiare tecnica narrativa adottata.

Orbene, grazie alla valorizzazione dell’opera di Dickens, si è in grado innanzitutto di acquisire contezza delle caratteristiche e del funzionamento delle diverse corti. 

Emblematica appare la descrizione della composizione della Guildhall[10], che tradisce fin da subito l’atteggiamento disincantato dell’autore, il quale riferisce che molti avvocati avevano «incartamenti da mettere in mostra» che «portavano più in vista che fosse possibile, e di tanto in tanto vi ficcavano dentro il naso per far più colpo sul pubblico che li stava a guardare», altri recavano presso di sé grossi volumi, altri ancora «si cacciavano le mani in tasca, con l’aria più pensosa che potevano ottenere senza eccessiva fatica», o «si muovevano qua e là […] accontentandosi di suscitare così l’ammirazione e lo stupore dei creduli profani». Non sfugge all’acuto sguardo dell’osservatore la loro «massima indifferenza, proprio come se il processo che doveva incominciare non esistesse nemmeno». Sono inoltre presenti, nei suoi romanzi, riferimenti che spaziano dalla Westminster Hall, alla Court of Chancery, alla Insolvent Court in Portugal Street, o ancora alle Doctors’ Commons, e così via. 

Interessante risulta il riferimento alle Inns of Court[11], antiche corporazioni e residenze in cui sin dall’epoca medievale si riunivano i common lawyers a scopo di formazione per l’esercizio della loro professione: qui l’insegnamento veniva impartito dai membri più anziani, ciò che rappresentava una conditio sine qua non per l’ottenimento della qualifica necessaria ad accedere alle cariche giudiziarie.

Le Inns, pur connotate originariamente da una finalità educativa[12] assunsero l’ulteriore indispensabile funzione di consolidamento, sviluppo e salvaguardia della tradizione di Common law. In definitiva, le Inns of courts erano non solo ambienti di studio, ma altresì di forte omologazione socio-culturale, funzionali dunque allo sviluppo di un forte senso di appartenenza, spirito identitario e di colleganza.

Un ulteriore aspetto di notevole rilievo è rappresentato dalla circostanza che i casi narrati da Dickens non solo corrispondono talora a processi realmente svoltisi (basti pensare all’emblematico caso Jarndyce vs. Jarndyce descritto in Casa Desolata), ma costituiscono altresì occasione per far emergere le personalità e gli atteggiamenti di avvocati[13], giudici e funzionari operanti negli ambienti giudiziari: tali indicazioni si rivelano cruciali in quanto anch’esse spesso riferite o ispirate a soggetti storicamente esistiti. Emblematica a tale riguardo si rivela la figura dell’avvocato Perker in Il circolo Pickwick, nella configurazione del quale si ritiene che Dickens si sia ispirato al professionista presso il cui studio svolse attività di impiegato.

Gli ultimi due capitoli in cui si sviluppa la riflessione di Holdsworth sono imperniati sugli aspetti più problematici delle Corti – rispettivamente – di Equity[14] e Common Law. Dall’opera ci è dato desumere in maniera alquanto analitica le diverse criticità da cui il sistema risultava afflitto. 

Segnatamente, a proposito della Court of Chancery, emerge l’estrema lentezza dei processi, causata – tra le altre cose – dagli interminabili esami condotti nei confronti dei testimoni, i quali peraltro non erano posti nella condizione di comprendere l’effettivo significato delle domande loro rivolte, a causa del carattere estremamente tecnico del linguaggio adoperato. Ciò che costituisce una ulteriore riprova dell’atteggiamento di odiosa estraneità ed indifferenza assunto dagli operatori della giustizia rispetto ai soggetti che – loro malgrado – si ritrovavano invischiati nelle melmose e ristagnanti acque di un processo ormai obsoleto, macchinoso e incurante delle esigenze del singolo[15]. Le lungaggini della procedura in discorso erano ulteriormente aggravate dalla pretesa della summenzionata Corte di trattare, per ciascuna causa, la questione nella sua interezza, piuttosto che soffermarsi sul solo aspetto controverso. 

La farraginosità del processo non era peraltro limitata al sistema di equity, atteso che le procedure dinanzi alle Corti di Common law si caratterizzavano, del pari, per la loro estrema artificiosità, vetustà e inadeguatezza. Esse, infatti, lungi dal prevedere un’unica modalità di inizio della causa, erano ancorate al rigido sistema dei writs. Ciò comportava una sterile e pregiudizievole prevalenza dell’aspetto formale sulla dimensione sostanziale, oltre che un controproducente attaccamento a convenzioni e formalismi ormai privi di significato e di qualsivoglia utilità pratica.

I romanzi hanno rivestito un ruolo determinante nello scuotimento dell’opinione pubblica e nella conseguente accelerazione del processo di riforma già in atto nel momento in cui l’autore provvede a denunciare tali storture a mezzo delle sue preziose opere. Basti pensare al punto d’approdo rappresentato dal Judicature Act del 1875, con cui si posero le basi per il moderno assetto del processo inglese.

3. La presente indagine, tuttavia, non mira né vuole esaurirsi nella breve disamina – pur finora svolta – delle principali caratteristiche del sistema della giustizia negli ordinamenti di Common law in età vittoriana. 

Al contrario, tale analisi non si rivela che una necessaria premessa, funzionale a comprendere la pregnanza e il grado di pervasività con cui i riferimenti giuridici “contaminano” il mondo della letteratura, e – per converso – l’imprescindibilità dei contributi letterari nel settore del diritto, laddove si aspiri ad una comprensione quanto più completa e ricca dei fenomeni ad esso afferenti. 

Orbene, la presente trattazione tende, come già a suo tempo anticipato, a sviluppare una riflessione intorno a tale peculiare rapporto, e in particolare in relazione al movimento noto come Law and Literature[16].

Quest’ultimo può a ragione essere definito come una scuola di pensiero fondata su un particolare tipo di approccio al diritto. Quest’ultimo viene concepito come una realtà comprensibile fino in fondo solo attraverso la lente dei romanzi e delle altre opere letterarie che si soffermano sui risvolti pratici delle dinamiche giuridiche astrattamente affrontate in manuali e testi tecnici, inidonei da soli a restituire una comprensione effettiva del diritto. 

Si tratta – com’è noto – di un fenomeno innanzitutto sociale, di talché appare quanto meno questionabile, se non finanche sintomatico di una visione parziale e miope del diritto, un approccio a quest’ultimo che pretenda di prescindere totalmente proprio da quei contributi che dalla stessa società promanano. La letteratura costituisce infatti diretta emanazione ed espressione di quel complesso e variegato magma in continua evoluzione rappresentato dal sostrato sociale, in cui anche il diritto rinviene la sua propria matrice. I testi letterari si rivelano in tal senso uno strumento quanto mai prezioso per il giurista, il cui oggetto di studio altro non è, a sua volta, che un particolare e ulteriore modo della società di esprimere se stessa e regolare i propri rapporti.

È appena il caso di osservare come molteplici altri autori, similmente a Dickens, possano essere sine dubio annoverati quali «corrispondenti per i posteri».  

Sembra opportuno – a tal proposito – prescindere da ogni riferimento ai giuristi[17] che, pur autori di testi di notevole interesse per lo storico del diritto, non risultano peraltro suscettibili di essere annoverati tra coloro che hanno istituito un nesso tra il fenomeno giuridico e la dimensione squisitamente letteraria, sotto il segno del binomio Law and Literature. La ragione di tale esclusione è lapalissiana: l’elemento che più peculiarmente caratterizza il movimento in questione consiste proprio nella centralità assunta dal testo letterario, per sua stessa natura non identificabile con le opere che – pur nella parziale sovrapponibilità dell’oggetto trattato –  si esauriscono nella trattazione di temi esclusivamente riconducibili al settore giuridico di riferimento; di talché, tali opere non risultano scevre neppure da condizionamenti di natura tecnica, rivelandosi, in definitiva, del tutto estranee al concetto stesso di romanzo o, più genericamente, di opera letteraria. 

In quest’ultima, per converso, è dato rinvenire il riferimento d’elezione al fine di intercettare il grado di recettività e sensibilità, da parte dell’autore, rispetto a dinamiche che, pur non rappresentando l’oggetto principale né il fine ultimo della sua trattazione, emergono talora sotto traccia, talora in maniera più esplicita e manifesta nell’opera, in ragione di quanto da lui concretamente sperimentato e vissuto.

Le opere di William Shakespeare risultano a tal proposito esemplificative. Esse non denotano una visione monolitica del diritto, ma pongono le basi per una più profonda riflessione sul rapporto tra diritto e giustizia, così come sui molteplici abusi posti in essere dalle autorità politiche della sua epoca. 

Quello che è ricavabile dagli innumerevoli spunti offerti dall’autore è l’intento di problematizzare tale complessa interazione: ciò che risulta esemplificato nelle sue diverse opere, le quali costituiscono il frutto della sua diretta esperienza[18].

Come in Dickens, anche qui la giustizia viene rappresentata mettendo a nudo tutte le debolezze di un sistema non scevro da gravi criticità e deficit.

Nella celebre tragedia “Romeo e Giulietta” si nota un elemento che raramente altrove si constata nelle ulteriori opere di Shakespeare: ebbene, si individua un microcosmo ben preciso, quello del Principe e del diritto positivo vigente a Verona, da lui impersonato. Ed è in forza di tale sistema di giustizia – incarnato e rappresentato dalla figura del Principe – che si pongono le premesse per una amara constatazione. Ciò che, infatti, emerge in tutta la sua evidenza pare proprio l’impotenza della legge, incapace di impedire o frenare l’inevitabile degenerazione dei rapporti sociali in conflitti, caos e distruzione. 

Anche qui, come in Dickens, è ravvisabile dunque un cinico senso di sfiducia nei riguardi di chi dovrebbe essere deputato a proteggere i deboli, mantenere l’ordine e garantire la tutela dei diritti. 

Nelle altre opere del drammaturgo, al contrario, ci si astiene dall’individuazione di un sistema processuale volto a ripristinare l’ordine e la giustizia in occasione della assunzione di una condotta illecita[19].

L’incapacità della legge di essere precettiva, a causa di un sistema della giustizia inefficace, comporta l’instaurarsi di una situazione in cui a regnare è la più soverchia incertezza, di pari passo con il disordine aggravato dalla infausta logica della vendetta, la quale non può che innescare un tragico circolo vizioso di crimini a catena. È interessante notare come anche in Dickens, mutatis mutandis, la sfiducia e la disillusione rispetto alla macchina della giustizia si tramutino in un sentimento di esasperazione e parossistica repulsione verso di essa. Ciò che reca con sé conseguenze alquanto pericolose, essendo favorito l’innesco della dinamica dell’autotutela, giacché il singolo finisce con il prediligere la prospettiva di tutelarsi autonomamente e con i propri mezzi, piuttosto che affidarsi ad un apparato inefficiente e incapace di far valere i diritti individuali e le regole dell’ordinamento. 

Le tragedie di Shakespeare in genere divergono dall’impostazione di “Romeo e Giulietta”, cui si è poc’anzi accennato, ove si poteva con chiarezza notare l’esistenza di un apparato della giustizia, sia pure inefficace, come sistema in contrapposizione alle dinamiche vendicative. 

Nella maggior parte delle altre, al contrario, risulta completamente assente qualsivoglia riferimento a tale contrapposizione. Per questo “Romeo e Giulietta” costituisce, da tale prospettiva, una vera e propria eccezione.

Ciononostante, alcune di tali tragedie sono state addirittura interpretate come un tentativo di rappresentare una giustizia riconducibile all’Equity, in contrapposizione con il più rigido sistema di Common Law. L’equità di cui trattasi, peraltro, è da intendersi quale frutto della sensibilità dell’autore, e per l’effetto, del pubblico chiamato a condividere le sensazioni e impressioni che egli intende trasmettere e veicolare.

Segnatamente, ciò è stato osservato[20] in relazione al sentimento di pietà e immedesimazione che l’autore sembra voler suscitare nel pubblico rispetto a personaggi pure colpevoli di crimini, quali Amleto o Bruto – rispettivamente nelle tragedie “Hamlet” e “Julius Caesar”- nella misura in cui le loro azioni, sia pur riprovevoli, sono state poste in essere in assenza di una sincera, convinta adesione interiore: si tratta di personaggi dilaniati da un irriducibile dilemma, il quale si rivelerà il principale responsabile della loro eterna inquietudine, tanto da suscitare nello spettatore proprio quel senso di compassione che costituisce il presupposto necessario per il perdono, secondo una logica di equità.

Al contrario, nelle commedie il riferimento di Shakespeare al sistema di amministrazione della giustizia è ben presente, ma si colora di una luce ironica, disincantata, denotando ancora una volta un atteggiamento di profonda sfiducia verso le istituzioni che dovrebbero essere preposte a garantire il rispetto della legge. 

In altri termini, in tale contesto a prevalere è l’intento di sorprendere lo spettatore – coerentemente con il carattere tipico della commedia – attraverso una trama tanto complessa quanto superficiale: alla profondità delle riflessioni ispirate dalla tragedia si sostituisce un inestricabile intreccio di eventi tali da distrarre e sorprendere lo spettatore, che in questo stato di piacevole trasporto è indotto a guardare ironicamente finanche ai più preoccupanti aspetti di stringente attualità, quale quello – per l’appunto – relativo alla ineffettività, inefficacia e inadeguatezza del sistema della giustizia.

Senza voler indugiare ulteriormente nella trattazione dell’opera di Shakespeare, merita volgere pur brevemente l’attenzione su un altro autore – Manzoni – da cui è dato trarre qualche spunto ai fini della comprensione del rapporto tra diritto e letteratura. 

Tale riferimento appare imprescindibile sol che si consideri il rilevante ruolo che nella sua più nota opera, “I promessi sposi”, ricopre la dimensione non solo socio-politica, ma anche storico-giuridica. Si pensi, a tal proposito, alla celebre descrizione dell’Azzecca-garbugli, indicativa della percezione predominante all’epoca in relazione alla capacità e attitudine degli operatori del diritto di apprestare adeguata tutela a chi si rivolgesse ad essi al fine di ricevere tutela. 

Seppure si tratti di un personaggio immaginario, non sfugge cionondimeno la verosimiglianza del ritratto offerto dall’autore rispetto a figure realmente esistite alla sua epoca. Ancora una volta, è possibile rinvenire elementi di analogia tra la descrizione fatta dal Manzoni e i sapienti ritratti operati da Dickens. 

In particolare, la descrizione dell’avvocato viene condotta attraverso una focalizzazione su alcuni singoli elementi, apparentemente insignificanti ma evocativi della personalità e dello stile di vita del soggetto. Ci si sofferma sullo studio polveroso, pieno zeppo di libri, che trasmette un senso di soffocamento; la scrivania è ricoperta di fogli sparpagliati alla rinfusa, la poltrona è malandata e anch’essa polverosa, così come il vecchio mobilio; ogni cosa denota squallore e trascuratezza. Un siffatto scenario non può che rievocare – nel lettore odierno- le descrizioni che Dickens opererà pochi anni dopo, similmente caratterizzate da una attenzione a dettagli idonei a rappresentare efficacemente la personalità e l’atteggiamento di un soggetto, oltre che le caratteristiche complessive dell’ambiente in cui esso opera. Basti pensare alla sciatteria e al decadimento, al senso di malattia e innaturalezza percepito e icasticamente reso a mezzo della sua sapiente tecnica narrativa, dall’autore di Portsmouth in occasione della descrizione delle Inns of Courts[21].

Ma le analogie non si esauriscono nella modalità con cui avviene la descrizione degli ambienti degli operatori del diritto. Esse emergono altresì dall’incomprensibilità del linguaggio con cui l’Azzecca-garbugli si rivolge a Renzo, quasi a voler ostentare il proprio sterile sapere, incurante delle esigenze del richiedente tutela. Allo sfoggio di erudizione, alla noncuranza dei bisogni altrui, alla corruzione e al completo decadimento che connotano gli ambienti giudiziari, si aggiunge una imperterrita e ostinata tendenza al mantenimento dello status quo, alla salvaguardia delle apparenze di una classe sociale tanto vuota quanto attenta a preservare l’integrità del proprio presunto prestigio. 

Tutto questo si riscontra altresì in Dickens, il quale, come si è avuto modo di osservare, non esita a esprimere il proprio tagliente giudizio rispetto sia alle modalità con cui giudici e avvocati si rivolgono ai privati cittadini[22], sia al loro atteggiamento di noncurante, imperturbabile indifferenza, drammaticamente contrapposta alla disperazione di coloro che da questi dovrebbero essere tutelati. Una indifferenza che viene a configurarsi in tutta la sua cinica brutalità, quale sintomo di una classe sociale ormai pervasa da ipocrisia e corruzione. Ciò che induce Dickens a sostenere che la partecipazione ad un processo in un siffatto contesto veniva considerata come un male finanche peggiore di quello a causa del quale si era ricorsi alle vie legali[23].

4. Con tale sintetica disamina si intende, senza alcuna pretesa di esaustività[24], offrire alcuni spunti di riflessione in merito all’interessante ruolo svolto dalla letteratura in relazione al diritto, in termini di reciproco arricchimento di due settori solo apparentemente distinti. 

Si è pertanto cercato di dare conto di alcuni esempi di tale felice connubio, studiato e approfondito in dottrina fin dalla nascita del movimento Law and Literature.

Conclusivamente, alla luce di quanto sinora osservato, appare auspicabile che il giurista accolga un siffatto approccio ogni qual volta intenda cimentarsi nello studio del diritto, al fine di poter accedere a nozioni ulteriori e – si badi – tutt’altro che ultronee, che vadano ad arricchire il suo strumentario nonché il suo arsenale conoscitivo.

In altri termini, occorre acuire la sensibilità del giurista rispetto alla percezione di fenomeni che, lungi dal dover essere interpretati e analizzati entro singoli compartimenti stagni, debbono essere proiettati e – per così dire – sviscerati assumendo orizzonti prospettici e punti di osservazione altri rispetto a quello rappresentato dal mondo del diritto.

Solo in tal modo risulta possibile addivenire all’auspicato risultato di una piena consapevolezza delle dinamiche afferenti alla dimensione propriamente giuridica, attesa la inevitabile compenetrazione tra due settori – law and literature, per l’appunto – che non fanno che guardare al medesimo oggetto da punti di vista complementari e reciprocamente integrantesi.


[1]      Di W. S. Holdsworth, a cura e traduzione di G. Abbracciavento, 2015, Maggioli Editore, collana Devolution Club.

[2] Si avrà cura, pertanto, di sviluppare alcune riflessioni in relazione al noto movimento di Law and Literature.

[3] Ideato e sviluppato da G. Abbracciavento, traduttore e curatore dell’opera.

[4] Basti pensare ai reports, ove sono indicati i fatti di causa e le argomentazioni dei giudici così da cristallizzarne il contenuto in termini di precedenti giudiziali. Più precisamente, si tratta di raccolte di decisioni giudiziali, ove sono registrati i fatti di causa, le argomentazioni delle parti, le motivazioni alla base della sentenza. Pare al proposito opportuno operare una breve digressione sull’evoluzione di tale genere di raccolte, la quale si esplica in tre periodi: dalla fine del XIII secolo alla fine del XVI si sviluppano compilazioni anonime note come year books, la cui origine privata o ufficiale è tuttora dubbia. Fino alla seconda metà del XIX secolo, quindi anche all’epoca di Dickens, esse erano considerate opera di scrivani di corte; dal XVI al XIX secolo, si diffondono gli old private reports, attribuiti a singoli giudici o avvocati, e la cui originaria funzione era di tipo privato, ma che poi si diffusero grazie alle relative copie degli originali manoscritti. Infine si annoverano i Law reports a partire dal 1866: ad essi è attribuito a tutt’oggi valore semi-ufficiale, anche grazie all’istituzione del Council of law reporting. Cfr. sul punto W.S. Holdsworth, H.E.L., vol.2, 1923, 525-556; vol.3, 654-658; vol.5, 1945, 355-378.

[5] Cfr. G. Abbracciavento, in W.S. Holdsworth, Charles Dickens storico del diritto, cit., p.21-22, il quale prende le distanze da un approccio, pur adottato da altri giuristi, volto ad analizzare il contributo letterario in maniera poco proficua ai fini di una ricostruzione sistematica della situazione complessiva del fenomeno di interesse dello storico del diritto. Egli, nel riferirsi a tale atteggiamento, se ne discosta in quanto ritenuto inidoneo a valorizzare adeguatamente le potenzialità arricchenti del contributo dell’autore, «costringendolo, di fatto, nel perimetro angusto dell’antologia, limitandosi a rinvenire nelle sue opere lacerti e spezzoni riconducibili a tematiche giuridiche ma tra loro sconnesse senza provare a fare una ricostruzione razionale e sistematica degli istituti».

[6] Accogliendo e riproponendo in parte la tecnica espositiva adottata da Holdsworth – ciò che vale a dimostrare la sincera e profonda adesione del curatore alle considerazioni formulate dall’autore delle lezioni – nel corpo della prefazione si indugia su un brano dell’opera dello scrittore di Portsmouth, funzionale a far emergere la estrema nettezza e icasticità delle descrizioni presenti nella maggior parte delle opere del celebre scrittore, in particolare Casa Desolata e Il Circolo Pickwick

[7] Lo stesso Holdsworth, quasi a voler suggellare quanto affermato diffusamente nel corso della sua intera opera, non esita a definire Charles Dickens come «un membro del gruppo prescelto di noi storici del diritto».

[8] Come evidenziato nelle pagine del libro, fin dalla sua infanzia Dickens ha potuto sperimentare con amareggiata consapevolezza l’irrazionalità e assurdità di un sistema di amministrazione della giustizia ormai obsoleto e inadatto ad apprestare adeguata tutela ai cittadini. Significativa è stata la prigionia di suo padre a Marshalsea in quanto debitore insolvente, così come le numerose cause da lui esperite a causa della immissione in commercio di edizioni pirata di A Christmas Carol.

[9] L’espressione è mutuata da W. Bagehot, Literary Studies, II, Dent&SonsLondon, 1905, p.176, il quale, a proposito di Dickens, dichiara: «Egli descrive la sua Londra come se fosse uno speciale corrispondente per la posterità».

[10] In occasione della causa di Mrs. Bardell, in Il Circolo Pickwick, cap. XXXIV, 591.

[11] Merita riportare, al proposito, le parole icasticamente adoperate da Dickens nella descrizione delle Inns, in Il Circolo Pickwick, cap. XXI, 357-358, da cui trasuda un senso di esasperato isolamento, di malattia e innaturalezza comunicato da quei luoghi : «E che cosa ne sapete, voi, del tempo in cui i giovani si chiudevano in quelle stanze solitarie, e leggevano, leggevano, un’ora dopo l’altra, una notte dopo l’altra, finché la loro mente vacillava per le notti insonni, finché la loro energia intellettuale era esaurita, finché la luce del mattino non portava più né freschezza né salute, e crollavano sotto il peso di un innaturale sacrificio della giovinezza ai loro vecchi libri polverosi? […]». Emerge, dunque, una connotazione tutt’altro che positiva di tali quartieri, altrove (spec. in Grandi Speranze, cap. XX1, 183-184) finanche equiparati a lugubri cimiteri malinconici, in stato di progressivo degrado e squallore.

[12] La funzione educativa delle Inns of Court risale all’epoca medievale per poi terminare nel XVII secolo: allora si parlava delle Inns come di una “terza Università” di Inghilterra dopo Oxford e Cambridge. La guerra civile tra la Corona e il Parlamento segnò la fine dell’attività delle Innscome centri di insegnamento; tuttavia, una ripresa di tale peculiare funzione si ebbe a partire dalla seconda metà del 1800; al riguardo, cfr. A.-H. Chroust, Beginning, Flourishing and decline of the Inns of Court: The consolidation of the English Legal Profession after 1400, in Vanderbilt Law Review, 1956, 79ss.

[13] Si tratta di un termine generico, che nel sistema inglese di Common law si presta a diverse traduzioni. In particolare, come emerge dall’opera in commento, all’epoca di Dickens erano ancora operanti i serjeants at law, i quali in età medievale erano situati al livello più alto dell’avvocatura, e potevano essere nominati giudice nelle corti di Common law; poi la nomina in serjeant divenne una formalità, così anche i barristers poterono essere nominati allo scopo di accedere alla carica giudiziaria. Nella prima età vittoriana, la figura del serjeant aveva ormai un rilievo marginale, a causa dell’avvento dell’attorney-general e del solicitor-general, i quali risultavano gerarchicamente sovraordinati alla predetta istituzione medievale, svolgendo il ruolo di consiglieri del Re. Ciononostante, come confermato dai romanzi di Dickens, alla sua epoca resisteva ancora il monopolio di tali professionisti, incarnati nei rappresentanti di Pickwick e di Mrs. Bardell in Il Circolo Pickwick. Quanto alla distinzione tra barristers e solicitors, originariamente i primi erano avvocati più esperti abilitati al patrocinio presso le corti di grado superiore, non potendo essi intrattenere un rapporto diretto con i clienti, mentre i secondi erano general practitioners, che si occupavano prevalentemente della preparazione e redazione di documenti, e in un secondo momento anche della mediazione con il cliente. Tuttavia, tali differenze si sono progressivamente attenuate: oggi, da un lato, anche i barristers possono interfacciarsi direttamente con il cliente e fornirgli consulenza, dall’altro, i solicitors possono patrocinare dinanzi alle corti di grado inferiore.

[14] Le origini del sistema di Equity sono da rinvenirsi in epoca assai risalente – nel XIV secolo – quando il Lord Cancelliere, titolare dell’ufficio di cancelleria, aveva il compito di rilasciare ai sudditi i writs per consentire loro di agire davanti a una delle 3 corti di Common law. A lui, infatti, in quanto “custode della coscienza del Re”, si rivolgevano i singoli per invocare un suo intervento diretto laddove la Common law non era in grado di apprestare adeguata tutela. In progresso di tempo, si diede gradualmente vita a una giurisdizione autonoma, esercitata dallo stesso Cancelliere in seno alla propria Court of Canchery. Si tratta pertanto, coerentemente con la sua origine, di una giustizia correttiva, suppletiva e integrativa, ove un’inconfessata, rilevante influenza esercitarono le fonti canonistiche e romanistiche, a causa dell’appartenenza dei primi cancellieri all’ordine ecclesiastico (fenomeno del c.d. silently borrowing).

[15] Particolarmente calzanti si rivelano, al riguardo, le suggestioni evocate da Dickens in Casa desolata, cap. XXIV, 328: «Vedere che si svolgeva tutto con questa calma e pensare alla durezza della vita degli attori e dei convenuti; […] considerare che mentre il male delle speranze sempre rimandate attanagliava tanti cuori, quel fine spettacolo continuava tranquillamente giorno dopo giorno, anno dopo anno, con ordine e compostezza […]», tutto ciò non poteva che suscitare «orrore, disprezzo e indignazione universale», tanto che «solo per miracolo qualcuno poteva ricavarne qualcosa di buono».

[16] I primi ad approfondire tale tematica prima ancora che essa ricevesse un formale inquadramento con l’espressione ad oggi adottata furono J. Wigmore nel 1908 con List of legal novels, in cui è selezionata una rosa di testi letterari funzionali alla formazione del giurista, in quanto espressivi della cultura giuridica degli Stati Uniti, e B. Cardozo, che nel 1925, in Diritto e letteratura, adotta un approccio complementare al primo, consistente nell’equiparazione delle sentenze a un vero e proprio testo letterario, come tale suscettibile di interpretazione al pari di qualsiasi altra opera narrativa. James Boyd White, infine, può a buon diritto considerarsi colui che per primo ha fondato tale approccio in termini di vero e proprio movimento intellettuale.

[17] Basti pensare a J. Fortescue, che, nel XV secolo, con il suo De Laudibus descrive la professione legale del suo tempo, la vita quotidiana degli operatori del diritto nonché la loro formazione giuridico-professionale, oltre che soffermarsi sulle Inns e sulla Court of Chancery. R. North, avvocato nonché fratello di un Lord Keeper e di un Chief Justice, nel XVI secolo tratteggia il mondo giuridico della sua epoca, sia nella sua autobiografia sia nel Discourse on the study of the laws. Samuel Romilly, avvocato e politico, nel XVIII secolo fornisce informazioni essenziali sulla sua epoca riguardo alla Court of Chancery e in merito alle sollecitazioni e pressioni riformatrici dei liberali.

[18] P. Raffield e G. Watt, Shakespeare and the Law, Oxford, 2008, 4: «If the legal themes of Shakespeare’s works reflect acquired knowledge of English law, gained probably from friends, relatives and acquaintances rather than from formal study of substantive law itself, they also demonstrate a crucial feature of Elizabethan jurisprudence, which is that government was conducted and represented as theatre».

[19] Così F. Quabeck, William Shakespeare, in Encyclopedia of Law and Literature, 2022, 15, lawandliterature.eu: «There is no system in place in Shakespearean drama that allows crimes to be identified or punishment to be enforced. […] the plays that are most likely to engage in crime and punishment are the comedies, in which by definition neither is supposed to be serious or harmful and the ‘police’ is easily turned into a laughing stock».

[20] F. Quabeck, op.cit., cui non sfugge il riferimento a R. Lemon, Shakespeare and Law, in A. F. Kinney (ed.), The Oxford Handbook of Shakespeare, Oxford, 2011, 554, la quale istituisce un parallelismo con le corti di equity: «Like equity courts, which provide a corrective to harsh legal justice by offering pardon to condemned criminals, Shakespeare’s plays weigh up, and often pardon, various human failings». Nello stesso senso, J. Tambling, Law and Will in Measure for MeasureEssay in Criticism, 2009, 190: «The law cannot contain mercy, because that implies something inside the law, overriding it. The law either condemns me or sets me free because I am innocent. It cannot condemn me and then show mercy to me; if it does that, it is not the law. Mercy is opposite to law, not contained in it».

[21] Cfr. supra, nota 11, ove si parla di «vecchi libri polverosi» e i quartieri delle Inns vengono equiparati a cimiteri lugubri e malinconici.

[22] Cfr. supra, nota 11: gli avvocati nella Guildhall descritti da Dickens avevano «incartamenti da mettere in mostra» che «portavano più in vista che fosse possibile, e di tanto in tanto vi ficcavano dentro il naso per far più colpo sul pubblico che li stava a guardare», altri recavano presso di sé grossi volumi, altri ancora «si cacciavano le mani in tasca, con l’aria più pensosa che potevano ottenere senza eccessiva fatica», o «si muovevano qua e là […] accontentandosi di suscitare così l’ammirazione e lo stupore dei creduli profani».

[23] Cfr. supra, nota 15.

[24] Per ragioni di economia del discorso, si è potuto accennare solamente ad alcuni degli autori che meglio sembrano esemplificare questo rapporto di compenetrazione e reciproca contaminazione. Ben potrebbero esserne annoverati di ulteriori, quali Rabelais, Cervantes, Balzac, Hugo, Dostojevskij, Tolstoj e così via.

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