Attestazione di libera circolazione di un’opera d’arte e connessa esigenza di “presa visione” di un’opera d’arte connessa

Chiara Polini

Il provvedimento in commento offre lo spunto per soffermarsi sui profili sostanziali relativi all’attestazione di libera circolazione di un’opera d’arte e alla connessa esigenza di presa visione del bene.

The judgment under comment provides an opportunity to dwell on the substantive profiles relating to the certificate of free circulation of a work of art and the related requirement to inspect the asset.

SOMMARIO: 1. Fatto all’origine della controversia. –  2. Conferma della tradizionale deferenza del giudizio amministrativo in materia: osservazioni e puntualizzazioni. –  3. Spunti innovativi: la “presa visione” del bene come emblema della necessità di rendere la valutazione amministrativa in materia di beni culturali più permeabile al sindacato giurisdizionale. – 4. Riflessioni conclusive.  

1. Il presente lavoro muove da due recenti pronunce del giudice amministrativo che in primo grado e poi in appello ha confermato l’esigenza, messa in discussione dall’amministrazione, di prendere visione – o di “presa visione” come si dice nelle stesse – di una certa opera prima di sottoporla a tutela[1]

       In particolare, il ricorso è stato proposto dal proprietario del bene contro la Soprintendenza di Milano, chiedendo l’annullamento del provvedimento con cui si negava il rilascio dell’attestato di libera circolazione[2].

Ai fini di questo elaborato – a parte le ormai classiche dispute, anche qui presenti, sui margini più o meno ampi di sindacabilità delle scelte discrezionali in materia di beni culturali effettuate dall’amministrazione, dispute che per lo più si concludono con il riconoscimento di una sorta di riserva a favore di quest’ultima – ciò che più rileva è l’illegittimità del provvedimento impugnato sulla base del fatto che l’amministrazione procedente non aveva “preso diretta visione del dipinto”.

In queste note si tenterà di specificare come alla base della correttezza dell’epilogo giudiziario sussistano ragioni di carattere sostanziale legate all’equo contemperamento fra esigenze in contrapposizione fra loro. Si allude chiaramente a quelle di tutela del bene da un lato e di libera circolazione correlato al diritto di proprietà dall’altro.

Tuttavia, merita anche osservare fin d’ora che queste esigenze di tutela possono essere soddisfatte allorché alla valutazione sull’interesse culturale di un’opera prendono parte più soggetti di cui solo alcuni ne assumono cognizione diretta. È così accaduto che, innanzi ad un ricorso in cui si sosteneva l’illegittimità del diniego di libera circolazione, poiché l’esperta consultata dall’Ufficio di esportazione non aveva “preso visione diretta del dipinto, ma solo di una fotografia”, il giudice ha replicato: “tale circostanza non è rilevante in quanto (…) il diniego di rilascio dell’attesto di libera circolazione (…) era corredato da autonome valutazioni dell’Ufficio in merito alla qualità dell’opera e alla plausibilità dell’ipotesi attributiva”[3]

2. Nelle pronunce oggetto di annotazione emerge, come di consueto, un approccio particolarmente deferente del giudice amministrativo nei riguardi delle scelte tecnico-discrezionali dell’amministrazione.

La serie di criteri di valutazione in esse richiamati spaziano dal ben noto “carattere ampiamente discrezionale delle valutazioni dell’Autorità preposta alla tutela”, alla precisazione secondo cui il giudizio sul c.d. vincolo culturale “implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità”.

Da ciò il giudice desume che l’apprezzamento compiuto possa essere verificato “esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione (…)”, ragion per cui può essere censurato solo ciò “che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile”.

Quanto appena sintetizzato, ma altri esempi sarebbero possibili proprio a partire dalle due sentenze analizzate, evidenzia tutte le difficoltà di adottare pronunce più penetranti in tema, dato che le stesse si potrebbero fatalmente trasformare in una valutazione soggettiva alla stessa stregua di quella amministrativa[4].

Tuttavia, pur caratterizzata da obiettivi limiti di sindacato, nel caso che ci occupa il giudice ha fatto comunque buon governo di questa sua pur deferente impostazione. Nel senso che innanzi ad una evidente carenza come quella legata al fatto di non prendere visione di un bene che si vorrebbe poi vincolare, ha opportunamente stigmatizzato questa omissione e di riflesso tutelato gli interessi del soggetto proprietario del bene.

Sta qui l’originalità delle pronunce in esame: aver preso posizione contro un’impostazione amministrativa che, già forte di per sé, rischiava di essere eccessiva e come tale sproporzionata.

Non mancano però passaggi nelle pronunce annotate che lasciano un po’ perplessi.

In un primo caso quando si afferma che “il ricorrente non è riuscito a dimostrare la sussistenza di evidenti errori valutativi commessi dall’Amministrazione che portino a considerare del tutto inattendibili i giudizi da questa formulati”. Ebbene, il richiamo alla completa inattendibilità evoca in chi scrive l’anticipazione del principio di fiducia nell’amministrazione recentemente introdotto dal codice degli appalti pubblici del 2023. Questa regola, che stabilisce una sorta di presunzione di legittimità a favore dell’amministrazione, se da una parte rafforza quest’ultima, dall’altra indebolisce la tutela a favore del privato. A tal proposito merita evidenziare che, nell’art. 2 del codice appalti appena menzionato, si afferma quanto segue: “l’esercizio del potere” “si fonda sul principio della reciproca fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici”. Aggiungendosi subito appresso che tale fiducia “favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte (…)”. Risulta evidente che lo scopo principale della recente disciplina indicata è di rafforzare ancor più le decisioni amministrative anche nei confronti del successivo vaglio di legittimità.

Tornando al tema di interesse, per il tramite delle pronunce in commento, tale innovativo principio sembra essere valorizzato proprio quando il giudice afferma che per poter dichiarare illegittima la valutazione discrezionale in materia di beni culturali essa debba essere completamente inattendibile, così ponendo al centro della sua impostazione una fiducia che appare un po’ troppo incondizionata nell’amministrazione. 

Un secondo aspetto che non convince è quello legato alla seguente presa di posizione giurisdizionale: “le censure del ricorrente muovono da una lettura parcellizzata delle relazioni di accompagnamento ai provvedimenti impugnati, mentre le valutazioni vanno apprezzate nel loro insieme”.

Dunque, se non si è mal compreso, è necessario valutare la scelta amministrativa in ordine al pregio artistico di un bene nell’insieme, senza dunque parcellizzarla. Però, a parere di chi scrive, questa impostazione trova difficoltà a conciliarsi col sindacato del giudice amministrativo sull’eccesso di potere. Infatti, a livello operativo questo si fonda sulla separazione in diverse componenti della motivazione alla base del provvedimento che si intende impugnare, così facendo è più agevole per il ricorrente far risultare l’irragionevolezza o illogicità attraverso l’accoppiamento di ciascuna parte della motivazione alle figure sintomatiche dell’eccesso di potere, quali ad esempio: difetto di istruttoria, disparità di trattamento, ingiustizia manifesta, travisamento dei fatti. Tutte figure, queste, che rilevano anche nel caso di nostro interesse.

Se quanto osservato persuade, qualora si dovesse proporre un’azione considerando nell’insieme le relazioni di accompagnamento al provvedimento amministrativo, ben difficilmente la parte interessata riuscirebbe a far emergere efficacemente la propria posizione (e la connessa tutela) perché sarebbe sempre possibile la salvezza dell’atto adducendo che, anche in minima parte, la motivazione non risulta scorretta.

Quanto rilevato appare ancora più evidente in materia di beni culturali in cui, come anticipato, si rinviene già una forte (ed entro certi limiti opportuna) deferenza del giudice amministrativo sulle valutazioni della P.A.

3. Un altro passaggio contenuto nella pronuncia di primo grado – oggetto di commento – che appare rilevante per meglio comprendere lo scopo cui ambisce il presente scritto è quello secondo cui “il potere che l’Amministrazione esercita al fine di individuare i beni di interesse culturale è connotato da discrezionalità tecnica”, la quale “non richiede la ponderazione degli interessi coinvolti, neppure allo scopo di verificare il rispetto del principio di proporzionalità”[5].

Anche in questa presa di posizione vi è qualcosa che non convince. In particolare, ci si riferisce all’affermazione del giudice per cui il potere discrezionale dell’amministrazione esercitato in materia di beni culturali non comporta la necessità di valutare i contrapposti interessi coinvolti al fine di operare un bilanciamento fra gli stessi.

Se si prendesse alla lettera quanto indicato ciò significherebbe che l’interesse che fa capo al proprietario del bene non potrebbe mai essere valutato neanche in termini di applicazione del principio di proporzionalità. Così facendo però si arriverebbe a sacrificare eccessivamente, o meglio ad omettere interamente, una posizione giuridica che ha portata costituzionale come quella riconducibile al diritto di proprietà.

Ed in effetti, il fatto che il potere di cui si discute sia caratterizzato da discrezionalità tecnica non esclude che lo stesso debba rispettare la proporzionalità. Quest’ultima infatti opera non solo sulla scelta del mezzo più mite fra quelli nella disponibilità dell’amministrazione all’esito di un procedimento[6], ma anche a monte, ossia sulla completezza dell’istruttoria per giungere a quell’esito.

Qui sta il punto. Ed è proprio il fatto di non aver preso visione diretta del bene oggetto di tutela che comporta il configurarsi di un vizio di eccesso di potere sotto forma di sproporzione. Infatti, se non si è condotta un’istruttoria in maniera adeguata, come si fa a stabilire che quella assunta sia la misura più mite fra quelle possibili. Si pensi a quanto accaduto in un (pur risalente) caso deciso dal Tar Veneto in cui solo la “visione diretta” del bene “aveva portato a rilevare elementi originali non comparenti nella scheda di catalogo[7]”. Talché per l’amministrazione risulterà arduo dimostrare che quella prescelta è la soluzione più proporzionata.

A conferma di quanto osservato merita richiamare il D.M. n. 537/2017 che detta “Indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell’attestato di libera circolazione(…)”. In base a questo decreto, per stessa ammissione giurisprudenziale[8], i provvedimenti amministrativi nella materia che ci occupa “incidono anche sui diritti della proprietà privata” e, per questa via, subentrano “elementi di valutazione” giustificati proprio “in ragione della rilevanza degli interessi coinvolti”.

Da questa chiara indicazione normativa, come detto ripresa anche dalla giurisprudenza, emerge che l’esercizio della discrezionalità in questa materia non può essere limitato al solo interesse dell’amministrazione dei beni culturali che, per quanto rilevante, va contemperato con quello antagonista del privato proprietario del bene.

In maniera non dissimile, anche nella pronuncia di primo grado oggetto di commento si allude alla necessità di svolgere questa ponderazione dal momento in cui si rileva che la finalità dell’attestato di libera circolazione “è evidentemente quella di assicurare che l’accertamento riguardante la sussistenza dell’interesse culturale sia condotto in maniera rigorosa e che, quindi, la decisione venga assunta in maniera il più ponderata possibile, atteso che il diniego di rilascio del suddetto attestato costituisce provvedimento che incide fortemente sugli interessi del proprietario”.

Dunque, delle due l’una: o l’interesse del privato entra nel relativo bilanciamento e come tale deve essere valutato o l’interesse medesimo viene escluso. Soluzioni intermedie non sono possibili in questo ambito. A ragionare diversamente si disorienta colui o colei che legge[9].

Alla luce di quanto sostenuto dal giudice circa la necessità di effettuare una scelta che muova dalla visione diretta del bene fa da contraltare la ostinata posizione dell’amministrazione nel ritenere questa operazione una mera formalità rimessa alla sua discrezionalità.

L’ostinazione (cui si alludeva) è riscontrabile in un rapido passaggio contenuto nella pronuncia di appello oggetto del presente lavoro. Come rileva il giudice, l’amministrazione allega a sua difesa un unico motivo di ricorso fondato su un precedente giurisprudenziale. In esso, dapprima il Tar annulla un provvedimento di diniego dell’attestato di libera circolazione (anche) in base alla mancata presa visione dell’opera, dipoi, in sede d’appello, il Consiglio di Stato annulla la pronuncia del giudice di prime cure sulla base di una valutazione del tutto sganciata dal profilo legato alla necessità (o non) della visione diretta dell’opera.

Questo dato contribuisce a definire l’atteggiamento di ostinazione dell’amministrazione: un pò come se il suo giudizio fosse impermeabile a soggetti diversi da essa.

A questo punto risulterà evidente che ragioni sostanziali militano a favore della necessità di effettuare una visione diretta del bene da sottoporre ad un eventuale divieto di esportazione all’estero. Tale precisazione risulta tanto più significativa se si considera che il superiore livello normativo, ossia l’art. 68 del codice beni culturali del 2004 ed il più volte menzionato D.M. 537/2017, non prevedono espressamente un simile obbligo.

Né in questo senso appare risolutivo il richiamo operato dalle sentenze oggetto di annotazione ad una Circolare del 2019[10] che, interpretando i contenuti del menzionato art. 68, stabilisce quanto segue: “gli uffici sono sempre tenuti ad effettuare un’ispezione diretta dei beni per i quali è richiesto l’attestato”. Obbligo, questo, ricavato dal richiamo contenuto nella circolare citata ad un’antica previsione corrispondente all’art. 136, r.d. n. 363/1913.

Ma si può nutrire più di un dubbio in merito all’applicabilità di questa disposizione alla fattispecie che qui interessa. Infatti, dalla sua lettura emerge netta la sensazione che questa norma si riferisca non tanto al rilascio dell’attestazione necessaria per l’esportazione, quanto piuttosto a diverse esigenze correlate all’integrità del bene oggetto di circolazione, nonché alla prevenzione del contrabbando. Militano in questa direzione i seguenti elementi: “La verifica ai colli”; i funzionari dovranno “assicurarsi che le casse sieno solide e non abbiano doppio fondo, o doppi laterali, o  doppio coperchio, e che una tela dipinta non sia inchiodata su tela o tavola più pregevole per mascherarla o sottrarla alla verifica”. Infine, “Se l’ufficio di esportazione (…) scoprirà frodi  di questo o  d’altro  genere,  sequestrerà  la  cosa  dichiarandola  in contrabbando”.

Del resto, la norma richiamata è molto risalente nel tempo, appartenente ad un contesto giuridico molto diverso da quello attuale, per giunta riesumata da una semplice circolare. Per queste ragioni si è ancor più orientati a ricondurre l’obbligo di visione diretta dell’opera d’arte non ad un tenue ancoraggio normativo, come sembrerebbe alludere la giurisprudenza, bensì a più solide ragioni sostanziali già in precedenza evidenziate.

4. Le pronunce oggetto di commento evidenziano la necessità di un maggiore approfondimento in merito ai parametri che il superiore livello normativo dovrebbe offrire al giudice per effettuare il controllo sulla discrezionalità tecnica[11]. In assenza di ciò risulta molto difficile valutare la correttezza della scelta amministrativa che, a quel punto, potrebbe risultare arbitraria. Né a questa stregua è possibile immaginare come risolutivo il riconoscimento di una sorta di fiducia (premessa e incondizionata) nella scelta dell’amministrazione.  

A parte quanto già riferito nel corso della trattazione, un caso emblematico, sempre contenuto nelle sentenze esaminate, è quello della rarità dell’opera[12]. In tal senso basti pensare che, in risposta al motivo di ricorso in cui si sosteneva che l’opera non fosse affatto rara poiché altre del medesimo autore sarebbero presenti nel territorio italiano[13], il giudice replica nel modo seguente: “La censura è di dubbia ammissibilità atteso che la pretesa illegittimità del giudizio dell’amministrazione viene affermata sulla sola base di un diverso soggettivo apprezzamento della rarità della categoria cui appartiene l’opera”[14].

Proprio questo è il problema sostanziale della valutazione amministrativa in materia, la cui soluzione dovrebbe passare necessariamente per l’individuazione di un criterio logico utile a sostanziare l’altrimenti indefinito concetto di “rarità”.

Se non si dovesse raggiungere questo risultato, magari attraverso i c.d. autolimiti amministrativi (come linee giuda, circolari, norme di vario genere e grado), il rischio che si corre è di lasciare l’amministrazione troppo libera, determinandosi per giunta sulla medesima vicenda grandi differenziazioni fra un territorio ed un altro[15]. Tutto ciò condurrebbe ad una chiara violazione del principio di uguaglianza poiché il privato, a parità di presupposto, potrebbe ricevere dall’amministrazione una decisione positiva o negativa a seconda del contesto territoriale in cui è collocato. 

La necessità della presa visione del bene che si intende tutelare è intimamente collegata al dovere di svolgere un’istruttoria procedimentale completa, che orienta qualsiasi attività amministrativa. Non solo.

A tale dovere si collega anche l’applicazione del principio di proporzionalità che irradia oramai il nostro ordinamento. Applicando queste due coordinate sostanziali ed operative l’accertamento riguardante la sussistenza dell’interesse culturale e, conseguentemente, quello alla libera circolazione del bene oltre i confini nazionali, potrà dirsi rigoroso e ponderato entro i limiti di una cornice giuridica che qui si è tentato di delineare.

Cons. Stato, Sez. VI, 24 aprile 2023, n. 4151; Ministero cultura (Avv. Gen.); Pa.Ac. (Avv.ti D’Herin, Virgilio).

Il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità: carattere dal quale deriva che “l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile”.

Provvedimento: Omissis. FATTO e DIRITTO

Con ricorso iscritto al n. n. 2726/2019 R.R. l’odierno appellato impugnava innanzi al Tar Lombardia il provvedimento del 18 novembre 2019 con il quale la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città metropolitana di Milano-Ufficio esportazione, gli negava il rilascio dell’attestato di libera circolazione riferito al “dipinto di Carol Rama, pseudonimo di Olga Carolina Rama (Torino, 17 aprile 1918 – Torino, 24 settembre 2015), intitolato Opera n. 54, firmato e datato a matita al centro in prossimità del argine destro “carol rama/1941″ (acquerello su carta; cm 48 x 33)” contenente l’avvio del procedimento di dichiarazione d’interesse culturale particolarmente importante dell’opera.

Con successivi motivi aggiunti, impugnava il decreto del Direttore generale della Direzione Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo del 3 agosto 2020 con il quale l’opera veniva dichiarata di interesse artistico, storico e storico relazionale particolarmente importante ai sensi degli artt. 10, comma 3, lettere a) e d) e 13 del D. Lgs. n. 42/2004 (di seguito Codice).

Il Tar, con ordinanza n. 806/2021, declinava la propria competenza territoriale in favore del Tar Lazio.

All’esito del regolamento di competenza sollevato dal Tar Lazio, il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 6690/2021, riconosceva la competenza del Tar Lombardia, innanzi al quale il ricorso veniva ritualmente riassunto.

Il Tar Lombardia, disattesa l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità dei motivi aggiunti e conseguente improcedibilità del ricorso introduttivo, ed illustrato il contesto normativo di riferimento, con sentenza n. 1517 del 28 giugno 2022, accoglieva il gravame ritenendo il fondamento delle censure oggetto del terzo motivo del ricorso introduttivo e dell’ottavo motivo del ricorso per motivi aggiunti sul rilievo che “le relazioni di accompagnamento ai provvedimenti impugnati sono state redatte da funzionari che non hanno preso diretta visione del dipinto”: circostanza non contestata dall’amministrazione e ritenuta comprovare il dedotto difetto di istruttoria.

Il Tar procedeva, tuttavia, al dichiarato fine di indirizzare il successivo “riesercizio del potere”, procedeva allo scrutino di ulteriori censure formulate nel primo e secondo motivo del ricorso introduttivo e nel secondo, quinto, sesto e settimo motivo del ricorso per motivi aggiunti, ritenendole infondate.

Il Ministero della Cultura impugnava la sentenza di primo grado con atto depositato il 19 settembre 2022 deducendo con un unico motivo di appello la “violazione dell’art. 68 D.Lgs. 42/2004” ritenendo errata, e già smentita da questo Consiglio di Stato, la tesi per la quale sarebbe necessario, ai fini in esame, la “visione diretta del bene da parte degli organi centrali”.

Con atto depositato il 27 settembre 2022, l’appellato proponeva ricorso incidentale rilevando quattro profili di “omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia” e due profili di “erronea e insufficiente motivazione del giudice di prime cure su un punto decisivo della controversia” e, con memoria depositata il 6 ottobre 2022, confutava le censure oggetto dell’appello principale chiedendone il rigetto.

Con memoria depositata il 10 ottobre 2022, il Ministero replicava alle doglianze oggetto del ricorso incidentale deducendone l’inammissibilità, prima ancora che l’infondatezza in quanto dirette a sovrapporre soggettive valutazioni al giudizio tecnico discrezionale dell’amministrazione.

Alla camera di consiglio del 13 ottobre 2022, su concorde richiesta delle parti, veniva fissata l’udienza di discussione.

Con memoria del 10 febbraio 2023 la parte appellata rassegnava le proprie conclusioni in vista della discussione di merito.

All’esito della pubblica udienza del 16 marzo 2022, la causa veniva decisa.

L’amministrazione, come anticipato, deduce con un unico motivo di ricorso la violazione dell’art. 68 del Codice sostenendo che il Tar avrebbe erroneamente interpretato la norma che, si sostiene, non prescriverebbe ai presenti fini la visione diretta dell’opera.

A sostegno della censura allega che il precedente cui il Tar si uniformava (Tar Lazio, sentenza n. 14027/2020) veniva riformato da questo Consiglio di Stato con decisione n. 4194/2022 affermando il principio per il quale “rientra infatti nelle prerogative della Direzione generale del Ministero, competente a decidere sull’apposizione del vincolo, di compiere gli approfondimenti istruttori ritenuti necessari, sempre che la motivazione adottata risulti adeguata”.

L’appello è infondato.

Preliminarmente si rileva che la sentenza costituente il precedente richiamato dal Tar veniva riformata ma, come riconosciuto dalla stessa amministrazione, senza affrontare la specifica questione (pag. 4 dell’appello).

Nell’occasione, infatti, la Sezione accoglieva l’appello proposto dal Ministero della Cultura sul rilievo che “non ridondi in vizio istruttorio la rilevata difformità tra la relazione storico-artistica allegata, predisposta dalla Direzione Generale del Ministero … e la relazione posta a corredo della proposta di acquisto coattivo, effettuata dall’Ufficio Esportazione di Genova” e a tali conclusioni si riferiva la sopra riportata statuizione.

Ciò premesso, ai sensi dell’art. 68, comma 4, del Codice “nella valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell’attestato di libera circolazione gli uffici di esportazione accertano se le cose presentate, in relazione alla loro natura o al contesto storico-culturale di cui fanno parte, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, a termini dell’articolo 10. Nel compiere tale valutazione gli uffici di esportazione si attengono a indirizzi di carattere generale stabiliti con decreto del Ministro, sentito il competente organo consultivo”.

Il D.M. n. 537/2017, dettando “Indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell’attestato di libera circolazione da parte degli uffici esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, ai senza dell’art. 68, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004”, evidenziato che le determinazioni in questione “incidono anche sui diritti della proprietà privata come riconiati e garantiti dalla Costituzione”, indica gli elementi di valutazione rilevanti ai fini in esame evidenziando la necessità che l’istruttoria, in ragione della rilevanza degli interessi coinvolti, sia approfondita ed esaustiva e la relazione finale sulla base della quale verrà adottato il provvedimento, si sviluppi “con motivazioni puntuali, riferimenti bibliografici aggiornati, se disponibili e attraverso l’associazione di più di un principio di rilevanza tra quelli riformulati nei nuovi indirizzi”.

Ai sensi della circolare ministeriale del 24 maggio 2019, “gli Uffici di esportazione sono sempre tenuti all’ispezione diretta dei beni che andrà eseguita con la diligenza e le modalità prescritte dall’art. 136 del R.D. n. 363/1913”, a norma del quale “la verifica ai colli, fatta dai tre funzionari a ciò addetti, deve, sotto la loro personale responsabilità, essere minuta e diligente”.

Le descritte indicazioni, il cui rigore è coerente con la già evidenziata rilevanza degli interessi incisi, venivano disattese nel caso di specie, non essendo contestato che alcun esame diretto sia stato effettuato dall’amministrazione.

Ne consegue che deve condividersi il giudizio del Tar circa il fondamento del dedotto difetto di istruttoria con necessità di procedere al rinnovo dell’istruttoria con modalità coerenti con le illustrate disposizioni.

Per quanto precede l’appello principale deve essere respinto.

Quanto all’appello incidentale, con il primo motivo il Signor Ac. deduce “Omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia. In particolare, il primo dei motivi aggiunti e lo scambio delle opere: eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione, travisamento dei fatti, manifesta erroneità; violazione dell’art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241; violazione degli artt. 10 e 13, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42”.

Espone a tal proposito che la Relazione storico artistica sulla base della quale veniva adottato il decreto di vincolo afferma erroneamente che “l’acquerello riveste anche un notevole interesse di natura storico-relazionale e testimoniale appartenendo alla famiglia Ac. di Torino, alla quale è pervenuto per legato ereditario disposto dalla stessa autrice, quale pegno e ricordo dell’amicizia di una vita, e del legame che si instaurò in particolare fra la madre dell’odierno proprietario e l’artista e che durò a partire dagli anni Sessanta del XX secolo fino alla scomparsa della Rama avvenuta nel 2015”.

Contrariamente a quanto affermato l’opera (Opera n. 54, 1941) non perveniva alla propria famiglia a titolo di legato mentre a tale titolo perveniva una diversa opera “(raffigurante una fanciulla), 1940 (matita su carta, 24 x 16,7 cm.)”

L’opera oggetto di giudizio (Opera n. 54, 1941), invece, fu acquisita dalla famiglia.

L’amministrazione, pertanto, avrebbe “scambiato un’opera per un’altra” incorrendo in un evidente travisamento dei fatti frutto di una carente istruttoria.

La censura è irrilevante prima ancora che infondata.

Le modalità con le quali l’opera perveniva al ricorrente, ancorché erroneamente indicate, non integrano di per sé alcun profilo di illegittimità del giudizio non assurgendo il titolo di acquisto dell’opera a unico elemento qualificante il valore storico artistico dell’acquerello.

Né può considerarsi comprovato che il giudizio censurato sia riferito alla diversa opera pervenuta per legato.

Con il secondo motivo l’appellato deduce “Erronea e insufficiente motivazione del giudice di prime cure su un punto decisivo della controversia. In particolare, il primo motivo del ricorso originario e il secondo dei motivi aggiunti, con riferimento all’elenco bibliografico: eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione, manifesta erroneità; violazione dell’art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241; violazione degli artt. 10 e 13, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42”.

Il signor Ac. censura la sentenza nella parte in cui afferma che “lo stesso ricorrente, citando il proprio consulente, riconosce che, in otto dei dodici volumi indicati dall’Amministrazione, compare l’immagine dell’opera in questione e che uno dei volumi indicati contiene una didascalia della medesima opera”, pervenendo alla conclusione che non corrisponde al vero che “le indicazioni bibliografiche cui fanno riferimento le relazioni allegate ai provvedimenti impugnati ignorano completamente il dipinto di cui è causa, potendosi tutt’al più disquisire in ordine alla rilevanza dei riferimenti in essi contenuti” indicando quest’ultimo profilo come attinente “ad una valutazione di merito che (….) non può essere sindacata dal giudice amministrativo”.

L’affermazione del Tar sarebbe erronea poiché, come documentato in giudizio, le dodici voci citate dall’Amministrazione nel suo elenco bibliografico sono riferite a importanti cataloghi di mostre, di cui però:

a. “otto voci riguardano cataloghi in cui compare l’immagine dell’opera in questione, in b/n o a colori (Opera n. 54, 1941), ma in nessuno di questi cataloghi, o meglio in nessuno dei vari e talvolta corposi scritti contenuti in questi otto cataloghi, l’opera stessa viene espressamente citata, né le viene mai dedicata una menzione o una frase specifica, come invece accade per altre opere dello stesso periodo e della stessa tipologia”;

b. “altre tre voci citate (precisamente, la terza, la settima, l’undicesima) riguardano cataloghi per i quali chi ha redatto l’elenco bibliografico non indica alcuna citazione o immagine dell’opera in questione (pur avendo forse conoscenza che l’opera è stata esposta nelle relative mostre); a questo proposito (…) in tali cataloghi non esistono citazioni o immagini dell’opera”;

c. “nella quinta voce citata compare solamente la didascalia dell’opera all’interno dell’elenco delle opere esposte”.

Quanto esposto paleserebbe l’errore in cui sarebbe incorso nel Tar nel ritenere gli fosse precluso “disquisire in ordine alla rilevanza dei riferimenti” atteso che il dato di rilievo ai fini in esame, e non considerato, è rappresentato dal fatto che nei richiamati cataloghi “dell’opera non si parla mai”: ciò a comprova che si tratterebbe di “un’opera bella, ma sicuramente minore nell’amplissima produzione settantennale di Carol Rama”.

La censura, di dubbia ammissibilità nella misura in cui censura il merito tecnico del giudizio impugnato, è infondata.

In premessa deve richiamarsi il carattere ampiamente discrezionale delle valutazioni dell’Autorità preposta alla tutela già affermato dalla Sezione, con posizione consolidata, precisando che “il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità”: carattere dal quale deriva che “l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile” (Cons. Stato, Sez. VI, 4 settembre 2020, n. 5357).

In coerenza con i richiamati principi, il merito della valutazione espressa può essere sindacato in sede giurisdizionale unicamente in presenza di evidenti profili di incongruità suscettibili, ancorché in via sintomatica, di palesare un distorto esercizio del potere attribuito.

Tali profili, della cui allegazione è onerata la proprietà dell’opera, non si palesano nel caso di specie ove si censura l’operato dell’amministrazione affidandosi a generiche valutazioni soggettive proposte come alternative al giudizio espresso.

Sul punto deve rilevarsi che lo stesso ricorrente afferma che “le dodici voci citate dall’Amministrazione nel suo elenco bibliografico sono importanti cataloghi di mostre”.

Tale dato oggettivo, che comprova l’esposizione dell’opera in importanti mostre, contraddice l’affermata scarsa rilevanza della stessa a nulla rilevando la mancanza di specifiche citazioni nelle parti descrittive dei cataloghi che, di per sé, non offre sicuri argomenti a sostegno dell’irrilevanza sotto il profilo storico e artistico dell’acquerello.

Si verte, pertanto, come correttamente rilevato dal Tar, in tema di apprezzamenti discrezionali, certamente opinabili ma privi di quelle già illustrate evidenze che consentono al giudice di sindacarli.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce “Omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia. In particolare, il secondo motivo del ricorso originario e il quarto dei motivi aggiunti, con riferimento alle cosiddette serie di acquarelli: eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione, contraddittorietà, inconferenza, erroneità; violazione dell’art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241; violazione degli artt. 10 e 13, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42”.

Espone il ricorrente:

che l’amministrazione avrebbe condotto il procedimento in modo ondivago considerando l’opera dapprima, in sede di preavviso, come una Dorina riconoscendo l’errore solo a seguito delle controdeduzioni precisando, tuttavia, che la circostanza che non si tratti di una Dorina sarebbe irrilevante.

che in sede di adozione del decreto di vincolo, l’amministrazione, a sostegno della rilevanza storico-artistica dell’opera, affermava che gli acquerelli realizzati da Carol Rama “fra il 1936 e il 1945” e intitolati Dorina, Appassionata e Opera costituirebbero altrettante “serie” o altrettanti “gruppi” di opere mentre sarebbe stato dimostrato in giudizio che “l’unica classificazione di storia dell’arte unanimemente considerata è quella degli acquerelli di epoca giovanile e né le cd. Dorine, né le cd. Appassionate, né le cd. Opere costituirebbero altrettante serie, cioè gruppi di opere contraddistinte da una comune specificità” in quanto “trattasi semplicemente di titoli ripetuti per più opere” mentre “il termine serie può essere attribuito solo a tutta quella produzione che l’artista stessa definisce come “acquerelli””.

Il motivo, a tacere della scarsa chiarezza del profilo di illegittimità lamentato, è infondato.

L’appellante incentra le proprie doglianze su un preteso errore commesso dall’amministrazione circa la classificazione dell’opera senza, tuttavia, chiarire come tale preteso errore inficerebbe il giudizio espresso, posto che dalle narrative del ricorso non si rinvengono le ragioni per le quali l’appartenenza ad una specifica serie, determinerebbe un maggiore o minore pregio dell’opera.

A conferma della perplessità della censura basti rilevare che lo stesso appellante incidentale afferma (pag. 9 dell’appello incidentale) che “l’unica classificazione di storia dell’arte unariamente considerata è quella degli acquerelli” senza ulteriori classificazioni all’interno della stessa.

In ogni caso la questione definitoria affrontata è priva di rilievo ai fini dello scrutinio di legittimità del giudizio di valore artistico espresso dall’amministrazione.

Con il quarto motivo l’appellante incidentale deduce “Omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia. In particolare, il terzo dei motivi aggiunti e la mostra del 1945: eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione, manifesta erroneità; violazione dell’art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241; violazione degli artt. 10 e 13, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42”.

Riproponendo la censura in questa sede, contesta la Relazione storico artistica dell’amministrazione nella parte in cui si sostiene che l’opera in questione sia una delle più note di una delle tre serie di acquerelli che Carol Rama realizzava tra il 1936 e il 1945 e che “oltre alle Dorine e ad Appassionata, l’artista torinese si dedica anche alla composizione del gruppo le Opere, in cui propone i temi della sessualità, della mancanza e dell’alienazione, con un repertorio di immagini simbolo ricorrenti e significanti” affermando, altresì, che “nel 1945 molti di questi acquerelli vennero esposti alla Galleria Faber di Torino e subito censurati “per oscenità””.

L’articolato motivazionale richiamato sarebbe erroneo, e frutto di una “conoscenza approssimativa della vita e delle opere di Carol Rama” poiché:

– risulta che “l’artista predispose nel 1945 una esposizione non alla Galleria Faber ma all’Opera Pia Cucina Malati Poveri, mostra di cui si sa soltanto che venne aperta e subito chiusa perché le immagini che presentava offendevano il senso comune del pudore”;

– “tra le sparute testimonianze relative a quell’episodio, è un articolo di Luigi Carluccio apparso sulla “Gazzetta del Popolo” del 25 aprile 1979″;

– “non esiste alcun elenco o precisazione delle opere esposte; si può solamente supporre che si trattasse anche di alcuni acquerelli di soggetto a sfondo sessuale”.

Sulla base dei suesposti rilievi, l’appellante incidentale afferma che “l’Amministrazione non solo sbaglia nell’individuazione del luogo della mostra del 1945, ma lascia anche intendere che l’acquerello in esame fosse fra quelli esposti in quella occasione e dunque fosse da considerarsi rilevante già nella produzione all’epoca di Carol Rama, quando invece una seria ricerca documentale storiografica (possibile e fatta dal ricorrente avrebbe dovuto condurre l’Amministrazione a una diversa conclusione”.

La censura è irrilevante non essendo, anche in questo caso, specificate le ragioni per le quali un eventuale errore nella collocazione dell’opera in una determinata mostra si porrebbe in contraddizione con il giudizio oggetto di contestazione.

Con il quinto motivo viene dedotta la “Erronea e insufficiente motivazione del giudice di prime cure su un punto decisivo della controversia. In particolare, il primo motivo del ricorso originario e il sesto dei motivi aggiunti, con riferimento alla rarità e alla permanenza in Italia dell’opera: eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione, erroneità e contraddittorietà; violazione dell’art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241; violazione degli artt. 10 e 13, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42”.

La sentenza del Tar viene censurata nella parte in cui afferma che “con riguardo alla valutazione concernente il criterio della “rarità di opere simili in raccolte pubbliche” (….) l’interesse culturale della Nazione può essere adeguatamente tutelato solo se i beni ritenuti espressivi di tale interesse non vengano definitivamente allontanati dal territorio italiano” traendone la conclusione che “le argomentazioni del ricorrente (Ac.) secondo cui dovrebbe darsi rilievo al fatto che un’opera dell’Artista è conservata presso il Museum of Modern Art. di New York e che la destinazione finale del dipinto di cui è causa dovrebbe essere il San Francisco Museum of Modern Art” e che “la presenza di sole sedici opere in raccolte italiane non dimostra l’assoluta inattendibilità del giudizio di rarità espresso dall’Amministrazione, soprattutto se si considera la vastità della produzione dell’Artista”.

A sostegno dell’erroneità della decisione di primo grado allega che:

– n. 3 acquerelli di Carol Rama sono conservati alla GAM-Galleria civica di Arte Moderna e Contemporanea di Torino;

– n. 2 alla collezione La Gaia di Busca;

– n. 1 al MOMA di New York;

– n. 16 sarebbero le opere di Carol Rama presenti in collezioni pubbliche italiane o in collezioni private notificate:

– i 5 acquerelli presenti in collezioni italiane “ne costituiscono quindi poco meno di un terzo”;

– nella complessiva produzione dell’autore, indicata in 2.935 opere “gli acquerelli incidono per una percentuale bassa perché in tutto essi sono n. 69”.

L’amministrazione e il Tar, quindi, non si sarebbero avveduti che “gli stessi acquerelli sono una tipologia di opera: (a) nient’affatto rara di per sé, (b) anche ben rappresentata in collezioni “domestiche””.

La censura è di dubbia ammissibilità atteso che la pretesa illegittimità del giudizio dell’amministrazione viene affermata sulla sola base di un diverso soggettivo apprezzamento della rarità della categoria cui appartiene l’opera.

In ogni caso, avuto riguardo ai suesposti limiti alla contestazione delle scelte discrezionali proprie dell’amministrazione nella presente materia, non può che rilevarsi che non si rileva, nelle valutazioni censurate, alcun profilo di evidente illogicità posto che è lo stesso appellante incidentale a evidenziare la ridotta incidenza numerica degli acquerelli nella complessiva produzione artistica dell’autore indicando, altresì, un numero esiguo di opere presenti in collezioni italiane.

Con il medesimo capo d’impugnazione è dedotto che il Tar non si sarebbe avveduto che il carattere della “particolare rarità” non sarebbe requisito previsto dagli artt. 10 e 13 del D. lgs. n. 42/2004 ai fini della dichiarazione di interesse storico-artistico particolarmente importante, né il giudice avrebbe colto “il senso dei motivi in esame” atteso che “la pretesa migliore valorizzazione in Italia” dell’opera non potrebbe giustificare il diniego dell’attestato di circolazione né il vincolo apposto all’opera anche in ragione del fatto che è di proprietà privata e non è destinata alla pubblica fruizione.

Non sarebbe stata ulteriormente considerata adeguatamente la allegata “valorizzazione dell’artista italiana” a seguito della cessione dell’opera in questione al San Francisco Museum of Modern Art.

Complessivamente sarebbe, quindi, mancato un congruo bilanciamento fra le esigenze di tutela del patrimonio culturale italiano (art. 9, Cost.) e il diritto di proprietà sull’opera d’arte (art. 42, Cost.).

Il motivo è infondato.

Premesso che l’interesse di un polo museale di rilievo internazionale contraddice di per sé la pretesa modesta rilevanza dell’opera, il requisito della rarità, sebbene non espressamene contemplato dalle citate norme è previsto quale elemento di valutazione dai già richiamati “Indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell’attestato di libera circolazione” di cui al D.M. n. 537/2017 (elemento n. 2).

Con riferimento alle considerazioni relative alla “valorizzazione dell’artista italiana” ci si riporta a quanto già esposto circa l’inammissibilità di censure fondate su valutazioni soggettive proposte quali alternative al giudizio dell’amministrazione.

Per le medesime ragioni deve disattendersi anche il sesto e ultimo motivo con il quale viene dedotta la “Erronea e insufficiente motivazione del giudice di prime cure su un punto decisivo della controversia. In particolare, il settimo dei motivi aggiunti e la cd. precocità: eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione, erroneità, palese illogicità; violazione dell’art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241; violazione degli artt. 10 e 13, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42” censurando la sentenza nella parte in cui condivide la valutazione dell’amministrazione circa il rilievo conferito alla giovane età dell’artista ai fini della dimostrazione della rarità dell’opera nonostante la precocità, indicata in ricorso come carattere “concetto opinabile perché troppo vago”, sia irrilevante ai sensi degli artt. 10 e 13 del D. Lgs. n. 42/2004: censura formulata unicamente mediante proposizione dei una alternativa valutazione soggettiva del profilo.

Per quanto precede, l’appello incidentale deve essere respinto.

La reciproca soccombenza comporta la compensazione delle spese del presente grado di giudizio fra le parti.

Omissis.


[1] In particolare, TAR Lombardia, Milano, 28 giugno 2022, n. 1517 e Cons. Stato, Sez. VI, 24 aprile 2023, n. 4151.

[2] Sul tema generale vedi: G. Avanzini, La circolazione intracomunitaria dei beni culturali privati tra tutela del patrimonio nazionale e identità culturale europea, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2018, pag. 689 ss; A. P. Valentini, Il controllo giurisdizionale sull’esportazione di opere d’arte, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, pag. 489; infine, S. Villamena, La qualità artistica di un’opera nella disciplina dei beni culturali ed il rischio paventato dalla giurisprudenza recente di “vincolare tutto per non tutelare nulla”, in questa Rivista, n. 1/2022.

[3] TAR Liguria, Genova, 3 febbraio 2022, n. 89.

[4] Nondimeno, può talvolta accadere (vedi Cons. Stato, Sez. VI, 14 ottobre 2020, n. 6215) che il giudice si orienti a favore del privato dichiarando illegittima una valutazione amministrativa sul tema che interessa in quanto sfornita dei necessari presupposti motivazionali. 

[5] Invero, con riferimento alla parte sopra indicata, il giudice precisa che “L’attività di comparazione degli interessi deve tutt’al più essere svolta nella fase successiva, quando cioè, una volta individuato il bene, vengono stabilite le concrete misure di tutela e conservazione”. Pertanto, il riconoscimento delle relative garanzie legate alla comparazione degli interessi viene ipotizzato solo in fase successiva alla individuazione del bene (e/o del vincolo), ossia sulla proporzionalità della misura, non sulla scelta di vincolarlo (o non).

[6] Su cui vedi, in generale: S. Cognetti, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2010.

[7] TAR Veneto, Venezia, n. 20/2008

[8] Segnatamente in quella d’appello oggetto della presente nota.

[9] Ciò accade ad esempio allorché si afferma che gli interessi del privato: “neppure devono essere bilanciati con quello pubblico dovendo l’Amministrazione assumere l’atto di tutela in base alla sola effettiva sussistenza dei requisiti che rendono il bene culturalmente interessante”.

[10] Circolare MIBAC n. 13 del 24 maggio 2019, pag. 22.

[11] Come è noto questo profilo risulta essere al centro della maggior parte delle trattazioni in tema di beni culturali e non manca certo attenzione anche relativamente all’aspetto più specifico dell’attestato di circolazione oggetto di queste note. A questo riguardo, senza pretesa di esaustività, si veda da ultimo: A. P. Valentini, Il controllo giurisdizionale sull’esportazione di opere d’arte, op. cit., pag. 489 e ss. e L. Casini, La disciplina dei beni culturali dopo il d.lgs. n. 62/2008: «Erra l’uomo finché cerca”, in Giorn. dir. amm., 2008, p. 1065 e ss.

[12] Su cui vedi: A. P. Valentini, Il controllo giurisdizionale sull’esportazione di opere d’arte, op. cit.

[13]  In particolare, n. 3 acquerelli di Carol Rama sono conservati alla GAM-Galleria civica di Arte Moderna e Contemporanea di Torino; n. 2 alla collezione La Gaia di Busca; n. 1 al MOMA di New York; n. 16 sarebbero le opere di Carol Rama presenti in collezioni pubbliche italiane o in collezioni private notificate: i 5 acquerelli presenti in collezioni italiane “ne costituiscono quindi poco meno di un terzo”.

[14] A quanto indicato nel testo, lo stesso giudice aggiunge che “In ogni caso, avuto riguardo ai suesposti limiti alla contestazione delle scelte discrezionali proprie dell’amministrazione nella presente materia, non può che rilevarsi che non si rileva, nelle valutazioni censurate, alcun profilo di evidente illogicità posto che è lo stesso appellante incidentale a evidenziare la ridotta incidenza numerica degli acquerelli nella complessiva produzione artistica dell’autore indicando, altresì, un numero esiguo di opere presenti in collezioni italiane”.

[15] Sul profilo indicato vedi anche: M. Tuccillo, La circolazione dei beni culturali: quadro normativo e criticità del sistema italiano, in Dir. com. scamb. internaz., 2020, p. 774, che riferisce di come la regionalizzazione degli Uffici di esportazione potrebbe comportare una disparità di trattamento sulla stessa materia oggetto di queste note.

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