Alice Sisinno
Dottoressa in Giurisprudenza, Avvocata
Sommario: 1. I Bronzi del Benin: origini e importanza; 2. Il segreto della Grandezza dell’Inghilterra; 3. Il discorso di Macron: una svolta simbolica; 4. Le prospettive filosofiche ed etiche: universalismo vs. diritto all’identità; 5. I primi ritorni e la diplomazia culturale 6. Oltre il conflitto: la via dell’equilibrio.
- I Bronzi del Benin: origini e importanza
I cosiddetti Bronzi del Benin costituiscono una vasta collezione di placche e sculture finemente lavorate, realizzate principalmente in ottone e bronzo nel XVI secolo dal popolo Edo del Regno del Benin, situato nell’Africa occidentale (nell’attuale Nigeria).[1] Queste opere, prodotte dalla corporazione artigiana Igun Eronmwon di Benin City[2], non erano semplicemente oggetti decorativi, ma svolgevano un ruolo cruciale nel sistema sociale, politico e religioso della monarchia Edo. Commissionati per affermare e glorificare il potere dell’Oba, sovrano del Benin, i bronzi[3] erano parte integrante dei rituali di corte, in particolare durante le cerimonie di ascesa al trono e di venerazione degli antenati reali.
Pertanto, questi manufatti sono profondamente intrecciati con l’identità storica e spirituale del popolo Edo e ne riflettono le credenze religiose, le tradizioni artistiche e l’organizzazione politica.
Nel dibattito contemporaneo, i Bronzi del Benin sono divenuti un punto nevralgico delle discussioni sull’etica delle collezioni museali, sull’eredità del colonialismo e sulle questioni più ampie della restituzione e della giustizia storica. La loro permanenza in istituzioni occidentali solleva interrogativi giuridici, morali e politici complessi, stimolando riflessioni sempre più frequenti sulla responsabilità degli ex poteri coloniali a dover risarcire le ingiustizie storiche, circa la giustizia riparativa.
- Il segreto della grandezza dell’Inghilterra
Thomas Jones Barker, “The Secret of England’s Greatness” (La Regina Vittoria dona una Bibbia nella Sala delle Udienze di Windsor), olio su tela, 1862-1863.
Per poter comprendere la complessa tematica della restituzione dei beni saccheggiati durante l’epoca coloniale risulta essenziale analizzare la teoria propagandistica inglese e l’importanza che tali beni hanno rivestito, di conseguenza, nell’ideologia nazionale. L’idea della grandezza inglese ha rappresentato a lungo un pilastro dell’orgoglio nazionale e della propaganda imperiale, soprattutto durante l’età vittoriana. L’opera pittorica di Thomas Jones Barker, The Secret of England’s Greatness, ne costituisce una rappresentazione emblematica. La tela raffigura, infatti, un anonimo principe africano inginocchiato di fronte alla regina Vittoria, che gli porge una Bibbia: simbolo della presunta superiorità morale e culturale dell’Impero britannico. Questo dipinto incarna le tematiche centrali della discussione sul colonialismo inglese, in quanto mostra i tabù della razza, genere e religione, improntati in maniera propagandistica e manipolatoria.
Che la religione sia sempre stata strumentalizzata per legittimare l’ideologia e il potere sovrano è fatto notorio. Nella tela in esame, l’immagine è ricca di simbolismi religiosi: la Bibbia, posta tra i due personaggi, funge da ponte ma anche da barriera, sia materiale quanto ideologica, tra il colonizzatore e il colonizzato. L’assenza di contatto fisico fra la regina e il principe accentua il contrasto tra femminilità bianca e mascolinità nera. La figura della sovrana viene rappresentata in chiave materna, riducendo la tensione potenzialmente insita nell’incontro fra due adulti di sesso opposto. La relazione simbolica proposta è infatti quella tra madre e figlio: la regina, incarnazione della patria, educa il suddito coloniale attraverso la religione. Il messaggio viene trasmesso forte e chiaro: l’Impero britannico è un’autorità genitoriale che guida i popoli “infantili” e “selvaggi” dell’Africa verso la civiltà.
Questa raffigurazione riflette l’ambivalenza dell’ideologia coloniale: da un lato, si afferma la missione civilizzatrice; dall’altro, si mascherano i rapporti di forza e le disuguaglianze raziali e strutturali attraverso un linguaggio apparentemente benigno e moraleggiante. La religione, in questo contesto, diventa un potente strumento di controllo e assimilazione culturale, con effetti duraturi sulla percezione identitaria dei popoli colonizzati.
Inoltre, la figura femminile della regina si confronta con un’altra contraddizione dell’ideologia imperiale: nella tradizione politica britannica, l’autorità regale è storicamente connotata al maschile. Sovrane come Elisabetta I adottarono infatti simboli virili del potere per legittimare il proprio ruolo. Vittoria, invece, fu la prima regina ad avere un erede superstite durante il regno; ciò richiese una riformulazione della sua immagine pubblica: non più una virago solitaria, o una stratega bellica, bensì la madre della nazione. Nel dipinto, la sovrana assume quindi un valore allegorico: non è solo una donna, ma l’incarnazione stessa dell’Inghilterra, rappresentata come madre universale. Il gesto del dono della Bibbia simboleggia un impero che impone, sotto le spoglie dell’amore materno e della salvezza spirituale, una visione del mondo eurocentrica e gerarchica.
Il dipinto di Barker, nel suo apparente candore religioso, anticipa e giustifica quindi le forme più insidiose di imperialismo culturale: non l’annientamento fisico, ma l’assimilazione forzata e la cancellazione simbolica delle radici spirituali. La religione cristiana, veicolo dell’“incivilimento”, diventa così anche uno strumento di egemonia ideologica e di erosione dell’identità culturale altrui.[4]
Il potere simbolico della religione si riflette anche nella storia dei rapporti fra europei e il Regno del Benin, oggetto della presente disamina. Già i portoghesi avevano tentato, senza successo, di convertire gli Edo al cristianesimo.[5] Quando i britannici stabilirono contatti più intensi nel XIX secolo, la loro percezione degli Edo era già filtrata da stereotipi coloniali: li descrivevano come barbari, riportando descrizioni, inter alia, di una “città dei teschi” per giustificare l’intervento militare e l’imposizione di un ordine “civilizzato”.[6]
Il Regno del Benin fu uno dei tanti stati africani coinvolti nell’espansione coloniale europea dopo la Conferenza di Berlino del 1884-1885. Ben prima di quell’epoca, tuttavia, il regno aveva stabilito rapporti diplomatici e commerciali consolidati con l’Inghilterra. Il primo contatto ufficiale tra le due nazioni risale al 12 agosto 1553, quando una flotta inglese salpò da Portsmouth per commerciare pepe sulla costa occidentale africana. Gli scambi iniziarono in modo pacifico, favoriti anche dalla conoscenza del portoghese da parte dell’Oba, ereditata da suo padre Oba Esigie, educato da missionari lusitani.
Questo rapporto durò secoli e contribuì alla prosperità economica e culturale del regno. Durante il XVI secolo, in particolare, il Benin visse un’epoca d’oro sotto il regno di Oba Esigie, con espansione militare, rafforzamento politico e un’intensa produzione artistica, soprattutto nella lavorazione del bronzo e dell’avorio. Questi materiali erano centrali nei rituali religiosi e nella liturgia di corte, simboleggiando il potere spirituale e politico del sovrano.[7]
Nel XIX secolo, tuttavia, il Benin dovette affrontare crescenti instabilità interne e pressioni esterne da parte delle potenze coloniali europee. Il conflitto con la Gran Bretagna raggiunse il culmine nel 1897. Il 4 gennaio di quell’anno, il viceconsole britannico James Phillips guidò una missione non autorizzata nel territorio del Benin, ufficialmente con lo scopo di persuadere l’Oba ad implementare il commercio a favore degli interessi britannici.
L’iniziativa si concluse in tragedia: l’ambasceria fu attaccata a Ugbine e quasi tutti i membri del gruppo, compreso Phillips, furono uccisi. Questo episodio fornì al governo britannico un comodo casus belli per lanciare una vasta spedizione militare di rappresaglia.[8]
Il 9 febbraio 1897 fu avviata la cosiddetta “spedizione punitiva”, guidata dall’ammiraglio Harry Rawson. Una forza armata composta da circa 1.200 soldati britannici e ausiliari africani marciò verso Benin City. Il 18 febbraio la città fu conquistata dopo aspri combattimenti. L’Oba Ovonramwen fuggì in esilio, mentre le truppe britanniche procedettero a un sistematico saccheggio del palazzo reale e dei santuari circostanti.[9]
Si stima che furono trafugati circa 4.000 manufatti, poi dispersi in tutta Europa. Molti di essi furono venduti all’asta già nello stesso anno, finendo nelle collezioni di istituzioni prestigiose come il British Museum, l’Ethnologisches Museum di Berlino e il Musée du Quai Branly a Parigi.[10]
Il saccheggio di Benin City divenne così un caso emblematico di spoliazione coloniale, segnando una frattura storica nella trasmissione del patrimonio culturale del popolo Edo.
- Il discorso di Macron: una svolta simbolica
Un punto di svolta nel dibattito contemporaneo è rappresentato dal discorso del presidente francese Emmanuel Macron, tenuto nel novembre 2017 all’Università di Ouagadougou, in Burkina Faso. In quell’occasione, Macron espresse l’intenzione di ridefinire i rapporti tra la Francia e le nazioni africane francofone, impegnandosi pubblicamente per la restituzione, sia temporanea sia permanente, dei beni culturali africani. Il discorso segnò una presa di coscienza della dimensione simbolica e storica di tali oggetti, e aprì la strada a nuove forme di cooperazione postcoloniale.[11] La presa di coscienza globale sull’ingiustizia razziale, emersa con forza dopo l’omicidio di George Floyd nel maggio 2020, ha ulteriormente intensificato le richieste di decolonizzazione all’interno delle istituzioni culturali. L’ascesa del movimento Black Lives Matter ha spinto numerosi musei e organizzazioni in possesso del patrimonio culturale a riesaminare la provenienza delle proprie collezioni e a intraprendere iniziative finalizzate ad affrontare l’eredità dello sfruttamento coloniale.
Le Black lives contano non solo limitatamente nella sfera della vita umana, bensì importano anche in ambito storico, rivolendo dar lustro agli antichi imperi africani. Questi sforzi mirano a restituire dignità alle civiltà africane e ai loro discendenti, sottolineando l’urgenza di una restituzione quale strumento essenziale per il raggiungimento della giustizia storica. Le istituzioni private e i musei,[12] tuttavia, non hanno gradito il discorso di Macron; per questa ragione, inter alia, la questione delle restituzioni coloniali pone una serie di problemi in ambito al diritto di proprietà degli artefatti saccheggiati ormai due secoli fa e alla validità dei successivi passaggi economici che gli stessi hanno subito, nonché sulla coerenza degli accordi restitutivi attualmente stipulati.
La questione della proprietà dei Bronzi del Benin è tra le più delicate e discusse in tale ambito. La domanda che tutti si sono posti è a chi spettino, in definitiva, questi manufatti. Gli attori principali coinvolti nel dibattito sono il British Museum e l’Oba del Benin.[13] Infatti, secondo una dichiarazione rilasciata nel marzo 2002 dal Palazzo Reale di Benin, il diritto di proprietà sui bronzi appartiene pienamente all’Oba. Il British Museum, tuttavia, sostiene che tali opere appartengano “all’umanità intera” in quanto patrimonio culturale universale, considerandosi, inoltre, una sorta di “biblioteca del mondo”, vetrina di pluralismo e diversità. A sostegno di questa posizione invoca il British Museum Act del 1963, che limita fortemente le possibilità di restituzione.[14] Il nodo centrale, dunque, non è solo giuridico, ma anche morale e politico. Le motivazioni etiche e quelle legali si scontrano frequentemente, generando tensioni difficilmente sanabili.
Per comprendere meglio la posizione del British Museum appare opportuno ripercorrere la storia della fondazione del medesimo istituto. Nel febbraio 1753, Horace Walpole, in qualità di esecutore testamentario di Hans Sloane, svolse un ruolo fondamentale nella fondazione del British Museum. Sloane era un medico irlandese, botanico e collezionista, che aveva servito come medico personale di tre sovrani britannici ed era noto per le sue abitudini collezionistiche instancabili. La sua vasta raccolta, ispirata dai suoi viaggi (tra cui uno in Giamaica, grazie al quale contribuì a importare e diffondere la cioccolata calda), costituì il nucleo originario di quello che sarebbe divenuto uno dei musei più importanti al mondo. Nel suo testamento, Sloane pose due condizioni essenziali: che la collezione fosse mantenuta intatta e che fosse resa accessibile al pubblico. Tali clausole furono determinanti nella configurazione del British Museum, che divenne la prima istituzione pubblica a portare il prefisso “British”. Il nome del museo simboleggiava il nuovo Stato nato dall’unione del 1707 tra Inghilterra e Scozia, segnando una netta differenziazione dal modello francese basato sulla proprietà reale. In questo contesto, l’aggettivo “British” indicava che il museo non apparteneva né alla Chiesa né alla monarchia, ma al popolo, incarnando, così, il concetto emergente di nazione. Il museo offriva una narrazione più ampia della civiltà umana attraverso un approccio empirico e tassonomico.[15]
La tutela del British Museum si scontra con il framework legislativo che lo circonda: nel diritto internazionale esistono diversi strumenti normativi volti a regolare la restituzione dei beni culturali illecitamente sottratti, tra cui si segnalano, in particolare, la Convenzione UNESCO del 1970 sulla proibizione e la prevenzione dell’importazione, esportazione e trasferimento illeciti di beni culturali, e la Convenzione UNIDROIT del 1995 sul ritorno internazionale dei beni culturali rubati o illecitamente esportati.[16] Entrambe le convenzioni enunciano principi fondamentali volti a contrastare il traffico illecito di patrimonio culturale, promuovendo la cooperazione tra gli Stati e l’adozione di misure preventive. Tali normative, tuttavia, non hanno effetto retroattivo e, pertanto, non trovano applicazione rispetto a spoliazioni o trasferimenti avvenuti anteriormente alla loro entrata in vigore. In ambito europeo, la Direttiva 93/7/CEE, ora sostituita dalla Direttiva 2014/60/UE, prevede che nella determinazione della liceità della detenzione di un bene culturale prevalga il principio della lex originis, ossia la legge dello Stato membro da cui il bene proviene. Nella prassi, tuttavia, si assiste spesso all’applicazione del principio della lex loci rei sitae (la legge del luogo in cui il bene si trova al momento della rivendicazione), soprattutto nei casi in cui il possesso sia avvenuto in buona fede e nel rispetto delle leggi nazionali dello Stato ospitante.[17] Le norme sull’acquisto a non domino non sono riconosciute in tutti gli ordinamenti[18] e le leggi eurounitarie prevedono che il terzo acquirente debba dimostrare di aver effettuato il proprio acquisto attraverso la dovuta diligenza.[19] Ciò conferma come la «cultural property» si distingua dalla «proprietà ordinaria», configurando una ipotesi di proprietà conformata e manifestando la funzione sociale della proprietà privata.[20]
A contrastare questo quadro giuridico intervengono normative interne quale l’anticipato British Museum Act del 1963, il quale vieta espressamente alla celebre istituzione londinese di dismettere i beni appartenenti alle proprie collezioni, come previsto nel testamento di Sloan, salvo alcune eccezioni marginali, come la presenza di duplicati o di materiali stampati successivamente al 1850. Tali disposizioni rendono nella pratica estremamente difficile, se non impossibile, la restituzione formale dei manufatti storici richiesti da paesi terzi, anche in presenza di un riconoscimento dell’illecito originario della loro acquisizione. In questi rari casi è prevista la dismissione ex gratia, la quale, tuttavia, è stata applicata una sola volta con l’esplicita previsione che la stessa non possa costituire precedente vincolante nei confronti del museo per poter pretendere restituzioni.
In contrasto, la Germania è molto attiva sul fronte delle restituzioni, infatti ha stipulato con lo stato nigeriano un memorandum che prevede il ritorno di 1100 beni spogliati durante il saccheggio del 1897 e un finanziamento di 5 milioni di euro per la costruzione del museo che andrà ad ospitarli.[21] Sullo sfondo del dibattito si inseriscono anche le critiche provenienti dai settori conservatori della politica tedesca, in quanto la posizione della destra si è dimostrata drasticamente contraria a tali rimpatri per via del sostanzioso finanziamento tedesco di un museo che probabilmente non sarà quello di esposizione dei bronzi.[22] Questo scenario solleva interrogativi non secondari circa la trasparenza, la gestione pubblica del patrimonio culturale restituito e il destino effettivo di beni che, nelle intenzioni ufficiali, avrebbero dovuto rientrare a beneficio dell’intera comunità nigeriana.
Una distinzione preliminare, di particolare rilievo nel dibattito sulla legittimità delle acquisizioni di beni culturali, è quella tra asportazioni coloniali e non coloniali, ovvero tra prelievi effettuati nel contesto di un dominio coloniale e quelli avvenuti al di fuori di tale quadro. Si tratta, in altri termini, di distinguere le pratiche di scavo e trasferimento di manufatti attuate da uno Stato sovrano all’interno di territori formalmente riconosciuti come propri possedimenti coloniali, secondo i criteri giuridici dell’epoca, da quelle riconducibili a contesti di aperto conflitto, di razzia o di sottrazione illegittima.[23]
In tale ottica, va riconosciuto che, all’interno di un sistema coloniale riconosciuto internazionalmente, per quanto oggi criticabile, lo Stato sovrano esercitava un potere che includeva anche il diritto di effettuare scavi archeologici e di trasferire beni culturali verso le proprie istituzioni centrali, come i musei nazionali delle capitali. Questa logica, pur contestata in ambito postcoloniale, trova un’analogia strutturale, sebbene su scala diversa, nelle pratiche interne di molti ordinamenti nazionali: in Italia, ad esempio, la legge n. 1089/1939 (oggi sostituita dal Codice dei beni culturali e del paesaggio) ha a lungo previsto il trasferimento dei ritrovamenti più significativi nei musei regionali o nazionali, piuttosto che la loro permanenza nei luoghi di scoperta. È il medesimo principio che giustifica, ad esempio, la conservazione dei Bronzi di Riace nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, anziché nel piccolo comune di Riace in cui furono rinvenuti.[24] La maggior parte dei vasi greci antichi si trova, infatti, in Francia, Germania e Inghilterra, perché furono rinvenuti durante gli scavi dell’Ottocento.[25]
Nel caso dei Bronzi del Benin, la restituzione vorrebbe assumere un significato che vada ben oltre l’aspetto materiale: essa rappresenterebbe un atto di giustizia riparativa, volto a riconoscere il trauma storico subito dal popolo Edo. Il saccheggio del 1897 fu una violazione profonda dei diritti culturali e la restituzione è percepita come un passo necessario per sanare quella ferita e restituire dignità a una comunità spogliata della propria memoria.
Il filosofo ghanese-britannico Kwame Anthony Appiah ha sollevato, tuttavia, critiche significative nei confronti della nozione di “patrimonio culturale nazionale”, mettendone in luce i limiti concettuali e storici. In particolare, Appiah contesta l’idea che l’appartenenza di un bene culturale possa essere determinata esclusivamente su base geografico-statale, come se il legame con una nazione moderna potesse automaticamente fondarsi sul luogo di origine materiale dell’oggetto.[26]
Uno degli argomenti centrali del suo pensiero riguarda il fatto che molti manufatti oggi rivendicati in nome dell’identità nazionale furono creati in contesti storici profondamente differenti, spesso precedenti di secoli alla nascita degli Stati-nazione contemporanei. Nel caso specifico dei Bronzi del Benin, Appiah osserva che queste opere d’arte furono realizzate all’interno di un sistema politico e culturale (il Regno del Benin) che non coincide né politicamente né culturalmente con la Nigeria odierna. Per tale ragione, sostiene che tali manufatti non “appartengano” ai cittadini nigeriani contemporanei in misura maggiore rispetto al resto dell’umanità.[27]
Tale approccio ha suscitato ampio dibattito nel campo dell’etica museale e del diritto culturale, poiché mette in tensione due principi fondamentali: da un lato, il diritto delle comunità d’origine a riappropriarsi dei propri simboli identitari e storici; dall’altro, l’idea di un patrimonio universale, che trascende i confini politici per diventare oggetto di condivisione globale. Appiah invita dunque a riflettere criticamente sulla relazione tra cultura e territorio, e sulle modalità attraverso cui costruiamo il concetto stesso di appartenenza culturale. Al contrario, alcuni studiosi affermano che negare il diritto alla restituzione in nome dell’universalismo rischia di perpetuare una forma di imperialismo culturale, che giustifica la conservazione nei musei occidentali a discapito dei diritti delle comunità d’origine.
Il tema è tutt’altro che univoco. Non si può, inoltre, ignorare la profonda ambivalenza di questi manufatti. Per il popolo Edo, i Bronzi rappresentano l’essenza di un’eredità ancestrale, un’espressione spirituale e artistica che affonda le radici nella storia precoloniale. Per l’Inghilterra, invece, questi stessi oggetti sono divenuti, nel corso del XIX secolo, simboli di grandezza imperiale e testimonianze della missione civilizzatrice dell’Occidente. In tal senso, la questione della proprietà non è affatto univoca: gli stessi manufatti incarnano narrazioni diverse e talvolta conflittuali.
A sostegno della posizione espressa da Appiah si può richiamare il punto di vista di Marcello Barbanera, docente di Archeologia Classica presso l’Università La Sapienza di Roma. Barbanera sottolinea come il semplice atto di rimozione di un bene culturale dal suo contesto originario comporti un danno irreversibile: «nel momento in cui un oggetto viene rimosso dalla sua collocazione originaria, il danno è già fatto. Riportarlo nel paese d’origine, magari dopo secoli e a condizioni radicalmente diverse, non ripara quel danno».[28] Secondo questa prospettiva, la restituzione materiale dei manufatti non è sufficiente a ricostituire l’integrità del contesto culturale e storico da cui sono stati strappati.
L’archeologo evidenzia inoltre come la migrazione forzata di tali oggetti abbia generato nuove stratificazioni di significato, modificando profondamente tanto i contesti di origine quanto quelli di approdo. [29] Un esempio emblematico è offerto dai cosiddetti Marmi di Elgin: una volta trasferiti in Inghilterra, questi manufatti furono oggetto di intensa attenzione da parte di artisti, studiosi e intellettuali, contribuendo a influenzare profondamente l’arte neoclassica europea.[30]
A rendere la questione ancor più complessa è il fatto che i Bronzi sono oggi sparsi in numerosi musei e collezioni nel mondo, dove contribuiscono alla costruzione di una narrazione culturale globale. Riunirli in un’unica sede in Nigeria potrebbe comportare il rischio di limitarne l’accesso al pubblico internazionale e di ridurre la loro funzione come ponti interculturali. Infatti, il Restitution Study Group (RSG), una piccola no-profit attiva nel campo delle riparazioni per la schiavitù negli Stati Uniti, ha recentemente promosso un’azione legale per bloccare la restituzione da parte dello Smithsonian Institution, sostenendo che i bronzi furono creati anche grazie al commercio di schiavi. Secondo questa prospettiva, i discendenti delle vittime della tratta, molti dei quali oggi vivono in America, avrebbero anch’essi un diritto morale su tali oggetti. Costringerli a viaggiare in Nigeria per accedere a questi artefatti significherebbe, per il RSG, perpetuare un’altra forma di ingiustizia.[31] Questa situazione evidenzia come la giustizia riparativa attuata attraverso le restituzioni dei beni saccheggiati ai popoli “d’origine” sia di difficile accoglimento anche per le popolazioni stesse, le quali sono ormai sparse per il mondo e in grado di avanzare pretese sui beni stessi.
La filosofa politica Jean Bethke Elshtain ha descritto le scuse pubbliche delle istituzioni e dei leader come un fenomeno di contrition chic — un “pentimento alla moda”, o “pentimento di facciata” che spesso si traduce in un gesto superficiale, finalizzato a ottenere visibilità, simpatia o autoassoluzione. Da questa prospettiva, anche le restituzioni rischiano di diventare strumenti di autopromozione politica o diplomatica, più che autentici atti di giustizia. Esse offrono ai paesi colonizzatori l’opportunità di mettere in scena pubbliche “scuse ritualizzate”, senza necessariamente affrontare le responsabilità strutturali derivanti dal proprio passato imperiale. [32]
La restituzione dei Bronzi fa parte dei “cortocircuiti woke” che sono stati innestati dai musei occidentali in tema di decolonizzazione.[33]
- I primi ritorni e la diplomazia culturale
La Nigeria ha iniziato a richiedere formalmente la restituzione dei Bronzi del Benin sin dalla sua indipendenza, nel 1960. Nel 1977, il Festival mondiale delle arti e della cultura nere (FESTAC ‘77), tenutosi a Lagos, segnò un momento fondamentale per il dibattito sulla restituzione. Questo evento pan-africano diede impulso alle prime richieste coordinate per il rimpatrio dei beni culturali africani.[34]
Nel 2007 venne fondato il Benin Dialogue Group, il quale è uno degli organismi centrali di discussione sulla restituzione dei beni culturali saccheggiati da Benin City durante la spedizione punitiva condotta dall’esercito britannico nel 1897. L’obiettivo del gruppo è quello di collaborare per istituire un museo a Benin City che consenta un’esposizione permanente delle opere d’arte beniniane disperse in collezioni di tutto il mondo. Le discussioni del gruppo si sono concentrate principalmente sulla concessione di prestiti rotativi a lungo termine da parte di alcuni membri occidentali, mentre i membri nigeriani hanno avanzato richieste di restituzione definitiva.[35]
Nel 2018, il Benin Dialogue Group ha raggiunto un accordo con il governo britannico per il rientro di alcuni bronzi. Gli oggetti, seppur restituiti come prestiti a lungo termine, saranno esposti nel nuovo Museo Reale del Benin in fase di costruzione nello Stato di Edo. Anche la Germania ha mostrato un approccio più aperto: nel 2021 ha firmato un protocollo d’intesa con la Nigeria per restituire oltre 1.000 bronzi, insieme a un impegno per progetti museali e archeologici condivisi. Il British Museum continua a perseguire una strategia basata sull’organizzazione di prestiti a lungo termine in favore del Regno del Benin, con l’obiettivo di evitare la cessione formale della proprietà dei manufatti e, al contempo, preservare l’integrità delle proprie collezioni permanenti.
- Oltre il conflitto: la via dell’equilibrio
La tensione tra universalismo e giustizia storica è il cuore pulsante del dibattito sulla restituzione dei beni culturali. Se da un lato la restituzione è vista come un atto moralmente necessario per sanare le ferite del passato, dall’altro è fondamentale che non comprometta la funzione educativa e simbolica delle istituzioni museali globali.
È essenziale, dunque, trovare un equilibrio tra le legittime rivendicazioni delle comunità d’origine e il valore universale dell’arte. Tale processo non dovrebbe essere interpretato né come un mero atto di “correttezza politica”, né come una semplice concessione diplomatica, priva di conseguenze sostanziali. Al contrario, esso dovrebbe mirare a generare benefici concreti e duraturi per i veri destinatari del patrimonio culturale: le comunità globali, che oggi si interrogano con crescente consapevolezza sul significato dell’appartenenza a una memoria collettiva. La restituzione e la rinegoziazione del destino dei beni culturali sottratti devono dunque essere concepite come occasioni per ripensare le relazioni storiche tra i popoli, promuovendo un accesso equo e una più autentica valorizzazione della diversità culturale in un’ottica di condivisione universale.
In questo percorso, è fondamentale evitare il rischio di una rilettura del passato improntata alla logica della cancel culture, che tende a rimuovere o censurare episodi storici ritenuti problematici, piuttosto che a comprenderli nella loro complessità. La memoria storica, anche nei suoi aspetti più controversi, non dovrebbe essere cancellata, bensì piuttosto riattraversata criticamente, con l’obiettivo di costruire un rapporto maturo e consapevole con il passato. Solo attraverso un confronto aperto, capace di riconoscere le responsabilità senza indulgere in semplificazioni ideologiche, sarà possibile adattarsi agli insegnamenti del passato e trasformare antiche fratture in opportunità di crescita comune. Riappacificarsi con il passato significa, dunque, riconoscerne tanto le ombre quanto i lasciti culturali positivi, in una prospettiva che favorisca la comprensione, il rispetto reciproco e la costruzione di una memoria condivisa a livello globale.
I sostrati culturali che accompagnano lo spostamento dei beni culturali, così come le critiche rivolte tanto alla pratica delle restituzioni quanto alla loro negazione, rappresentano spunti di riflessione particolarmente fecondi. Essi offrono le premesse per l’avvio di un dialogo etico profondo, capace, se condotto con spirito di equità e attraverso strumenti diplomatici efficaci, di evolversi nel tempo in un percorso di riconciliazione autentica tra gli Stati. Un confronto improntato al rispetto reciproco e alla comprensione delle rispettive prospettive storiche e culturali potrebbe infatti non solo sanare ferite ancora aperte, ma anche promuovere una nuova concezione condivisa del patrimonio culturale come eredità globale e inclusiva.
I veri destinatari dei manufatti storici e artistici sono i popoli nella loro dimensione collettiva e intergenerazionale. Di conseguenza, la priorità che dovrebbe orientare il dibattito sulla restituzione e sulla gestione dei beni culturali è la tutela e la conservazione di tali opere, al fine di garantirne la fruizione, la promozione e la valorizzazione. Solo attraverso politiche attente alla protezione del patrimonio, capaci di preservarne l’integrità materiale e culturale, sarà possibile rendere questi artefatti, unici per valore storico, artistico e simbolico, accessibili alle comunità di origine e, più ampiamente, all’intera umanità, in un’ottica di condivisione responsabile e duratura.
[1] Appare qui molto importante specificare che la cultura Edo dell’antico Regno del Benin coincide a livello geopolitico con l’attuale stato nigeriano e che nulla ha a che vedere con l’attuale Stato del Benin, ad esso confinante. Dopo l’indipendenza della Nigeria dal Regno Unito avvenuta nel 1960 il Regno del Benin non ha riacquistato la propria indipendenza, tuttavia, l’Oba (il sovrano) ha mantenuto un forte ruolo istituzionale, assimilabile al consigliere del governo e rappresentante della popolazione Edo all’interno dello stato nigeriano. Quando si parlerà del Benin, quindi, in questa disamina ci si riferirà unicamente al distretto di Benin City, la capitale dell’antico regno del popolo Edo, ancora oggi guidato da un erede dell’Oba.
[2] Fino ad oggi, permane un legame vivo tra la città contemporanea di Benin City e le sue antiche tradizioni artistiche. La Igun Street ospita ancora l’Igun Eronmwon, una corporazione esclusiva di fonditori di bronzo la cui discendenza si dice risalga addirittura al XIII secolo. Composta da circa 120 membri, la corporazione continua a operare secondo metodi ancestrali, trasmettendo le competenze in maniera patrilineare di generazione in generazione. La tecnica impiegata è nota come “fusione a cera persa”, un procedimento sofisticato e laborioso che costituisce il fulcro dell’eccellenza scultorea beniniana fin dalle sue prime manifestazioni artistiche. Questa continuità nella pratica materiale e nell’identità culturale testimonia l’eredità duratura dell’arte regale del Benin, tanto nel contesto storico quanto in quello contemporaneo.
B. Phillips, Loot. Britain and the Benin Bronzes, London: Oneworld Publications, 2022, pp. 5-7.
[3] Analogamente a quanto avviene per i cosiddetti “Marmi del Partenone”, o “Marmi di Elgin”, denominazione che non si riferisce esclusivamente agli elementi scultorei in marmo provenienti dal Partenone dedicato ad Atena, ma più in generale a tutti gli artefatti esportati dall’Acropoli di Atene, anche l’espressione “Bronzi del Benin” assume un significato estensivo. Questa, infatti, non si limita a designare le opere realizzate in bronzo, ma comprende una vasta gamma di manufatti prodotti con materiali diversi, quali avorio, legno, pelle, corallo, pietra rossa e tessuti. Questa ampiezza terminologica riflette non solo la ricchezza tecnica e artistica della cultura Edo, ma anche la necessità, nel linguaggio corrente, di adottare una formula sintetica per indicare complessi patrimoni culturali dalle caratteristiche materiali estremamente eterogenee.
[4] La presente disamina iconografica proviene dal lavoro di A. Procter, The Whole Picture, London: Octopus Publishing Group, 2020, p. 119 – 128.
[5] I portoghesi furono i primi europei a rapportarsi con il popolo Edo nel 1486. Dal 1515 tentarono la conversione forzata della popolazione attraverso il trasferimento massivo di preti nel territorio. B. Phillips, Loot. Britain and the Benin Bronzes, London: Oneworld Publications, 2022, p. XIII.
[6] D. Hicks, The Brutish Museums: The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution. London: Pluto press, 2020, pp. 39 – 40. La propaganda coloniale rivestì un ruolo cruciale nel giustificare l’impresa imperiale e, con essa, l’esportazione e il commercio di manufatti culturali provenienti dai territori soggetti a dominazione. In questo contesto, la narrazione della superiorità culturale ed estetica dell’Occidente fu strategicamente affiancata a una rappresentazione delle popolazioni indigene come primitive o barbariche, al fine di legittimare il controllo politico e lo spoglio patrimoniale. Emblematico, in tal senso, fu il caso dei bronzi del Benin: la loro diffusione in Europa suscitò ammirazione e sorpresa nel pubblico e tra gli studiosi, incapaci di conciliare l’elevata raffinatezza artistica di tali opere con l’immagine, costruita ideologicamente, di un’Africa priva di civiltà avanzate. Questo contrasto divenne esso stesso strumento di propaganda, rafforzando l’idea che fosse compito delle potenze coloniali “custodire” e “valorizzare” un patrimonio artistico ritenuto altrimenti destinato all’oblio o alla distruzione.
[7] In B. Phillips, Loot. Britain and the Benin Bronzes, London: Oneworld Publications, 2022, pp. XII ss. Barnaby Phillips offre un’analisi dettagliata dello sviluppo storico e culturale del Regno del Benin, ricostruendo una linea del tempo che abbraccia l’evoluzione della civiltà Edo dalle sue origini più remote fino all’incontro con le potenze coloniali europee. L’autore esamina con rigore il progressivo deteriorarsi dei rapporti tra il Benin e il Regno Unito, culminato nel saccheggio del 1897, evento che segnò una frattura irreversibile nella storia del regno. Il volume documenta inoltre i successivi tentativi di recupero del patrimonio culturale disperso, soffermandosi su ogni rinvenimento di manufatti nelle collezioni private e pubbliche e analizzando gli sviluppi più recenti in materia di restituzione, inclusi gli accordi tra musei, istituzioni culturali e stati sovrani.
[8] B. Phillips, Loot. Britain and the Benin Bronzes, London: Oneworld Publications, 2022, p. XIV.
[9] Brigitta Hauser-Schäublin, Lyndel V. Prott, Cultural property and contested ownership. The trafficking of artefacts and the quest for restitution,New York: Routledge, 2016, p. 135
[10] Quando questi oggetti furono esposti per la prima volta a Londra, il pubblico europeo fu sbalordito dalla loro raffinatezza tecnica. Fino ad allora, la narrazione coloniale aveva dipinto le civiltà africane come primitive e incapaci di produrre arte complessa. L’improvvisa consapevolezza dell’elevato valore artistico dei Bronzi innescò una vera corsa da parte delle potenze europee, desiderose di assicurarsi tali “esotici” manufatti per i propri musei nazionali.
[11] A. Herman, Restitution: the return of cultural artefacts, London: Lund Humphries in association with Sotheby’s Institute of Art, 2021, p. 11.
Nel 2021, grazie a una commissione ad hoc, il Regno del Dahomey ha riottenuto il possesso di 26 oggetti che erano stati sottratti durante la campagna militare francese del 1899, volta ad affermare il controllo sulla regione dell’Africa occidentale.
[12] Il termine “museo” deriva da Mouseion, ossia spazio dedicato alle muse, le protettrici delle arti e del sapere. Le radici del concetto di museo affondano veramente più indietro nel tempo. Il Liceo di Aristotele, nell’antica Grecia, ospitava un mouseion, e il Mouseion di Alessandria, fondato nel IV secolo a.C. da Demetrio di Falero, allievo di Aristotele, rappresenta un altro esempio precoce. L’Impero Romano contribuì a tale tradizione con la creazione delle pinacothecae, gallerie destinate all’esposizione di oggetti e opere d’arte. Nel Medioevo, la Chiesa cattolica custodiva tesori, raccolte di oggetti preziosi donati da sovrani e aristocratici, nei suoi luoghi sacri. Il Rinascimento italiano ravvivò ulteriormente l’interesse per le antichità e per lo studio del passato. La collezione privata della famiglia Medici a Firenze, nel XVI secolo, è spesso citata come il primo museo della storia. Nel 1570, Giorgio Vasari effettuò un’ampia ristrutturazione del Palazzo Medici, creando uno studiolo segreto per Francesco I, primo Granduca di Toscana. Questo ambiente fu concepito per ospitare la vasta collezione medicea di opere d’arte e curiosità, segnando così il passaggio dalle raccolte private ai musei aperti al pubblico. Per questa ragione, alcuni ricercatori affermano che la maggior parte degli attuali musei si basi su artefatti storici appartenenti a campagne di conquista o a dominazioni coloniali oggigiorno controverse e spesso contestate. D. Hicks, The Brutish Museums: The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution. London: Pluto press, 2020.
[13] Il presidente nigeriano Muhammadu Buhari ha asserito di volere affidare i Bronzi all’Oba Eware II, riconoscendolo come «proprietario originario e custode della cultura, del patrimonio e della tradizione del popolo del regno del Benin», accordandogli, in tal modo, l’integrale proprietà di tutti i manufatti rimpatriati. Il Financial Times ha infatti riportato che il re del Benin non sia da considerarsi come una singola persona, bensì come un rappresentante della cultura e della tradizione del suo popolo. L’Oba è, infatti, anche un consigliere del governo nigeriano, rappresentante della popolazione Edo nel paese. In Le proteste della destra tedesca per la restituzione dei bronzi del Benin, Il Post, 19 maggio 2023.
[14] Il Regno Unito ha istituito regole rigorose per impedire la rimozione di oggetti dalle sue collezioni nazionali. Queste restrizioni risalgono all’atto istitutivo del British Museum, approvato dal Parlamento nel 1753, il quale imponeva ai fiduciari l’obbligo di preservare la collezione per l’uso pubblico e per le generazioni future. L’attuale British Museum Act del 1963 continua a vietare al Board of Trustees di vendere, donare o altrimenti dismettere gli oggetti appartenenti alla collezione.
[15] T. Jenkins, Keeping their marbles, Oxford: Oxford University Press, 2018, p. 51.
[16] La Convenzione UNESCO prevede che lo Stato debba attivarsi per la restituzione del bene allo Stato d’origine, la cui richiesta deve essere presentata entro tre anni dal momento in cui il richiedente ha scoperto il luogo in cui si trova il bene e, in ogni caso, entro 50 anni dalla data del furto. La Convenzione prevede anche l’obbligo di compensare con un indennizzo ogni «innocent purchaser», istituendo così, quindi, un bilanciamento di interessi fra i privati e gli stati. L’azione di restituzione è, tuttavia, esercitabile senza limitazione temporale per i beni culturali facenti parte del patrimonio culturale dello Stato contraente.
[17] G. Magri, La circolazione dei beni culturali nel diritto europeo: limiti e obblighi di restituzione, Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2011, pp. 33 e ss.
[18] In Francia e Germania, infatti, tale regola trova applicazione solo laddove il possesso sui beni sia andato perduto involontariamente, mentre nell’ordinamento italiano la regola si applica anche ai beni rubati. Le Convenzioni internazionale derogano a questi principi nazionali inerenti gli acquisti a non domino, imponendo la restituzione del bene. In questo modo vengono rimodellati gli effetti della tutela dell’acquirente al fine di evitare la creazione di un mercato di beni culturali dalla provenienza illecita. M. Cenini, La funzione sociale del patrimonio culturale: tra proprietà e persona, Edizioni Scientifiche Italiane, 2024, p. 103 e ss.
[19] Nel 2015 la Foundation pour le droit de l’art di Ginevra ha intrapreso una iniziativa denominata RAM (Responsible Art Market) che mira a sensibilizzare gli operatori del settore sui rischi che il mercato dell’arte deve affrontare in relazione alla vendita di opere d’arte false o rubate. Fondamentale nell’attività è il ruolo della due diligence quale attività preliminare ad ogni genere di negozio di trasferimento. Inoltre, diversi musei hanno provveduto a redigere dei codici etici (il più famoso è quello redatto dall’ICOM, l’International Council of Museums) al fine di verificare la provenienza dell’opera. La diligenza dell’acquirente si valuterà anche in relazione al prezzo di mercato e a quello effettivamente pagato, alla forma di pagamento e alle procedure specifiche della compravendita, valutando luogo orario e modalità della trattativa. A livello di ordinamento italiano, la giurisprudenza quando chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità degli acquisti a non domino, ex art. 1153 c.c. in materia di mercato dell’arte, limita la tutela possessoria imponendo all’acquirente particolari cautele. M. Cenini, La funzione sociale del patrimonio culturale: tra proprietà e persona, Edizioni Scientifiche Italiane, 2024, p. 103 e ss. Tutte queste evoluzioni testimoniano una crescente sensibilità etica nei confronti delle dinamiche del mercato dell’arte, che si traduce in un progressivo ripensamento delle pratiche di acquisizione sia da parte dei collezionisti privati, sia da parte dei musei e delle istituzioni pubbliche. Sempre più, l’attenzione alla provenienza delle opere e al rispetto dei principi di legittimità storica sta diventando un criterio imprescindibile nelle scelte di acquisto e nelle politiche espositive.
[20] M. Cenini, La funzione sociale del patrimonio culturale: tra proprietà e persona, Edizioni Scientifiche Italiane, 2024, p. 106 e ss.
[21] A. Frattini, Il progetto di David Adjaye per il museo EMOWAA a Benin City, in EXIBART, 20 novembre 2020. Il governo tedesco ha raggiunto un accordo con lo stato nigeriano, firmando nell’ottobre del 2021 ad Abuja un memorandum d’intesa (MoU) sulla cooperazione museale, al fine di predisporre i trasferimenti di proprietà per la restituzione dei Bronzi del Benin e la successiva esposizione dei medesimi all’interno dei relativi musei nigeriani e tedeschi, per mantenere una duratura cooperazione.
[22] Alcune voci della cosiddetta “destra” hanno contestato i finanziamenti pubblici destinati alla realizzazione dell’EMOWAA (Edo Museum of West African Art) a Benin City, in Nigeria. Il museo, progettato dall’architetto David Adjaye, già noto per la realizzazione del National Museum of African American History and Culture a Washington, avrebbe dovuto ospitare le opere attualmente disperse in collezioni internazionali, con l’obiettivo di ricostruire e restituire una narrazione coerente dell’identità storico-artistica della Nigeria; tuttavia, recenti sviluppi fanno presumere che molti dei manufatti restituiti verranno invece esposti nel Museo Reale del Benin, sotto l’egida diretta dell’istituzione monarchica locale, con il rischio concreto che tali opere confluiscano in una collezione privata appartenente al sovrano. In Le proteste della destra tedesca per la restituzione dei bronzi del Benin, Il Post, 19 maggio 2023
[23] È lecito interrogarsi criticamente sulla validità giuridica e morale del titolo di sovranità coloniale, anche alla luce delle attuali rivisitazioni storiografiche e delle istanze postcoloniali che tendono a rimettere in discussione le fondamenta stesse dell’ordine internazionale moderno. Sarebbe, tuttavia, sia metodologicamente riduttivo quanto storicamente fuorviante affrontare tale questione con un approccio esclusivamente etico o ideologico, che condanni il colonialismo in quanto tale, senza tenere conto della sua portata storica, della durata secolare del fenomeno e delle articolazioni giuridiche e istituzionali che lo hanno accompagnato. La complessità del fenomeno impone, piuttosto, un’analisi che tenga conto delle dinamiche storiche e delle diverse situazioni giuridiche concrete.
[24] Andrea Spiriti, Restituzioni: pro e contro. Articolo in Corso di pubblicazione.
[25] Di chi sono le cose antiche nei musei? Il Post, 17 novembre 2021.
[26] T. Jenkins, Keeping their marbles, Oxford: Oxford University Press, 2018, p.215. Tale impostazione, sebbene oggi sottoposta a crescenti pressioni per una decentralizzazione del patrimonio culturale e per il riconoscimento dei diritti delle comunità d’origine, riflette un paradigma storico che ha dominato la museologia e la gestione del patrimonio per gran parte dell’età moderna e contemporanea.
[27] Questa posizione si fonda su una visione cosmopolita del patrimonio culturale, secondo cui i beni artistici e storici di particolare rilevanza dovrebbero essere considerati come parte di un’eredità condivisa a livello globale. In tale prospettiva, il valore di un’opera non risiede esclusivamente nella sua connessione territoriale o nazionale, bensì nella sua capacità di arricchire l’intera esperienza umana, rendendola potenzialmente accessibile e comprensibile da parte di persone di culture e origini diverse.
[28] Di chi sono le cose antiche nei musei? Il Post, 17 novembre 2021.
[29] Questa riflessione pone in evidenza una delle maggiori complessità del dibattito contemporaneo sulla restituzione: la difficoltà di conciliare l’esigenza di giustizia storica con il riconoscimento delle nuove dimensioni culturali e interpretative che i beni sottratti hanno assunto nel corso del tempo.
[30] Tra i numerosi artisti ispirati da tali opere si annovera anche Antonio Canova, il quale trasse stimoli fondamentali dalla loro osservazione.
[31] Adam Kuper, The Museum of Other People. From Colonial Acquisitions to Cosmopolitan Exhibitions. London: Paperback edition, 2024, p. 250. È importante rilevare che Deadria Farmer-Paellmann, afroamericana fondatrice del RSG, ha definito che “le azioni di rimpatrio dei Bronzi avrebbero l’effetto di premiare due volte la schiavitù”. L’attivista ritiene che il commercio degli schiavi abbia portato una enorme ricchezza ai popoli africani, in quanto consentì un maggiore sviluppo dell’arte e del mecenatismo: infatti i Bronzi del Benin vennero realizzati attraverso la fusione dei “manilla” i bracciali di rame e ottone che erano la moneta di scambio nella regione, che venivano utilizzati all’interno del commercio degli schiavi. Di conseguenza, i Bronzi sono innatamente connessi con la tratta degli schiavi. La restituzione al paese d’origine comporterebbe una gratificazione ulteriore per il comportamento sbagliato dell’epoca, mondando solo la coscienza del colonizzatore-genocida, premiando, invece, quella dei colonizzati che si resero complici di questa pagina nera della loro storia. E. Petrucci, Bronzi del Benin: restituzioni, schiavismo e cortocircuiti woke, 15 aprile 2023, in Storia in rete.
[32] Il tema delle restituzioni degli artefatti saccheggiati è oggi particolarmente al centro del dibattito pubblico, complice anche la crescente tendenza a conformarsi ai canoni del politicamente corretto. In molti casi, la promozione di iniziative di restituzione sembra rispondere più all’esigenza di manifestare una posizione eticamente accettabile agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, piuttosto che a un autentico intento di riparazione storica. Questo fenomeno solleva interrogativi sulla profondità e sulla sincerità delle azioni intraprese, richiedendo una riflessione critica sulle reali motivazioni che muovono le istituzioni e gli Stati nelle loro politiche culturali.
[33] E. Petrucci, Bronzi del Benin: restituzioni, schiavismo e cortocircuiti woke, 15 aprile 2023, in Storia in rete.
[34] Originariamente previsto per il 1970, il Secondo Festival Mondiale delle Arti e della Cultura Nera e Africana (FESTAC) fu rinviato a causa dello scoppio della guerra del Biafra (guerra civile nigeriana). L’evento fu inizialmente riprogrammato per il 1975, ma ulteriori instabilità politiche e transizioni governative portarono al suo svolgimento definitivo nel 1977.
In preparazione al festival, il governo nigeriano commissionò la costruzione di un complesso culturale all’avanguardia nel centro di Lagos. Il progetto architettonico si ispirava al Palazzo della Cultura e dello Sport di Varna, in Bulgaria, riflettendo un momento di collaborazione internazionale in ambito architettonico e culturale durante l’era della Guerra Fredda.
B. Savoy, Africa’s Struggle for Its Art: History of a Postcolonial Defeat, Princeton: Princeton University Press, 2022, p. 58.
[35] B. Povolny, Benin Dialog Group: Building and Filling a New Museum in Benin, Cultural Property News, 23 novembre 2018.