La responsabilità estesa del produttore come key factor per una moda sostenibile: riflessioni comparatistiche

Giacomo Furlanetto

Dottorando di ricerca in Diritto e Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Insubria

L’ articolo, anzitutto, evidenzia le criticità del comparto moda, il quale rappresenta uno dei settori industriali meno sostenibili, sia dal côté sociale che da quello ambientale. Dopo aver analizzato la moda come fenomeno sociale, l’ attenzione viene posta in merito alle più rilevanti iniziative europee in tema di sustainable fashion, tra cui la responsabilità estesa del produttore. Successivamente, si indaga in un’ ottica comparatistica la normativa francese sull’ EPR, sottolineando a questo proposito le lacune presenti nel panorama giuridico italiano.

First of all, the article highlights critical issues in fashion, which is one of the least sustainable industries from both social and environmental perspectives. Fashion is first analyzed as a social phenomenon, then the focus is moved to the most significant actions taken by the European Union with regard to sustainable fashion, among which the Extended Producer Responsibility (EPR). Afterward, the French legislation on EPR is considered and compared to the Italian legislation in this matter, which is argued to present gaps.

Sommario: 1. Introduzione – 2. La moda come fenomeno sociale – 3. Le criticità ambientali e sociali del mondo fashion: alcune iniziative europee in tema di moda sostenibile – 4. La responsabilità estesa del produttore – 4.1 L’ epr in Italia e in Francia – 5. Osservazioni conclusive.

1. Tra i comparti industriali più rilevanti di talune economie europee[1], anzitutto di Italia[2] e Francia[3], può essere annoverato il settore moda, il quale, dopo la crisi ingenerata da Covid-19, sta timidamente segnalando una ripresa in termini economici.

Come ormai evidenziato da numerosi studi[4], il comparto in oggetto[5] rappresenta uno dei settori industriali meno sostenibili, sia dal côté ambientale che da quello sociale[6]. Col passare degli anni, l’attenzione dei consumatori e delle organizzazioni non governative impegnate per la tutela dell’ambiente hanno spinto, tanto le istituzioni internazionali, quanto quelle nazionali, ad adottare misure atte a rendere più green il mondo fashion.

Recentemente, la Commissione Europea ha promosso una serie di iniziative volte a indirizzare il settore verso una concreta sostenibilità. A questo proposito, merita di essere menzionata la Strategia UE per i prodotti tessili sostenibili e circolari, approvata nel marzo del 2022, il Piano d’azione sull’economia circolare del 2020 e, in particolar modo, la Direttiva 2018/851/UE che ha modificato la precedente 2008/98/CE, introducendo così una nuova definizione di regime di responsabilità estesa del produttore (EPR)[7].

Alcuni paesi europei, già da anni, hanno promosso iniziative che tendono a rendere il mondo fashion più sostenibile. Mentre altri, invece, debbono ancora adottare policies concrete sul punto, rallentando di conseguenza la transizione verde del comparto.

2. Prima di affrontare le criticità sociali e ambientali che sta vivendo il mondo fashion e, più in generale, il comparto tessile, appare interessante soffermarsi sul concetto polisemantico di moda.

Da un primo punto di vista storico, la nascita della moda come fenomeno di massa può farsi risalire alla metà del XIX sec., in Francia. Qui la presenza di nuovi macchinari industriali favorì la produzione di capi di abbigliamento in serie, i quali venduti sul mercato raggiunsero diverse fasce della popolazione. Al contempo, si sviluppò anche l’alta moda, l’haute couture, con particolare riferimento ai modelli femminili[8].

Per quanto attiene al nostro Paese, sebbene la moda italiana non godesse dello stesso prestigio nel corso dell’800[9], i capi di abbigliamento made in Italy iniziarono ad apparire nel panorama internazionale qualche decennio più tardi, promuovendo così l’iconico stile italiano.

In questo contesto, alla moda potrebbe essere ricollegato anche un ruolo sociale e, più nel dettaglio, fondamentale risulterebbe la sua caratteristica intrinseca di veicolare informazioni, ovvero di attuare una comunicazione non verbale. Nelle società preindustriali, i materiali che costituivano gli abiti indicavano, anzitutto, lo status sociale e, talvolta, la professione svolta. In questo senso, si può ricordare il carattere evocativo dall’abbigliamento in seta[10]: in origine, infatti, questo pregiato filato, nato in estremo Oriente e poi ampiamente diffuso in Europa e, in particolare, in Italia[11], veniva utilizzato per la produzione di capi che sarebbero stati indossati solamente da coloro che appartenevano alle classi più abbienti, come nobili ed ecclesiastici[12].

La moda può inoltre essere considerata fonte di emulazione. Sul punto, è ormai noto che l’individuo attua determinati comportamenti col fine di essere più facilmente accettato in una società o in un determinato gruppo: tali condotte, infatti, riguardano anche il modo di vestire.

Il modello imitativo come fenomeno sociale fu al centro degli interessi anche di Immanuel Kant e Adam Smith, che ci consegnano alcune riflessioni particolarmente interessanti a questo proposito.  Kant riconduceva la moda a una sorta di legge: “Una tendenza naturale dell’uomo è quella di paragonarsi nel proprio contegno con persone di maggiore autorità (il fanciullo con l’adulto, l’inferiore col superiore) e di imitarne le maniere[13].

Adam Smith, dal canto suo, ricordava che gli individui ammirano colui che ricopre posizioni sociali di prestigio, uomini e donne facoltosi e proprio attraverso questo meccanismo di attenta osservazione si sviluppa il c.d. modello imitativo. Non solo, Smith precisava che sono le classi agiate – attraverso il proprio modo di porsi e al linguaggio utilizzato – a essere in grado di “lanciare” e poi “guidare” una data moda[14].

Un contributo fondamentale ci venne poi, in un secondo momento, da Georg Simmel, nel suo saggio La moda, nel quale affermò tra l’altro che la moda “è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale […]” e, infine, “appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi[15]. Sono quindi due gli elementi che emergono dall’importante analisi di questo sociologo circa la moda come fenomeno sociale: da una parte, la tendenza all’imitazione e, dall’altra, l’indubbia voglia di differenziarsi dal gruppo[16].

Simmel, evidenziò inoltre che questo modello imitativo posto in essere dalle persone, peraltro, può essere ricondotto a una sorta di limitazione del proprio “Io” con la sola finalità di rientrare nei rigidi canoni sociali imposti dal proprio gruppo di appartenenza; in questo senso, “il mondo interiore dell’individuo viene sottomesso a una moda e ripete così la forma del gruppo della moda” stessa[17].

Dopo questa disamina, si potrebbe dunque affermare che la moda in generale rispecchia modelli, codici e costumi[18] che discendono da una data cultura, da una società, oppure ancora dalla religione ma, allo stesso tempo, permette, quasi incentiva, la possibilità per l’individuo di differenziarsi, mostrando quindi le sue preferenze estetiche e la sua personalità.

In riferimento a questo ultimo punto, appare interessante trattare, seppur brevemente, quanto sta emergendo in tema di moda e genere. Negli ultimi tempi, alcuni dei più importanti e noti brand[19] hanno deciso di assecondare le richieste e le preferenze provenienti da alcune fasce di consumatori. Il riferimento è al fenomeno del gender fluid, a cui i più giovani compratori della “generazione Z” appaiono molto sensibili[20]. Le più recenti statistiche[21] evidenziano che parte degli intervistati non si ritrovi in nessun genere e, da qui, la difficoltà di effettuare scelte d’acquisto vicine alla propria sfera intima, oppure ancora scelte che si distacchino totalmente dal genere attribuito loro dalla società di appartenenza.

In conclusione, se da un lato il mondo della moda rispecchia l’identità di un dato popolo e di una certa cultura[22] e, al contempo, è fonte di emulazione sociale, dall’altro, può essergli attribuita la capacità di differenziazione[23], la quale permette alle persone di operare scelte d’acquisto in totale libertà, con la finalità per i consumatori di mostrare le proprie preferenze anche più recondite agli altri.

3. Alla luce di quanto sinora detto, va anche sottolineato come le giovani generazioni interpretino il fenomeno moda nel contesto attuale caratterizzato da una forte crisi ambientale e climatica, a cui dedicano grande attenzione.

Tale preoccupazione è peraltro stata fatta propria dalla comunità internazionale, e in particolare dall’Unione Europea, che ha adottato specifiche policies in tema di sostenibilità riguardanti il settore tessile. Si tratta di iniziative che intendono incentivare le imprese ad adottare comportamenti più green, venendo incontro allo stesso tempo alle richieste dei consumatori, ormai sempre più consci delle problematiche ambientali[24] e, nello specifico, dell’impatto che il settore moda ha sull’ambiente e sui lavoratori.

Tra le ragioni che rendono l’intera supply chain del settore moda poco sostenibile dal lato ambientale vi sono: la grande quantità d’acqua impiegata durante l’intera catena produttiva – ad esempio, per il trattamento dei tessuti e per il loro lavaggio –, l’utilizzo di sostanze chimiche come i pesticidi, il vasto consumo di suolo[25] – in riferimento, ovviamente, alle fibre di origine vegetale –, le emissioni di gas a effetto serra[26] – potenzialmente dannose anche per le persone – e, infine, le tonnellate di materiali di scarto prodotte ogni anno[27].

Anche sotto il profilo sociale, tale comparto industriale non risulta essere sostenibile. Fatti di cronaca drammatici hanno riportato alla ribalta il problema dei diritti dei lavoratori di rado rispettati, soprattutto in alcuni paesi asiatici[28], oppure ancora alle carenti tutele sindacali. È stato inoltre messo in luce come gli operai (e forse soprattutto le operaie) ricevano un salario non congruo alle ore di lavoro svolte[29], alle ore di straordinario pressoché imposte e, talvolta, non retribuite, all’assenza di adeguate pause durante l’intera giornata lavorativa, oppure ancora alla poca sicurezza e alla carenza di igiene sul posto di lavoro a cui queste persone sono costantemente sottoposte. È facile e comodo pensare che quanto sopra affermato si verifichi solamente in determinati paesi, dimenticando però che violazioni simili si possono riscontrare anche all’interno del territorio europeo. Infatti, alcuni stati soprattutto dell’est Europa, come Macedonia, Romania e Bulgaria, sembrano essere perfette mete di sfruttamento dei lavoratori nel comparto tessile: i dati statistici, ad esempio, mostrano che una lavoratrice rumena percepisce circa duemila euro anni, mentre lo stipendio medio di una macedone si aggiri sui centocinquanta o duecento euro al mese[30].

Inoltre, lo sfruttamento degli operai tessili può derivare, tra le molte cause, dalla nascita e dal conseguente sviluppo del fast fashion. Questo fenomeno, sviluppatosi negli ultimi decenni, consiste, da un lato, nella volontà dei brand di creare e produrre sempre più velocemente diversi capi di abbigliamento, rigorosamente a basso prezzo e appetibili esteticamente[31] per i clienti e, dall’altro, nell’incentivare gli stessi consumatori ad acquistare costantemente nuovi indumenti che, a fine di ogni stagione, vengono poi scartati. 

In questo contesto, come già anticipato, si sono moltiplicate le iniziative europee in tema di fashion sustainability.

In particolare, la Commissione europea, attenta alle esigenze ambientali e riconoscendo l’importante ruolo che può avere l’industria della moda nel raggiungimento degli obiettivi di neutralità climatica[32], ha adottato nel 2022 la Strategia dell’UE per i prodotti tessili sostenibili e circolari[33]. Questa iniziativa, oltre a prevedere alcuni interventi in merito all’ambientalismo di facciata[34], il c.d. greenwashing[35], ha predisposto una serie di obiettivi per le aziende produttrici di capi di abbigliamento. Tra i più rilevanti vi è la volontà di incentivare il mondo tessile a produrre abiti che abbiano un ciclo di vita il più lungo possibile, allo stesso tempo incrementando quei servizi di riparazione dei capi di abbigliamento affinché possano essere riutilizzati con la finalità di evitare l’incessante produzione di scarti, con l’obiettivo ultimo di riciclarli. La Commissione intende quindi aumentare la competitività economica e sostenibile del settore attraverso la creazione di percorsi legati alla transizione tessile offrendo ai consumatori dei prodotti durevoli nel tempo che, però, siano venduti a prezzi accessibili.

Tale iniziativa si pone nella scia del precedente Piano d’azione per l’economia circolare intitolato Per un’Europa più pulita e più competitiva. Al fine di arginare il progressivo sviluppo del fast fashion, il documento aveva previsto tra le altre anche una serie di misure per il settore in commento. Tra i più importanti obiettivi vi erano quello di incrementare lo sviluppo di modelli di progettazione compatibili con le istanze ambientali, ovvero ecocompatibili[36], di impiegare per la produzione tessile materie prime secondarie, di prevedere incentivi economici per le aziende che avessero attuato la circular economy[37], di favorire servizi di riparazione, nonché quello di aumentare la raccolta differenziata dei rifiuti e, per concludere, dare concreta applicazione alla responsabilità estesa del produttore[38].

4. Per poter affrontare con maggiore contezza quanto seguirà, è necessario circostanziare l’origine del concetto di responsabilità estesa del produttore (Extended Producer Responsibility, di seguito EPR).

Il termine iniziò a diffondersi negli anni Novanta grazie all’accademico svedese Thomas Lindhqvist, il quale già in un suo report del 1992 lo descriveva come la responsabilità dei produttori per l’intero ciclo di vita dei loro prodotti, ponendo particolare attenzione alla fase di smaltimento[39].

Tra le diverse definizioni sul tema, deve essere anche ricordata quella fornita dall’OCSE, come “an environmental policy approach in which a producer’s responsibility for a product is extended to the post-consumer stage of a product’s life cycle[40]. Secondo questa impostazione le caratteriste intrinseche dell’EPR sarebbero: da un lato, il radicale spostamento della responsabilità in capo ai produttori e, dall’altro lato, l’introduzione di incentivi economico-finanziari per tutte quelle aziende che producono tenendo in ampia considerazione le criticità ambientali.

Appare ormai chiaro che l’EPR non può riassumersi solamente nelle sopraccitate definizioni, in quanto consta di una serie di operazioni, scelte e, anzitutto, obblighi informativi, amministrativi, finanziari ed economici[41] di competenza dei produttori stessi, col fine di riportare all’interno della catena produttiva quanto viene da loro prodotto[42].

Da ultimo, si potrebbe dunque affermare che uno degli scopi fondamentali di questa nuova responsabilità imprenditoriale può ravvisarsi proprio nel limitare la crescente quantità di rifiuti[43], considerando evidentemente anche gli scarti provenienti dal mondo della moda. In questo senso, l’EPR potrebbe essere assunta come una pratica manageriale col fine ultimo di tutelare l’ambiente.

L’EPR ha, comunque, una sua storia e una sua evoluzione all’interno della disciplina sviluppata dalle istituzioni europee sul tema.

Infatti, già negli anni ’70, con la Direttiva 75/442/CEE in materia di rifiuti oltre a confermare il principio di “chi inquina paga” come uno dei principi fondamentali delle politiche ambientali, si chiariva chi fosse il soggetto responsabile dello smaltimento dei rifiuti stessi, che avrebbe altresì dovuto sostenere i relativi costi: “il costo dello smaltimento dei rifiuti […] deve essere sostenuto dal detentore che consegni i rifiuti ad un raccoglitore o ad una impresa di cui all’articolo 8” oppure “e/o dai precedenti detentori o dal produttore del prodotto causa dei rifiuti[44]

Molti anni più tardi, con la Direttiva quadro 2008/98/CEE che stabiliva il nuovo quadro giuridico per il trattamento dei rifiuti la Commissione, oltre a prevedere una gerarchia degli stessi (prevenzione, riutilizzo, riciclaggio e, ovviamente, smaltimento) ha ripreso il tema dell’EPR, invitando gli stati membri ad adottare misure legislative cogenti oppure di soft law al fine di limitare la produzione dei rifiuti e sviluppare il riciclo e il riutilizzo degli stessi. Inoltre, la Direttiva del 2008 attribuiva al produttore la responsabilità dell’intero ciclo di vita del prodotto[45].

Non da ultimo, con l’obiettivo di dare concreta applicazione alle azioni e ai comportamenti imprenditoriali a tutela dell’ambiente e affrontare con ancora più incisività il tema dei rifiuti, la Commissione ha adottato la Direttiva 2018/851[46] che ha dettato precise indicazioni in merito all’EPR[47]. Secondo il nuovo art. 8 della Direttiva la responsabilità estesa del produttore può riassumersi in un insieme di misure che i paesi debbono adottare al fine di attribuire ai produttori una nuova forma di responsabilità collettiva[48] o individuale – tanto finanziaria che organizzativa – circa la vita di un loro prodotto venduto sul mercato[49].

Occorre però ricordare come tali policies europee hanno riguardato soprattutto alcuni settori industriali diversi da quello tessile e in particolare il settore degli imballaggi, dei rifiuti di pile, oppure ancora del comparto degli elettrodomestici.

È solo con la Strategia dell’UE per i prodotti tessili sostenibili e circolari, adottata nel 2022, che la Commissione ha deciso di intraprendere alcune misure in tema di EPR e abbigliamento. In merito, al punto 2.6 intitolato Responsabilità estesa del produttore e promozione del riutilizzo e del riciclaggio dei rifiuti tessili, vengono enunciate diverse iniziative che verranno adottate negli anni futuri come, ad esempio, la volontà della Commissione di armonizzare le norme europee in tema di EPR in riferimento al comparto moda, in prospettiva della futura revisione della Direttiva quadro sui rifiuti; iniziative già calendarizzate per il 2023. Questo punto risulta piuttosto importante, in quanto può essere considerato un tassello fondamentale per quanto concerne l’obbligo dal primo gennaio 2025 di raccolta differenziata per i capi di abbigliamento e in generale per i tessuti[50].

4.1. Nel panorama europeo, la maggior parte degli stati non ha ancora provveduto a emanare nel concreto disposizioni circa la responsabilità estesa del produttore nel mondo del tessile e del fashion. L’Italia come altri stati membri, non è stata finora in grado di concretizzare appieno quanto previsto dalle recenti policies europee in tema di rifiuti, EPR e moda sostenibile.

Tuttavia, nel giugno del 2022, l’Italia ha adottato la propria Strategia nazionale per l’economia circolare, prevedendo specifiche misure volte a promuovere uno sviluppo economico e sociale particolarmente attento alle esigenze ambientali. I temi trattati nel piano analizzato sono diversi, tra cui la digitalizzazione, l’ecodesign, lo smaltimento dei rifiuti, il riutilizzo e la riparazione e, infine, la responsabilità del produttore anche per il settore abbigliamento.

Questa Strategia chiarisce che, al fine di rendere il comparto tessile più green, debba essere predisposta una specifica disciplina circa le diverse modalità di prevenzione, riciclo, riutilizzo e recupero di tutti i materiali tessili e, al contempo, per concretizzare i benefici legati l’EPR, si debba intervenire, attraverso operazioni di potenziamento, sugli impianti che fungono da centri per il trattamento degli scarti. Non solo, le imprese saranno invitate, ove possibile, a inserire nuovamente nel proprio ciclo produttivo i materiali di scarto: obiettivo raggiungibile solamente tramite l’adozione di una strategia che sappia indicare alle aziende stesse i requisiti e gli eventuali criteri da seguire. Lo stesso piano tange, in aggiunta, il tema della comunicazione; infatti, “Un efficiente regime di EPR dovrà garantire anche una congrua informazione agli utilizzatori dei prodotti e ai detentori di rifiuti sulle misure di prevenzione, tramite riutilizzo e riparazione, nonché su quelle volte ad incentivare il corretto conferimento dei rifiuti medesimi in sistemi di raccolta differenziata[51].

Nonostante la Direttiva 2018/851 sia stata recepita con il d. lgs. 116 del 2020[52], e sebbene il paese si sia dotato di questa Strategia, il tema dell’EPR[53], collegato alla sostenibilità del settore tessile, viene trattato solamente in termini programmatici in quanto – ancora oggi – non sono stati emanati i relativi decreti attuativi da parte del competente ministero[54].

Per fortuna l’Italia gode invece di un primato europeo – non indifferente – in merito alla raccolta differenziata dei tessuti, anticipando di qualche anno quanto previsto dalla Direttiva 2018/851. Sul punto, come disposto dal riformulato articolo 205, sesto comma quater del d. lgs. 152 del 2006, “La raccolta differenziata è effettuata almeno per la carta, i metalli, la plastica, il vetro, ove possibile per il legno, nonché per i tessili[55] e tale compito è affidato, anzitutto, ai comuni.

L’unico stato ad aver finora attuato l’EPR per l’abbigliamento, la biancheria e le scarpe è la Francia che, già dal 2007, ha inserito alcuni principi nel Code de l’Environnement con cui obbliga gli imprenditori del mondo del fashion a contribuire e/o a provvedere al riciclaggio e al trattamento dei rifiuti tessili da loro prodotti.

L’articolo L 541-10 del Code de l’environnement definisce il sistema EPR in termini generali; esso sancisce che il produttore, ovvero qualsiasi persona fisica o giuridica, che fabbrica, sviluppa, tratta, commercializza o importa un qualche prodotto o bene che genere a sua volta rifiuti, può essere tenuto a provvedere o contribuire all’eventuale smaltimento dei rifiuti stessi. Non da ultimo, si invitano i produttori ad adottare tecniche e metodi di produzioni ecocompatibili, anzitutto allungando il più possibile la durata della vita dei beni venduti sul mercato, sviluppando sistemi di riparazione, riutilizzo e riciclaggio e, per concludere, incrementando meccanismi di raccolta degli scarti e dei rifiuti. Infine, viene menzionato anche il tema dei sistemi di responsabilità collettivi, ove i produttori hanno la facoltà di istituire delle eco-organizzazioni con lo scopo di adempiere agli obblighi imposti dalla normativa EPR, versando di conseguenza un corrispettivo finanziario[56].

Per quanto attiene all’EPR e il settore moda, merita di essere analizzato quanto disposto dall’articolo L 541-10-3 del Code de l’environnement, che ha stabilito l’obbligo per tutti i produttori e distributori di indumenti tessili – quindi, calzature, abbigliamento e biancheria in generale – di partecipare e/o provvedere al riciclaggio oppure allo smaltimento di quanto da loro prodotto[57]. La disposizione in commento attribuisce la facoltà ai produttori di adempiere agli obblighi legali individualmente – quindi creando dei singoli programmi di raccolta, previa autorizzazione delle competenti autorità – oppure versando una somma di denaro al consorzio accreditato[58]. A tal proposito, ogni anno i membri di queste organizzazioni collettive partecipano alla gestione e quindi alla raccolta dei rifiuti generati dai loro prodotti pagando un contributo che viene calcolato in base a quanto già sostenuto l’anno precedente. In particolare, le tariffe vengono quantificate in base al numero di unità di beni tessili venduti sul mercato, considerando le dimensioni di questi e, altresì, suddividendo sia l’abbigliamento in quattro diverse taglie – xs, s, m e l – sia le calzature in piccole e medie[59]. In merito, le tariffe partono da 0,1 centesimo sino a raggiungere i 2 euro[60], con una media, però, per ogni singolo articolo di 0,5 centesimi[61].

Dall’analisi delle aziende tessili francesi emerge che la maggior parte, ossia il 93%, ha deciso di riunirsi in un’unica organizzazione dal nome Eco Tcl, conosciuta anche come Re_Fashion[62], al fine di conformarsi con quanto previsto dalla normativa EPR, ovvero di prevenire e gestire gli scarti derivanti dai propri prodotti tessili.

Non da ultimo, la normativa vigente prevede anche dei premi: i produttori che danno prova di aver utilizzato tecniche e modelli sostenibili, per esempio impiegando tessuti riciclati[63], potranno divenire beneficiari di uno sconto variabile dal 25% al 50% qualora dimostrino di produrre abbigliamento composto da fibre e tessuti riciclati.

Successivamente, la Francia ha adottato alcune policies che possono essere definite lungimiranti, se confrontate con quelle di altri stati europei. Sul punto, nel 2020 il Parlamento ha approvato la legge contre le gaspillage et à l’économie circulaire[64] con l’obiettivo di modificare il modello di economia attuale, incentivando modelli di produzione e consumo volti a ridurre gli sprechi, in modo tale da perseguire uno sviluppo sociale e ambientale sostenibile. Questa normativa – oltre ad aver fissato nuovi obiettivi, ad esempio limiti temporali per eliminare l’utilizzo della plastica monouso – ha disposto obblighi informativi rivolti ai consumatori circa le caratteristiche ambientali dei prodotti e, infine, ha preso in analisi anche il tema dell’EPR disponendo il vincolo per i produttori di redigere dei piani quinquennali per la progettazione ecocompatibile dei propri prodotti affinché possano immettere sul mercato beni sempre più sostenibili[65].

5. Il comparto fashion appare essere uno dei settori trainanti per alcune economie mondiali – nonostante le perdite subite dalla pandemia da Covid-19 –. Tuttavia, la sua catena di produzione non può essere considerata sostenibile, sia dal lato sociale sia da quello ambientale.

La moda, intesa soprattutto come fenomeno sociale e, quindi, di massa, ha sviluppato un sistema produttivo sempre più veloce e insostenibile, dando origine a quel fenomeno di fast fashion, ormai criticato da più parti.

Sotto il profilo comparatistico dall’analisi emerge che il modello giuridico più attento a uno sviluppo green del comparto moda e, più in generale, dell’industria tessile sia proprio quello francese.

Ciò non dovrebbe stupire alla luce dell’importanza di questo settore per l’economia del paese appena citato. Il nostro legislatore potrebbe ben prendere spunto da questo modello al fine anche di adottare i decreti relativi all’EPR nel settore fashion, dando quindiluogo ad un legal trasnplant virtuoso in questo ambito. Solo così, la responsabilità estesa del produttore potrebbe divenire un efficace[66] fattore chiave per una moda sostenibile.


[1] In termini generali, il volume d’affari del settore in commento, a livello globale, è enorme, “miliardario”. Cfr. G.A. Antonini, L’organizzazione del business model nel settore moda tra la spinta “innovativa” e il “ritorno” alla tradizione, in N. Lanna (a cura di), Fashion Law. Diritti e prassi nell’industria della moda tra tradizione e innovazione, Milano, 2021, p. 2.

[2] Istat, Rapporto sulla competitività dei settori produttivi, Roma, 2022, reperibile al sito www.istat.it.

[3] Si vedano i dati certamente positivi elaborati dall’Eurostat (rintracciabili al sito www.ec.europa.eu.) e ripresi da numerosi quotidiani finanziari, tra cui Milano Finanza, www.milanofinanza.it.

[4] Tra i più significativi si analizzi il report denominato A New Textiles Economy: Redesigning Fashion’s Future. Ellen Macartur Foundation-Circular Fibres Initiative, A New Textiles Economy: Redesigning Fashion’s Future, www.ellenmacarthurfoundation.org.

[5] Il comparto analizzato, anzitutto, rappresenta uno dei settori industriali più grandi al mondo considerando, da un lato, le persone che vi operano giornalmente al suo interno e, dall’altro, la sua catena di produzione – estremamente frammentata – che, inevitabilmente, vede parteciparvi altrettanti settori industriali, per esempio quello agricolo, quello della logistica, oppure ancora quello chimico.

[6] Su cui infra, § 3.

[7] Infra, § 4.

[8] Sul punto, B. Pozzo, “Bello e ben fatto” – The Protection of Fashion “Made in Italy”, in FIU Law Review, 2021, p. 550.

[9] Idem.

[10] Per una più ampia panoramica sulla storia della seta si veda F. Battistini, L’industria della seta in Italia nell’età moderna, Bologna, 2003.

[11] P. Urbani, I vestiti nuovi del quasi granduca Cosimo III, in ZoneModa Journal, 2018, pp. 107 ss.

[12] Sulla storia della seta si confronti L.E. Miller, A. Cabrera Lafuente, C. Allen Johnstone, Seta. Fibre, tessuti e moda, Torino, 2021.

[13] Per una attenta disamina, I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. a cura di G. Vidari, Roma-Bari, 1969, pp. 134 ss.

[14] Cfr. A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, tr. it. a cura di A. Zanini, Roma, 1995, p. 83.

[15] Si veda George Simmel, La moda, tr. it. a cura di A.M. Curcio, Sesto San Giovanni, 2015, p. 19.

[16] Sul punto cfr. anche le considerazioni espresse da M. Pedroni, La moda come Lebensform nell’analisi di Georg Simmel, in C. Corradi, D. Pacelli, A. Santambrogio (a cura di), Simmel e la cultura moderna. Interpretare i fenomeni sociali, Perugia, 2010, p. 1. Appare interessante inoltre menzionare la teoria dei meme, c.d. memetica. Per approfondire J. West, The Selfish Meme: Dawkins, Peirce, Freud, in Semiotica, 2020, pp. 199 ss.; F. Nava La Corte, Generación de un constructo de narrativa memética desde la incidencia sociodigital, in Anuario Electrónico de Estudios en Comunicación Social Disertacione, 2022, pp. 1 ss.

[17] Sul punto, George Simmel, La moda, cit., p. 55.

[18] In merito, appare interessante ricordare – da un punto di vista prettamente sociologico – quanto affermato dal noto filosofo e sociologo tedesco M. Weber in tema di “costume”, il quale infatti lo intende come “il caso di un atteggiamento tipicamente uniforme che viene mantenuto nel solco della tradizione semplicemente in base alla sua abitudine e imitazione, cioè il caso di un agire di massa […]”. Cfr. R. Treves, Sociologia del diritto. Origini, ricerche e problemi, Torino, 2002, p. 148.

[19] Ad esempio, tra queste case di moda vi rientrano Gucci, Calvin Klein, Burberry e Bottega Veneta. Per una completa disamina sul punto, N. Akdemir, Deconstruction of Gender Stereotypes Through Fashion, in European Journal of Social Science, 2018.

[20] Nello specifico vi rientrano i nati dal 1995 al 2010. Sono proprio questi giovani consumatori che risultano anche più attenti alle esigenze ambientali e, di conseguenza, cercano di operare scelte d’acquisto più sostenibili, sia dal lato sociale sia da quello ambientale. Cfr. Report intitolato La sfida dei fashion brand tra sostenibilità e omnichannel presentato durante il Fashion Summit del 2019 e organizzato da Pambianco e Deutsche Bank, reperibile al sito www.eticanews.it.

[21] www.it.fashionnetwork.com.

[22] Cfr. B. Pozzo, Fashion between Inspiration and Appropiation, in R.E. Cerchia, B. Pozzo (a cura di), The New Frontiers of Fashion Law, Basilea, 2020, p. 2.

[23] Si veda M.C. Reale, Digital Market, Bloggers, and Trendsetters: The New World of Advertising Law, in Laws, 2019, p. 3.

[24] V. Jacometti, Diritto e moda sostenibile tra iniziative legislative e iniziative volontarie, in B. Pozzo, V. Jacometti (a cura di), Fashion Law. Le problematiche giuridiche della filiera della moda, Milano, 2016, p. 342.

[25] Si consulti il report dell’Agenzia Europea dell’Ambiente pubblicato a febbraio 2022. Agenzia Europea dell’Ambiente, Textiles and the environment: the role of design in Europe’s circular economy, Copenaghen, 2022.

[26] M.K. Brewer, Slow Fashion in a Fast Fashion World: Promoting Sustainability and Responsibility, in Laws, 2019, p. 2.

[27] Si pensi, per esempio, che nel Regno Unito ogni anno le tonnellate di capi di abbigliamento o, in generale, di prodotti tessili gettati e, quindi, non riutilizzati sono circa due milioni. Cfr. P. Crang, K. Brickell, et al., Discardscapes of fashion: commodity biography, patch geographies, and preconsumer garment waste in Cambodia, in Social & Cultural Geography, 2022, p. 543.

[28] Il ricordo va al drammatico crollo del Rana Plaza, avvenuto in Bangladesh nel 2013, dove ci furono più di mille vittime, le quali impiegavano la propria manodopera nella produzione di capi di abbigliamento di diversi brand. Si veda R.E. Cerchia, The Ethical Consumer and Codes of Ethics in the Fashion Industry, in Laws, 2019, p. 1. Questo evento ebbe un clamore internazionale, venendo ripreso da innumerevoli testate giornalistiche, tra cui il New York Times. Cfr. V. Bajaj, Bangladesh Fire Kills More Than 100 and Injures Many, in “The New York Times”, reperibile al sito www.nytimes.com.

[29] Sono proprio le donne a costituire la maggioranza della forza lavoro nel settore tessile. Cfr. International Labour Organization-International Finance Corporation, Progress and Potential: How Better Work is improving garment worker’s lives and boosting factory competitiveness. A summary of an independent assessment of the Better Work programme, ILO, Ginevra, 2016.

[30] Sullo sfruttamento dei lavoratori del mondo moda, cfr. C. Bonfiglioli, Il lato oscuro del Made in Europe. Industria della moda e sfruttamento, in Il Mulino, 2014, pp. 987 ss.

[31] G.P. Cachon, R. Swinney, The Value of Fast Fashion: Quick Response, Enhanced Design, and Strategic Consumer Behavior, in Management Science, 2011, pp. 778 ss.

[32] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, 11 dicembre 2019, Il Green Deal europeo, COM(2019)640 finale.

[33] Si veda la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo, e al Comitato delle Regioni, 30 marzo 2022, Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari, COM(2022)141 finale.

[34] Il fenomeno può essere inquadrato, ovviamente, come pubblicità ingannevole e di conseguenza vietato dall’art. 12 del d. lgs. n. 145 del 2007 e, nel caso più specifico ovvero di comunicazione ingannevole circa questioni ambientali, deve essere richiamato l’art. 12 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale elaborato dallo IAP. Cfr. Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, reperibile al sito www.iap.it. Per una completa disamina in merito all’autodisciplina nel settore della comunicazione commerciale si veda M.C. Reale, L’autodisciplina pubblicitaria in Italia. Teoria e prassi di un sistema normativo semiautonomo, Milano, 2022.

[35] Per una più ampia panoramica sul fenomeno in analisi, M.A. Delmas, V. Cuerel Burbano, The Drivers of Greenwashing, in California Management Review, 2011; H.C.B. Lee, J.M. Cruz, R. Shankar, Corporate Social Responsibility (CSR) Issues in Supply Chain Competition: Should Greenwashing Be Regulated?, in Decision Sciences, 2018; F. Palazzini, “Greenwashing” nelle comunicazioni pubblicitarie e la rilevanza come atto di concorrenza sleale, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 2021.

[36] Per esempio, limitando l’utilizzo di sostanze chimiche dannose o potenzialmente dannose sia per l’uomo che per l’ambiente.

[37] Il termine indica il “valore dei prodotti, dei materiali e delle risorse è mantenuto quanto più a lungo possibile e la produzione di rifiuti è ridotta al minimo”. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, 2 dicembre 2015, L’anello mancante-Piano d’azione dell’Unione Europea per l’economia circolare, COM(2015)614 finale.

[38] Si veda la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, 11 marzo 2020, Un nuovo piano d’azione per l’economia circolare: per un’Europa più pulita e più competitiva, COM(2020)98 finale.

[39] Cfr. T. Lindhqvist, Extended Producer Responsibility as a Strategy to Promote Cleaner Products, Lund: Department of Industrial Environmental Economics, Lund University, 1992.

[40] Per approfondire si consulti il sito OCSE, www.oecd.org.

[41] In merito, significa che i produttori versano un importo, per esempio al consorzio appositamente costituito (v. nota 44), il quale avrà il compito di far fronte alla raccolta e al trattamento dei rifiuti. In altre parole, i produttori si assumono la responsabilità anche finanziaria che il proprio bene immesso sul mercato, qualora non più utilizzato e quindi gettato, sia smaltito in maniera corretta. Nel caso in cui, invece, i produttori non si organizzino in consorzi i costi inerenti alla gestione dei rifiuti saranno sostenuti individualmente. 

[42] R.J. Lifset, Take it Back: Extended Producer Responsibility as a Form of Incentive-based Environmental Policy, in The Journal of Resource Management and Technology, 1993, pp. 163 ss.

[43] Sul tema, si veda K. Steenmans, R. Malcolm, J. Marriott, Commodification of Waste: Legal and Theoretical Approaches to Industrial Symbiosis as Part of a Circular Economy, in University of Oslo Faculty of Law Research Paper, 2017.

[44] Direttiva 75/442/CEE del Consiglio, 15 luglio 1975, relativa ai rifiuti, G.U. L 194/47.

[45] Cfr. Direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, G.U. L 312/3.

[46] Direttiva 2018/851 del Parlamento Europeo e del Consiglio, 30 maggio 2018, che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti, G.U. L 150/109.

[47] Si veda P. Azzurro, D. Berardi, et al., La responsabilità estesa del produttore (EPR): una riforma per favorire prevenzione e riciclo, in Laboratorio SPL Collana Ambiente, Ref.ricerche, 2019.

[48] Come in precedenza accennato, i singoli produttori possono decidere di affidare la gestione dei propri rifiuti derivanti dai loro prodotti ad altre organizzazioni, enti e/o società. Avviene, sovente, che i produttori si rivolgano ai consorzi, oppure ancora che li creino loro stessi, dando quindi origine alla Producer Responsibility Organisation, c.d. PRO. I consorzi, quindi, a fronte di un corrispettivo garantiscono che i propri membri adempiano agli obblighi imposti dalle normative EPR.

[49] V. Jacometti, Circular Economy and Waste in the Fashion Industry, in R.E. Cerchia, B. Pozzo (a cura di), The New Frontiers of Fashion Law, cit., p. 66.

[50] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo, e al Comitato delle Regioni, 30 marzo 2022, Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari, COM(2022)141 finale.

[51] Ministero della Transizione Ecologica, Strategia nazionale per l’economia circolare, Roma, 2022, p. 52.

[52] Tale normativa recepisce, inoltre, la Direttiva 2018/852. Cfr. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Decreto Legislativo 3 settembre 2020, n. 116, Attuazione della direttiva (UE) 2018/851 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti e attuazione della direttiva (UE) 2018/852 che modifica la direttiva 1994/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio.

[53] In generale, è lo stesso decreto legislativo del 2020 che, introducendo l’art. 178 ter all’interno del decreto legislativo n. 152 del 2006, chiarisce i requisiti minimi in materia di responsabilità estesa del produttore.

[54] Si consulti il sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, in particolare il cronoprogramma per l’attuazione delle misure previste dalla Strategia nazionale per l’economia circolare.

[55] La norma è stata inserita dall’art. 2, comma 3, del D. Lgs. 3 settembre 2020, n. 106.

[56] Per una disamina più approfondita si consulti l’intero articolo al sito www.legifrance.gouv.fr.

[57] Si veda V. Jacometti, Circular Economy and Waste in the Fashion Industry, in Laws, 2019, p. 11.

[58] Su cui supra, nota 42 e 47. Le modalità di organizzazione di questi consorzi, conosciuti anche come eco-organizzazioni, nonché talune indicazioni circa il riciclaggio dei prodotti tessili sono previste dal decreto n. 2008-602 del 25 giugno 2008. République Française, Légifrance, Décret n° 2008–602 du 25 juin 2008 relatif au recyclage et au traitement des déchets issus des produits textiles d’habillement, des chaussures ou du linge de maison neufs destinés aux ménage, rintracciabile al sito www.legigrance.gouv.fr.

[59] A. Buckhari, R. Carrasco-Gallego, E. Ponce-Cueto, Developing a national programme for textiles and clothing recovery, in Waste Management & Research, 2018, p. 324.

[60] S. Gambi, La responsabilità estesa del produttore per il settore moda: lo spreco si combatte per legge, in Solo Moda Sostenibile, 2020. www.solomodasostenibile.it.

[61] D. Palm, M. Elander, D. Watson, et al., Towards a Nordic textile strategy: collection, sorting, reuse and recycling of textiles, Copenaghen, 2014, p. 91.

[62] Per approfondire www.refashion.fr.

[63] L’art. in analisi così recita: “Les contributions financières versées par les producteurs qui remplissent collectivement les obligations mentionnées à l’article L. 541-10 sont modulées, lorsque cela est possible au regard des meilleures techniques disponibles, pour chaque produit ou groupe de produits similaires, en fonction de critères de performance environnementale, parmi lesquels la quantité de matière utilisée, l’incorporation de matière recyclée, l’emploi de ressources renouvelables gérées durablement, la durabilité, la réparabilité, les possibilités de réemploi ou de réutilisation, la recyclabilité, la visée publicitaire ou promotionnelle du produit, l’absence d’écotoxicité et la présence de substances dangereuses telles que définies par le décret prévu à l’article L. 541-9-1, en particulier lorsque celles-ci sont susceptibles de limiter la recyclabilité ou l’incorporation de matières recycles”. Cfr. République Française, Légifrance, Code de l’environnement, article L. 541-10-3,rintracciabile al sito www.legifrance.gouv.fr.

[64] Il termine indica una economia in loop, ossia quel modello produttivo che tende a creare beni durevoli nel tempo, quindi che siano poi riportati all’interno del ciclo produttivo allorquando non più utilizzati. Cfr.  S. Giorgi, M. Lavagna, A. Campioli, Economia circolare, gestione dei rifiuti e life cycle thinking: fondamenti, interpretazioni e analisi dello stato dell’arte, in Ingegneria dell’Ambiente, 2017, p. 265.  

[65] République Française, Légifrance, Loi n. 2020-105 du 10 février 2020 relative à la lutte contre le gaspillage et à l’économie circulaire. Reperibile al sito www.legifrance.gouv.fr.

[66] Sul punto, e in generale sull’efficacia, si consulti V. Ferrari, Lineamenti di sociologia del diritto. Azione giuridica e sistema normativo, Roma-Bari; Id, Prima lezione di sociologia del diritto, Roma-Bari, 2010.

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