Marta Cenini
Professoressa associata di diritto civile dell’Università degli Studi dell’Insubria
I progetti in ambito europeo e italiano dedicati alla digitalizzazione del patrimonio e del materiale culturale offrono lo spunto per una riflessione sulla teoria dei beni e il diritto d’autore.
The European and Italian projects on the digitalization of cultural heritage offer the starting point for a reflection on the theory of goods and copyright.
Sommario: 1. La digitalizzazione del patrimonio culturale. – 2. Digitalizzazione tra teoria dei beni e diritto d’autore. – Globalizzazione, digitalizzazione e identità culturale
1. Il titolo del contributo prende le mosse dalla serie di progetti in ambito sia europeo che italiano dedicati alla digitalizzazione del patrimonio e del materiale culturale.
Senza dubbio le iniziative sono molte ma vorrei ricordare brevemente qui che già più di 20 anni fa il Consiglio e poi la Commissione Europea avevano rilevato l’importanza della digitalizzazione e dell’accessibilità in rete del materiale culturale e la conservazione digitale dello stesso. Le istituzioni europee in particolare sottolineavano già all’epoca che tale processo appariva ineludibile dal momento che si era ormai in una “era digitale”; esso inoltre appariva già allora intrinsecamente democratico, in quanto consente a tutti di accedere alla cultura e alla conoscenza, promuovendo al contempo la ricchezza e la diversità del patrimonio culturale europeo[1].
Queste declamazioni hanno poi portato nel 2008 al lancio della piattaforma digitale Europeana per il patrimonio culturale europeo[2] mentre, più recentemente, l’Unione ha considerato anche il mondo delle imprese che ruotano intorno al settore dell’arte e della cultura, ove l’aspetto della digitalizzazione rimane centrale in particolare dal punto di vista dei nuovi beni e servizi che possono essere offerti[3].
Questa spinta ha avuto una ulteriore accelerazione con la pandemia ed è assai significativo che il 10 novembre 2021 la Commissione Europea abbia emanato la Raccomandazione (UE) 2021/1970 relativa alla creazione di uno spazio comune europeo di dati per il patrimonio culturale.
Questa Raccomandazione si basa e sostituisce quella del 2011 sulla digitalizzazione e accessibilità in rete dei materiali culturali e sulla conservazione digitale e appare di notevole interesse, dal momento che da una parte, si prefigge come scopo quello di “aprire la strada ad uno spazio comune europeo di dati per il patrimonio culturale” (cd. “spazio di dati”) al fine di aiutare gli istituti di tutela del patrimonio culturale ad accelerare i loro sforzi di digitalizzazione e conservazione e a cogliere le opportunità create dalla trasformazione digitale; dall’altra, traccia le linee guida per una strategia europea per la digitalizzazione avanzata e conservazione digitale del patrimonio culturale, fissando ambizioni obiettivi[4].
Nei Considerando, la Commissione rileva innanzitutto, quasi dandolo per scontato, che il patrimonio culturale è un elemento chiave per costruire una identità europea fondata su valori comuni[5]. Ciò invece scontato non è e, come si illustrerà nel terzo paragrafo di questo contributo, l’utilizzo del patrimonio culturale come mezzo per costruire una identità nazionale e, ora, europea, è una “tecnica” già ampiamente sperimentata in passato – da ultimo nell’Ottocento durante le restaurazioni – ma è un’operazione tutt’altro che neutra.
La Commissione delinea le potenzialità dell’utilizzo del digitale nell’ambito dell’arte e della cultura e descrive alcune funzioni, le quali oggi sono rese possibili anche, se non soprattutto, dallo sviluppo di tecnologie digitali avanzate quali la tecnologia 3D, l’intelligenza artificiale, l’apprendimento automatico, il cloud computing, le tecnologie dei dati, la realtà virtuale e la realtà aumentata. Grazie all’utilizzo di queste tecnologie, infatti, è stato possibile, anche durante la pandemia, raggiungere un pubblico persino più ampio di quello che già si raggiungeva[6] e permettere esperienze più immersive, come l’accesso virtuale a luoghi normalmente inaccessibili o temporaneamente chiusi proprio a causa delle restrizioni[7]; è stato così possibile condividere le collezioni d’arte dei musei e altri luoghi della cultura e organizzare “visite guidate” all’interno degli stessi.
Le nuove tecnologie e la digitalizzazione in 3D con il massimo livello di dettaglio hanno poi una fondamentale funzione per la conservazione e il restauro del patrimonio culturale a rischio di deterioramento o distruzione e possono anche stimolare l’azione per il clima e sostenere la transizione verso un’economia UE più verde e più sostenibile[8]; ancora, è possibile utilizzare queste tecnologie ai fini dell’identificazione automatica di beni culturali oggetto di traffico illecito[9].
E’ significativo inoltre che la Raccomandazione fornisca una definizione di “beni del patrimonio culturale” innovativa, dal momento che vi si ricomprendono i beni del patrimonio culturale materiale, i beni del patrimonio culturale immateriale, i beni del patrimonio naturale e infine quelli del patrimonio “nato digitale”[10]. Come vedremo nel prossimo paragrafo, queste definizioni, seppur non vincolanti, contribuiscono in maniera significativa a ridefinire il concetto di “bene” e dunque anche, indirettamente, le categorie della civilistica italiana ed europea.
Sul versante italiano, il recente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), il quale come noto, è il piano nazionale in cui si descrivono i progetti per la ripresa e la ripartenza dopo la pandemia al fine di poter accedere ai fondi europei del Next Generation EU, dedica ampio spazio (e ampi investimenti) alla digitalizzazione delle imprese, comprese le imprese nel settore culturale e artistico, e del patrimonio artistico[11]. È significativo a riguardo che tali investimenti rappresentano le principali voci della sezione dedicata al “Patrimonio culturale per la prossima generazione”: è chiaro che il Governo, così come la stessa Unione Europea, puntino su sostenibilità e digitalizzazione al fine di attuare quella trasformazione radicale della società e dell’economia necessaria per superare le sfide che ha posto la pandemia e quelle del prossimo millennio.
Il PNRR, tra i suoi obiettivi, si è posto anche quello di favorire la nascita di nuovi servizi culturali digitali e a creare un patrimonio digitale della cultura. Si promuoverà in particolare la digitalizzazione delle immagini delle opere d’arte ma anche di quanto custodito in archivi e biblioteche al fine di permettere un accesso universale al nostro immenso patrimonio artistico e culturale e di facilitarne la divulgazione. A questo riguardo è in progetto la creazione di una infrastruttura digitale nazionale e le risorse digitali saranno disponibili attraverso piattaforme dedicate[12].
2. Come accennavo nel precedente paragrafo, queste iniziative europee e, a cascata italiane, stimolano a guardare il fenomeno da un punto di vista più ampio e a collegarlo a due tematiche che il diritto sta affrontando da molto tempo: una, più tecnica, legata alla teoria dei beni e l’altra, più recente, collegata alla globalizzazione. Quest’ultimo aspetto, in particolare, va letto alla luce di quanto si accennava prima con riguardo alla funzione del patrimonio culturale di creare una identità europea.
Con riguardo alla teoria dei beni sia ammesso ricordare che da ormai molto tempo si è abbandonata una teoria dei beni cd. “fisicalista” che fondava gli assunti e le riflessioni sulla corporalità dei beni e sulla loro materialità; da un certo numero di anni, infatti, la dottrina più attenta ha rilevato che i beni ai sensi dell’art. 810 c.c. non sono solo le cose materiali suscettibili di appropriazione ma anche gli oggetti non corporali[13] nonché i beni immateriali[14].
Questo è forse ancora più vero proprio con riguardo ai beni culturali, ambito in cui già da almeno 20 anni si considera come oggetto di tutela anche il patrimonio culturale immateriale: si pensi in particolare alla Convenzione UNESCO del 2003 espressamente dedicata alla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, ove per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità̀, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale (cfr. articolo 1, comma 1, della Convenzione)[15]. Le definizioni legislative anche nazionali di beni culturali accolgono ora plurimi riferimenti agli aspetti immateriali dei beni culturali: si pensi al celebre riferimento, contenuto nell’attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, alle “testimonianze aventi valore di civiltà”[16]. La stessa Raccomandazione espressamente menziona, come si accennava supra, il patrimonio culturale immateriale, con questo intendendosi pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze, competenze – nonché strumenti, oggetti, artefatti e spazi culturali ad essi associati – che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come parte del loro patrimonio culturale ai sensi della Convenzione UNESCO sul patrimonio culturale immateriale.
Accanto a questo, l’immaterialità ora deve anche essere declinata nell’ “era digitale” che stiamo vivendo. Durante il convegno che ha dato l’occasione per la raccolta di questi contributi, si è parlato, forse per la prima volta, di “beni culturali nativi digitali” per sottolineare che soprattutto in campo artistico le opere possono nascere già digitali ma sono sicuramente “beni”; d’altra parte, come già accennato, la stessa Raccomandazione menziona proprio il “patrimonio nato digitale”, con questo intendendosi i beni creati in forma digitale quali l’arte o l’animazione digitale, i musei virtuali, senza in equivalente analogico, o i contenuti culturali creati al di fuori degli istituti di tutela del patrimonio culturale, come i social media o l’industria dei videogame.
La riflessione della dottrina inoltre ha chiarito da tempo che sebbene le parole “bene” e “cosa” siano assai diffuse nel nostro codice civile, è anche vero che appare più proficuo ragionare in termini di utilità che le cose generano e in termini di interessi (umani) che queste cose mirano a soddisfare[17]. Se i “beni” in questione sono anche “beni culturali” il tema è ancora più complesso dal momento che, come altrettanto ampiamente noto, sul bene culturale si appuntano una serie di interessi, pubblici e privati, a volte anche confliggenti[18]. Tra questi vi è senza dubbio l’interesse della collettività alla fruizione di tali beni e alla diffusione della loro conoscenza, nonché alla loro accessibilità (anche se sono di appartenenza privata).
Le iniziative sulla digitalizzazione pertanto confermano, e per certi versi avvalorano, la conclusione che per tutti i beni, e in particolare per i beni culturali, la materialità è una delle possibili componenti e le utilità che derivano dal possesso materiale sono una delle variegate utilità che si possono trarre dai beni, ma non sicuramente le uniche e forse nemmeno le più importanti.
Anche in un’ottica di sostenibilità, parola tanto in voga in questo periodo e richiamata nella stessa Raccomandazione, ragionare in termini di fruizione digitale e di godimento invece che di possesso, proprietà e appropriazione forse può essere la carta vincente[19]. Vale dunque la pena lasciare sullo sfondo il tema dell’appartenenza e dunque della proprietà, pubblica o privata che sia, per concentrarsi invece sull’individuazione di nuove utilità che si possono trarre dai beni e di nuove e differenziate forme di godimento di tali beni.
D’altra parte, non si può non collegare il tema della fruizione, anche digitale, dei beni e il tema della condivisione della conoscenza e del sempre più ampio accesso alle informazioni, alle immagini e a tutto quello che di materiale e immateriale ruota intorno all’opera, con quello della tutela dei diritti degli autori che hanno creato quei beni o le riproduzioni di quei beni (si pensi alle riproduzioni fotografiche delle opere d’arte o dei monumenti, che già di per sé possono ambire ad una tutela autoriale).
Come la stessa Raccomandazione[20] ricorda, una risposta è stata data dalla recente direttiva copyright[21] che prevede tra le “eccezioni” al diritto d’autore proprio le riproduzioni e utilizzi collegati alla conservazione del patrimonio culturale e artistico. La direttiva in particolare permette la digitalizzazione e la diffusione delle opere fuori commercio che gli istituti di tutela conservano nelle loro raccolte; è permesso inoltre in certe ipotesi realizzare copie ai fini di conservazione e per l’estrazione di testo e di dati ai fini di ricerca scientifica (si vedano gli articoli 6, 8 e 14).
Sicuramente anche in questo caso il civilista deve avere un approccio interdisciplinare e affrontare il tema anche dal punto di vista del diritto della proprietà intellettuale, oltre che dal punto di vista storico e europeo; sempre però considerando il bene culturale e artistico come un “bene”, seppur immateriale, e forse anche un bene ontologicamente diverso.
3. La digitalizzazione di cui stiamo discorrendo è il frutto della globalizzazione e per certi versi anche ciò che la alimenta. Per quanto riguarda la cultura e la conoscenza, infatti, attraverso la digitalizzazione è possibile rendere accessibile e fruibile ad enorme distanza di spazio materiali e dati che altrimenti rimarrebbero inaccessibili e in questo modo collegare “mondi” che altrimenti rimarrebbero isolati e sconosciuti[22]. D’altra parte, già all’epoca della Convenzione UNESCO del 2003, si paventava che i processi di globalizzazione possono anche creare pericoli di deterioramento, scomparsa e distruzione del patrimonio culturale immateriale proprio perché globalizzazione può anche significare cancellazione delle diversità e imposizione di un unico paradigma.
In questo contesto, è assai significativo che gli stessi progetti di digitalizzazione, come emerge dai documenti europei che li patrocinano, abbiano anche la funzione di creare una “identità culturale europea”, identità basata proprio sull’integrazione dei patrimoni culturali.
La stessa Raccomandazione (UE) 2021/1970, nel 4° considerando, espressamente afferma che “il patrimonio culturale … è … un elemento chiave per costruire una identità europea fondata su valori comuni” e lo stesso Consiglio, già nel 2012, aveva sottolineato come “la digitalizzazione e l’accessibilità in rete dei materiali culturali degli Stati membri e la loro conservazione digitale a lungo termine sono essenziali per consentire a tutti l’accesso alla cultura e alla conoscenza nell’era digitale e per promuovere la ricchezza e la diversità del patrimonio culturale europeo”.
La creazione di una identità nazionale attraverso la cultura e il patrimonio culturale e artistico è del resto una “tecnica” ampiamente sperimentata in varie epoche storiche e da ultimo durante le rivoluzioni settecentesche e le conseguenti restaurazioni: si pensi ad esempio a quanto ha fatto Napoleone per “costruire” l’identità nazionale francese – costruzione che si è attuata anche attraverso la spoliazione dei patrimoni artistici italiani[23] e, come si dirà, attraverso progetti per lo più scultorei – ed a quanto attuato da Ludwig I di Baviera il quale aveva anche la necessità di aggregare popoli e territori assai eterogenei, così come avviene oggi nel contesto europeo.
Durante la Rivoluzione francese, infatti, a fronte dell’impeto dei rivoluzionari che, se non fosse stato fermato, avrebbe portato alla distruzione di preziosi beni culturali simboli del passato (i celebri discorsi del presbitero e politico francese conosciuto come l’Abbé Gregoire[24] sono stati avviati dalla volontà dei rivoluzionari di distruggere le iscrizioni in latino apposte sui monumenti), si è affermata la necessità, e soprattutto teorizzata l’idea, di una “tutela” del patrimonio “culturale” per un interesse “nazionale”[25]. Tuttavia, non era ancora chiaro cosa si intendesse per “patrimonio culturale”, cosa significasse “nazione” o “stato” né tantomeno cosa significasse la parola “tutela” con riferimento ai beni culturali.
Sicuramente all’epoca era presente l’idea che l’opera d’arte andasse tutelata in quanto esteticamente “bella” (idea che poi ha portato all’ideologia estetizzante di metà Ottocento) ed era ancora minoritaria la convinzione, oggi invece prevalente, che la tutela e valorizzazione dei beni e del patrimonio culturale significasse anche, se non soprattutto, tutela della storia dei popoli e delle civiltà nonché dei manufatti che ne sono espressione nel luogo dove sono stati concepiti e creati; dall’altra parte, il “bello” e la “bellezza”, sebbene fossero presentati come canoni universali, erano in realtà strettamente collegati all’idea di arte delle elites dei funzionari e degli apparati statali e dunque coincidevano in sostanza con l’arte classica greco-romana[26] e rinascimentale[27].
Nell’ambito del concetto di “tutela” inoltre sicuramente era presente l’idea che l’arte dovesse essere innanzitutto sottratta a coloro che non erano in grado di preservarla e valorizzarla e dovesse essere portata in “dimore sicure”, ossia custodita in paesi considerati maggiormente “civilizzati”[28]; va tuttavia anche ricordato che nella base ideologica su cui poggia la nascita del museo in senso del moderno del Louvre, all’epoca chiamato Muséum central des arts de la République[29], così come, in Italia, nel progetto del secondo museo dell’impero, ossia la Pinacoteca di Brera per la capitale del Regno d’Italia, era sicuramente ben presente l’idea che le arti in tutte le loro forme avessero una funzione didattica ed educativa[30]. Strettamente collegato a questo, ha anche avuto un significativo impatto sui processi di costruzione di una identità nazionale la promozione di progetti, per lo più di natura scultorea, dedicati alla celebrazione degli uomini illustri nei vari campi del sapere[31].
L’utilizzo dell’arte e della cultura per la costruzione di una identità “nazionale” è forse ancora più evidente nel progetto di Ludwig I di Baviera di creazione del Walhalla, il quale va letto congiuntamente al complessivo piano artistico-culturale promosso dal sovrano. Questi progetti avevano l’indubbia funzione di legittimare, sia in ambito europeo sia al suo interno, un regno assai eterogeneo per tradizioni dinastiche, politiche e religiose. Oltre ai consueti tributi ai grandi personaggi della storia e della cultura dei popoli di lingua germanica, il sovrano ha dato un nuovo volto a Monaco di Baviera, novella Atene sull’Isar, e, appunto, ha patrocinato la costruzione e l’allestimento del Walhalla combinando i tre poli del suo piano identitario: il culto per l’arte classica, attraverso la citazione del Partenone e la collocazione dei marmi del tempio di Egina da lui acquistati; l’amore per la storia in funzione patriottica, attraverso i 96 busti ordinati cronologicamente all’interno; il sentimento cristiano[32].
Progressivamente si è abbondonata l’idea di una tutela dell’arte in quanto “bellezza”; oggi, come accennato, prevale infatti l’impostazione opposta che si fonda sulla necessità di tutela del bene in quanto “culturale” e per le sue valenze storiche, sociali e antropologiche oltreché artistiche[33]. Questo senza dubbio ha riflessi anche sul rapporto tra identità di un popolo e patrimonio culturale, tema recentemente tornato in voga con riferimento alle richieste di restituzioni dei beni culturali al momento all’estero da parte dei cd. “paesi d’origine”. In molti casi, la collocazione di questi beni nei grandi musei europei è collegata alle menzionate spoliazioni ottocentesche e ad altri celebri casi di sottrazione di beni ai paesi dove sono stati creati: si pensi ai celebri casi dei Marmi del Partenone attualmente al British Museum e più volte rivendicati dalla Grecia, e dei Bronzi del Benin, anch’essi richiesti a più riprese dal Niger sia alla Gran Bretagna che alla Francia, dove attualmente si trovano[34].
Il tema, come ovvio, è assai complesso e non può essere affrontato in un breve scritto. In questa sede, sia consentito solo sottolineare che la costruzione di una identità “europea” necessariamente passa attraverso i valori e la cultura – e dunque anche attraverso il patrimonio culturale – e i progetti di digitalizzazione, favorendo la diffusione di tali valori e patrimoni culturali materiali e immateriali, hanno un ruolo fondamentale in questo processo. L’iter, tuttavia, appare molto lungo e complesso perché, come anche le richieste di restituzione dimostrano, si sta assistendo anche ad un fenomeno contrario, che invece riporta al “locale”, persino all’interno degli stessi Stati Membri. La soluzione dunque, necessariamente, dovrà contemperare queste spinte divergenti e qualsiasi scelta, anche solo quella di digitalizzare e conservare certi “beni” e non altri, potrà avere un impatto molto significativo.
* Lo scritto è l’elaborazione della relazione tenuta durante il Convegno del 15 ottobre 2021 a Roma ma è anche il frutto delle discussioni con i colleghi e i relatori del ciclo di incontri dottorali I Martedì dell’arte. Ringrazio in particolare la prof.ssa Barbara Pozzo, coordinatore del dottorato in Diritto e Scienze Umane dell’Università dell’Insubria che ospita il ciclo, i professori Andrea Spiriti e Geo Magri con cui condivido la direzione scientifica degli incontri, e la prof.ssa Laura Facchin che mi ha dato preziosi spunti per arricchire il presente contributo.
[1] Conclusioni del Consiglio sulla digitalizzazione e sull’accessibilità online del materiale culturale e sulla conservazione digitale (GU C 297, 7.12.2006, pag. 1-5); Raccomandazione 2011/711/UE della Commissione del 27 ottobre 2011, sulla digitalizzazione e accessibilità in rete dei materiali culturali e sulla conservazione digitale (GU L 283, 29.10.2011, pag. 39-45) e Conclusioni del Consiglio del 10 maggio 2012 in merito alla digitalizzazione e accessibilità in rete del materiale culturale, nonché alla conservazione digitale dello stesso (GU C 169, 15.6.2012). Si vedano inoltre: Conclusioni del Consiglio del 10 maggio 2010 su Europeana: le prossime tappe (GU C 137, 27.5.2010, pag. 19-21); Dichiarazione di cooperazione per la digitalizzazione del patrimonio culturale del 9 aprile 2019.
[2] https://www.europeana.eu/it Attualmente Europeana dà accesso a 52 milioni di beni del patrimonio culturale, il 45% dei quali può essere riutilizzato in vari settori. Cfr. 17°, 18°, 19° e 20° Considerando della Raccomandazione (UE) 2021/1970 della Commissione del 10 novembre 2021.
[3] L’Unione già da tempo considera anche le imprese culturali e creative (ICC) e a riguardo la Proposta di Risoluzione del Parlamento Europeo del 2016 prevedeva un capitolo espressamente dedicato alla digitalizzazione (v. 2016/2072(INI). https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-8-2016-0357_IT.html. Più recentemente, come vedremo nel prossimo capoverso, la Raccomandazione (UE) 2021/1970 della Commissione al 4° considerando afferma che “Il patrimonio culturale non solo un elemento chiave per costruire un’identità europea fondata su valori comuni ma apporta anche un’importante contributi all’economia europea, promuovendo l’innovazione, la creatività e la crescita economica. […] Le industrie culturali e creative rappresentano il 3,95% (477 miliardi di EUR) del valore aggiunto dell’UE, danno lavoro a 8,02 milioni di persone e coinvolgono 1,2 milioni di imprese, per il 99,9% PMI”.
[4] Si prevede che entro il 2030 gli Stati Membri dovrebbero digitalizzare in 3D tutti i monumenti e i siti del patrimonio culturale a rischio e il 50% dei monumenti, edifici, siti culturali e del patrimonio culturale più visitati fisicamente. Entro il 2025, gli Stati Membri dovrebbero digitalizzare il 40% degli obiettivi globali per il 2030.
[5] Cfr. 4° Considerando.
[6] Cfr. 3° Considerando.
[7] In futuro, l’utilizzo delle nuove tecnologie permetterà anche di realizzare obiettivi di inclusione con riferimento anche ad esempio alle persone con disabilità: cfr. 11° Considerando.
[8] Cfr. 9° Considerando. I beni del patrimonio culturale digitalizzati possono essere una fonte di conoscenze rilevanti sull’impatti climatici e sull’adattamento e la resilienza ai cambiamenti climatici.
[9] La Raccomandazione distingue nettamente il tema dell’accesso ai beni del patrimonio culturale da quello del “riutilizzo”: la riutilizzazione è possibile, ad esempio, per la creazione e l’offerta di servizi e prodotti innovativi e creativi in vari settori, compreso il turismo (cfr. 1° considerando) oppure per la tutela e conservazione del patrimonio culturale a rischio (cfr. 10° considerando).
[10] Cfr. Raccomandazione, Capo I, Definizioni, comma 3.
[11] Sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e sulle disposizioni riguardante il patrimonio culturale, ci si permette di rimandare a M. Cenini, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per la Cultura e lo Spettacolo: nuove opportunità (e occasioni perse) per le imprese culturali, in Rivista di diritto delle arti e dello spettacolo, 2021. La stessa Raccomandazione del 2021 puntualizza che per attuare la strategia sulla digitalizzazione del patrimonio culturale sono necessari ampi investimenti e risorse e tra queste ci sono anche quelle previste dal dispositivo per la ripresa e resilienza che ha permesso, a livello europeo, l’accesso ai fondi del Next Generation EU: cfr. 13° e 14° Considerando.
[12] Il PNRR inoltre sosterrà la creazione di nuovi contenuti culturali e lo sviluppo di servizi digitali ad alto valore aggiunto da parte di imprese culturali/creative e start-up innovative, con l’obiettivo finale di stimolare un’economia basata sulla circolazione della conoscenza.
[13] Si veda, per tutti, A. Gambaro, La proprietà, Beni, proprietà, possesso, in Trattato Iudica – Zatti, Milano, Giuffrè, 2017, in particolare pp. 53 ss. E p. 57 secondo cui “In definitiva, sia l’interpretazione storica che quella sistematica sono convergenti nell’indicare che la nozione di bene di cui al libro terzo del codice civile diverge dalla nozione di cosa corporale perché un bene suscettibile di appartenenza può essere anche un oggetto non corporale”
[14] A. Gambaro, I beni, in Trattato Cicu Messineo, Milano, Giuffrè, 2012, pp. 1 ss. e pp. 170-171. L’Autore a riguardo sottolinea che mentre è ormai superata la distinzione tra beni materiali e immateriali dal punto di vista della teoria generale, questa distinzione continua ad avere rilevanza in connessione con l’ammissibilità di concepire il possesso di beni non materiali. A riguardo infatti il possesso di diritti è considerato inammissibile nel nostro ordinamento.
[15] Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, Convenzione UNESCO siglata a Parigi il 17 ottobre 2003.
[16] Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, dove l’Art. 2 recita: Patrimonio culturale. 1. Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici. 2. Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. 3. Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge. 4. I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela”. Questa espressione era già presente durante i lavori della Commissione Franceschini istituita con l. 26 aprile 1964, n. 310 con lo scopo di analizzare la legislazione in materia di tutela del patrimonio culturale. La dichiarazione n. 1, infatti, afferma che “appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà”.
[17] A. Gambaro, I Beni, in Trattato Cicu-Messineo, p. 11; Id., La proprietà, in Trattato Iudica – Zatti, p. 90.
[18] La proprietà del bene culturale è una proprietà conformata dal legislatore al fine di tutelare una molteplicità di interessi, pubblici e privati. Tali interessi spaziano dall’interesse del proprietario alla fruizione del proprio bene all’interesse della collettività all’accesso ai medesimi beni; dall’interesse attuale alla fruizione e valorizzazione dei beni all’interesse delle generazioni future; fino all’interesse dell’autore dell’opera d’arte, il quale vanta un diritto temporaneo allo sfruttamento delle sue opere nonché un diritto alla valorizzazione e conservazione della propria opera.
[19] La stessa Raccomandazione, al 9° considerando, sottolinea che le tecnologie e la digitalizzazione posso essere uno strumento per sostenere la transizione verso un’economia UE più verde e più sostenibile, come stabilito nel Green Deal europeo.
[20] Si veda il 16° Considerando.
[21] Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019, sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE. Si vedano in particolare gli l’art. 6, Conservazione del patrimonio culturale; l’art. 8, Utilizzo di opere fuori commercio e di altri materiali da parte di istituti di tutela del patrimonio culturale; l’art. 14, Opere delle arti visive di dominio pubblico.
[22] La letteratura in tema di globalizzazione è oramai immensa e non è possibile darne conto in questa sede. Per uno sguardo ad ampio raggio, si ci permette di ricordare solamente gli scritti di Ulrich Bech: in particolare U. Beck, Che cos’è la globalizzazione: Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, ed. it. 2009 (1° edizione originale 1997); Id., La crisi dell’Europa, Bologna, Il Mulino, 2012. Anche il tema della globalizzazione e dei suoi rapporti con il diritto è oggetto di feconda letteratura. Si vedano in particolare: M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, 2000; Id., Prima lezione di diritto globale, Roma-Bari, 2009; S. Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino, 2009; F. Galgano, Il diritto nello specchio della globalizzazione, Bologna, 2006; Id., Lex mercatoria, Bologna, 2010; P. Grossi, Globalizzazione e pluralismo giuridico, in Quad. fior., 2000, pp. 551; Id., Pagina introduttiva, in Quad. fior., 2000; Id., Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Foro it., 2002, c. 151 ss.; D. di Micco, Regolare la globalizzazione. Contributo giuridico-comparante all’analisi del fenomeno globale, Giuffrè, 2018. Con riferimento alla pandemia e per ulteriore bibliografia ci si permette di rimandare a M. Cenini, Sopravvenienze, globalizzazione, sostenibilità: riflessioni a margine di due scritti di Giuseppe Vettori, in Persona e Mercato, 2021.
[23] Per “spoliazioni napoleoniche” si intende la serie di sottrazione di opere d’arte attuate dall’esercito francese in Italia, Spagna, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio e altri stati dell’Europa centrale in un periodo che va dal 1797 fino al Congresso di Vienna nel 1815. Per una analisi del ruolo identitario delle requisizioni si veda: D. Mengozzi, Bellezza e coscienza nazionale dalle requisizioni napoleoniche al “furto” della Gioconda, in La nazione allo specchio: il bene culturale nell’Italia unita, 1861-2011, a cura di Andrea Ragusa, Manduria, Lacaita, 2012, pp. 121-153. Ringrazio la prof.ssa Laura Facchin per la segnalazione del volume.
[24] In proposito, ci si permette di rimandare a M. Cenini, Inalienabilità del bene culturale tra valori estetici e identità collettiva, in Cultura giuridica e diritto vivente, 2021.
[25] Si veda in particolare J. L. Sax, Heritage Preservation as a Public Duty: The Abbe´ Gregoire and the Origins of an Idea, cit., pp. 1142 – 1169. Henri Grégoire conosciuto come l’Abbè Grégoire, era un presbitero e un membro del governo rivoluzionario durante il periodo del Terrore. Come si menziona nel testo, gli fu chiesto di fornire una relazione sulla necessità o meno di distruggere tutte le iscrizioni in latino apposte sui monumenti. Quello fu il primo di una lunga serie di relazioni e discorsi in cui Grégoire pose il tema della tutela del patrimonio culturale e degli interessi pubblicistici che insistono su tali beni.
[26] Con riguardo alle spoliazioni napoleoniche, è celebre il progetto del generale Pommereul di portare la Colonna Traiana in Francia.
[27] Un altro “obiettivo” degli ufficiali francesi era di riuscire a distaccare gli affreschi di Raffaello nelle Stanze Vaticane.
[28] Con riferimento alla Francia, si veda questa petizione degli artisti francesi al Direttorio del 1797: “La Repubblica francese, con la sua forza e la superiorità del lume e dei suoi artisti, è l’unico paese al mondo che può dare una dimora sicura a questi capolavori [id est, i capolavori oggetto delle spoliazioni napoleoniche]”. Lo stesso argomento è stato utilizzato da Lord Elgin per giustificare l’asportazione dei Marmi del Partenone e la loro collocazione a Londra al British Museum.
[29] Il Palazzo del Louvre è in realtà il frutto di una serie di costruzioni e ricostruzioni dell’edificio fin dall’epoca medioevale. Durante la Rivoluzione francese, il palazzo del Louvre ha assunto la funzione di raccolta delle arti e, come si accenna nel prosieguo del testo, una funzione didattico-educativa. Il Museo fu inaugurato il 10 agosto 1793 e prese il nome di Muséum central des arts de la République nel novembre dello stesso anno.
[30] La funzione didattica ed educativa del Museo si sposava all’epoca con il piano di riforma dell’educazione promosso dal governo francese. In tema si vedano: E. Hooper-Greenhill, I musei e la formazione del sapere: le radici storiche, le pratiche del presente, tr. it. di G. Bernardi, Il Saggiatore, Milano, 2005; K. Schubert, Museo. Storia di un’idea: dalla rivoluzione francese a oggi, tr. it. di M. Gregorio, Il Saggiatore, Milano, 2004. Sulla tesi, ormai in parte superata, dei furti d’arte per creare il Louvre rimane un classico P. Weshcer, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre. Sulla Pinacoteca di Brera, si veda: S. Sicoli (cur.), Milano 1809. La Pinacoteca di Brera e i musei in età napoleonica, Milano, 2010. Ringrazio la professoressa Laura Facchin per avermi gentilmente segnalato la bibliografia riportata.
[31] Anche per questo spunto di riflessione ringrazio la prof.ssa Facchin. Sul tema di vedano in particolare: L. Facchin, Il mausoleo delle glorie nazionali: Italia ed Europa a confronto dalla fine del XVIII secolo alle soglie della Grande Guerra, in atto del convegno cura da Zucca, La paura del “Leviatano” europeo: globalizzazione, euroscetticismo e crisi della democrazia, pubblicazione nell’ambito del progetto Jean Monnet Chair “No Fear 4 Europe”.
[32] Su tema si rimanda a L. Facchin, Il mausoleo delle glorie nazionali, cit., p. 101-102.
[33] Si veda anche la Convenzione UNESCO concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali, conclusa a Parigi il 14 novembre 1970, definisce all’articolo 1 i beni culturali come quei beni che “a titolo religioso o profano, sono designati da ciascuno Stato come importanti per l’archeologia, la preistoria, la storia, la letteratura, l’arte o la scienza e che appartengono alle categorie indicate qui di seguito” (segue elenco). Oltre alla definizione di bene culturale, è rilevante lo scopo stesso della Convenzione, che è quello di facilitare il rientro dei beni culturali nei luoghi in cui sono stati prodotti.
[34] Sul fenomeno del cd. deacessioning riferito ai casi di richiesta di ritorno dei beni culturali attualmente all’estero, ci si permette di rimandare nuovamente a M. Cenini, Inalienabilità del bene culturale tra valori estetici e identità collettiva, in Cultura giuridica e diritto vivente, 2021.