Geo Magri
Ricercatore di diritto privato dell’Università degli Studi dell’Insubria
Il contributo affronta il tema della falsa o erronea attribuzione di opera d’arte, soffermandosi sui rimedi a tutela dell’acquirente.
The essay addresses the issue of false or erroneous attribution of an artwork, focusing on the remedies for protecting the buyer.
Sommario: 1. Definizione dell’ambito della ricerca; – 2. Il commercio di “cose” antiche e usate; – 2.1. L’attestato di autenticità e di provenienza; – 3. Contratto e autenticità; – 3.1 Le statue di Jacopo della Quercia; – 3.2 Gli altri rimedi contrattuali; – 3.2.1 La garanzia di autenticità; – 3.2.2 La presupposizione; – 3.5 L’expertise errato; – 3.6 L’errore del venditore sulle qualità del bene compravenduto; – 3.6.1 Gli sleepers; – 3.7 L’opera falsa; – 4. La prescrizione; – 5. Conclusioni
1. Il problema della falsa o erronea attribuzione di un’opera d’arte può presentarsi in due possibili varianti: la prima si ha quando il venditore dichiara che l’opera è di un artista di fama, mentre poi si scopre essere il lavoro di uno sconosciuto, di un imitatore, o, al più, quello della cerchia dell’autore al quale era invece attribuita. La seconda, invece, si ha quando è l’acquirente a riconoscere il pregio di un’opera che il venditore sottovaluta. L’ipotesi più frequente è quella del privato che vende al professionista un’opera che possiede ma della quale ignora il valore; tuttavia può accadere che anche il venditore professionista metta in vendita un’opera senza riconoscerne l’effettivo pregio. Quest’ultimo fenomeno ha la sua massima espressione nel caso degli sleepers, ossia quelle opere realizzate da un autore noto, che non circolano da tempo sul mercato, e che non sono attribuite, da chi le vende, all’artista che le ha realizzate; nonostante il mancato riconoscimento da parte dell’alienante, però, un acquirente particolarmente competente riconosce la mano del vero autore e acquista il bene. Un esempio di sleeper è l’Ecce Homo, attribuito a un autore anonimo e presentato in asta in Spagna, con una base d’asta di soli 1500 euro, per poi essere ritirato quando si è ventilata una più illustre attribuzione a Caravaggio[1]. Affinché si possa parlare di un’opera d’arte dormiente occorre che si tratti di un bene venduto in asta e attribuito ufficialmente, dal catalogo pubblicato, ad autore errato o sconosciuto e proposto per un prezzo decisamente inferiore a quello che il bene avrebbe se l’autore fosse stato riconosciuto correttamente[2].
Si potrebbe ritenere che le problematiche concernenti l’attribuzione riguardino principalmente le opere realizzate da un autore non più vivente, tuttavia non deve essere escluso aprioristicamente che si pongano anche con riguardo ad artisti ancora in vita, sebbene, in questo caso, sia (almeno teoricamente[3]) più facile addivenire a una soluzione certa e definitiva dell’eventuale disputa sull’autenticità rivolgendosi direttamente all’autore.
Evidentemente l’erronea attribuzione dell’opera incide sul suo valore, riducendolo, quando è smentita, o aumentandolo quando si scopre che l’opera di autore inizialmente sconosciuto è in realtà di un artista apprezzato dal mercato. Ci si deve quindi chiedere se, e a quali condizioni, essa esplichi degli effetti sul contratto di compravendita e quali siano gli effetti e i rimedi dei quali le parti possono beneficiare per eliminare un contratto per il quale non hanno più interesse. Proprio questi aspetti verranno indagati nelle prossime pagine.
2. Il Codice dei beni culturali dedica la Sezione III (art. 63 ss.) del Capo IV (Circolazione in ambito nazionale) all’attività di commercio di cose antiche o di cose usate. Le disposizioni del Codice sono poi integrate dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
A norma dell’articolo 63, comma 1° C.b.c., chi esercita il commercio delle cose antiche o usate, indicate nell’allegato A del Codice[4], è tenuto a trasmettere all’autorità locale di pubblica sicurezza una dichiarazione preventiva di esercizio dell’attività. L’autorità di pubblica sicurezza è tenuta a inviare copia di tale dichiarazione alla Soprintendenza e alla Regione nella quale l’attività è esercitata. Nella dichiarazione, a norma dell’art. 242 t.u.l.p.s., devono essere indicati: la sede dell’esercizio, la specie del commercio effettuato, precisando se si tratti di commercio di oggetti aventi valore storico od artistico oppure di commercio di oggetti usati di nessun pregio.
Una volta effettuata la dichiarazione ed eseguita l’iscrizione alla Camera di commercio, l’esercente può iniziare liberamente a svolgere la propria attività, senza alcun ulteriore permesso, essendo stata abrogata la disposizione che prevedeva l’obbligo di ottenere l’autorizzazione del Sindaco del Comune interessato[5].
L’unico obbligo di rilievo previsto a carico del commerciante è quello di tenere il registro delle transazioni previsto dall’art. 63, 2° comma, del Codice. In forza di tale previsione, chi fa commercio di cose antiche o usate è tenuto ad annotare quotidianamente le operazioni eseguite in un apposito registro (cfr. art. 128 comma 2 t.u.l.p.s.), descrivendo le caratteristiche delle cose vendute[6] e indicando le generalità del venditore e dell’acquirente. Il registro deve essere tenuto in formato elettronico, utilizzando un programma che consenta la consultazione in tempo reale alla Soprintendenza. Il registro è diviso in due elenchi: il primo, relativo alle cose per le quali occorre la presentazione all’ufficio di esportazione; il secondo, invece, si riferisce alle cose per le quali l’attestato è rilasciato in modalità informatica, senza necessità di presentazione all’ufficio di esportazione (salva la facoltà del soprintendente di richiedere che le cose indicate gli siano comunque presentate per un esame diretto). La regolare tenuta del registro è verificata dalla Soprintendenza attraverso ispezioni periodiche, che possono essere effettuate anche a mezzo dei carabinieri preposti alla tutela del patrimonio culturale. Il verbale dell’ispezione deve essere notificato all’interessato e alla locale autorità di pubblica sicurezza (art. 63 c. 3 C.b.c.).
L’elencazione delle cose indicate nell’allegato A è assai eterogenea: si va dai reperti archeologici agli incunaboli, dalle carte geografiche ai mezzi di trasporto aventi più di settantacinque anni, dalle litografie originali ai mosaici; insomma, essa ricomprende ogni sorta di cosa mobile che, pur rivestendo un interesse latamente culturale, non necessariamente è anche assoggettabile ai vincoli culturali e alle conseguenti restrizioni al commercio previste dalla legislazione in materia[7]. Si deve evidenziare che, ai fini dell’obbligo di registrazione, non ha alcuna rilevanza il valore venale del bene; ciò comporta che anche le cose dal valore irrisorio devono essere registrate, qualora rientrino in una delle categorie previste dall’allegato[8]. Sono invece escluse dall’obbligo di registrazione le opere di arte contemporanea[9].
Se la funzione del registro è quella di assicurare la possibilità di un controllo da parte delle Soprintendenze sulla circolazione delle cose di interesse artistico, in modo da garantire una capillare supervisione delle transazioni aventi ad oggetto beni dal potenziale interesse culturale, occorre evidenziare che tale registro è molto differente dalla pubblicità mobiliare di cui all’art. 815 c.c. La registrazione, infatti, è rimessa alla “buona volontà” del commerciante e non è garantita da un soggetto pubblico. Ciò comporta, evidentemente, l’inapplicabilità, anche in via analogica, dell’art. 1156 c.c. ai beni che vengono registrati in forza dell’art. 63 comma 2 C.b.c.[10]. Occorre peraltro rilevare che, all’atto pratico, l’obbligo di registrazione previsto dal Codice è frequentemente disatteso, sicché, molti dei beni la cui circolazione dovrebbe essere annotata vengono trasferiti senza lasciare alcuna traccia.
L’art. 63 comma 4 introduce un ulteriore obbligo a carico di coloro che esercitino il commercio di documenti, siano titolari di case di vendita o siano pubblici ufficiali preposti alle vendite mobiliari: si tratta dell’obbligo di comunicare alla Soprintendenza l’elenco dei documenti di interesse storico posti in vendita. L’obbligo è previsto anche a carico dei privati che siano proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, «di archivi che acquisiscano documenti aventi il medesimo interesse». Tale denuncia deve essere effettuata entro novanta giorni dall’acquisizione e, nei novanta giorni successivi, la Soprintendenza può avviare il procedimento di cui all’articolo 13, se ritiene che i documenti siano di interesse tale da giustificare l’apposizione di un vincolo culturale. La norma ha l’evidente scopo di favorire la scoperta dei documenti dotati di particolare interesse per la collettività, in modo che ne possa essere assicurata la conoscenza e il controllo pubblico sulla loro conservazione. Tale finalità è ulteriormente confermata dal successivo comma 5, in forza del quale: «Il soprintendente può comunque accertare d’ufficio l’esistenza di archivi o di singoli documenti dei quali siano proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, i privati e di cui sia presumibile l’interesse storico particolarmente importante»[11].
2.1 Al fine di tutelare l’acquirente e la trasparenza del mercato, il Codice prevede, all’art. 64, l’obbligo, in capo a chi esercita «l’attività di vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita di opere di pittura, di scultura, di grafica ovvero di oggetti d’antichità o di interesse storico od archeologico, o comunque abitualmente vende le opere o gli oggetti medesimi», di consegnare all’acquirente la documentazione che attesti l’autenticità (o la probabile attribuzione) e la provenienza delle opere commerciate. L’obbligo si assolve con la consegna di un documento scritto nel quale il venditore dichiara tutte le informazioni che possiede (o che è in grado di desumere) sul bene che vende, ovviamente il commerciante deve anche dichiarare il grado di certezza delle informazioni che comunica.
La norma si rivolge a una platea di esercenti assai vasta e variegata, che ricomprende gli antiquari, i mercanti d’arte, i galleristi, ma anche i semplici rivenditori nei mercatini, i quali, spesso, non hanno le conoscenze o le capacità necessarie per assolvere a tale obbligo. Si ritiene che la previsione sia applicabile anche alle opere d’arte contemporanea[12], per le quali, però, come si è detto, non è previsto l’obbligo di registrazione ai sensi dell’art. 63 C.b.c.[13].
Il certificato rilasciato dal commerciante è comunemente detto expertise (anche se per le opere d’arte contemporanea si parla più spesso di autentica) e può anche essere realizzato da un soggetto terzo rispetto al venditore, generalmente uno storico dell’arte o un esperto del settore al quale il bene è riconducibile. Non esistendo alcun albo o registro degli esperti d’arte, chiunque può esprimere un parere; evidentemente, però, il peso dell’expertise sarà corrispondente alla credibilità professionale di chi lo ha rilasciato. È appena il caso di precisare che se l’opera è di un artista ancora vivente sarebbe opportuno, per una massima tutela dell’acquirente, che l’autentica fosse firmata direttamente dall’artista.
Il tema delle autentiche è uno degli aspetti più delicati del mercato dell’arte[14]: in assenza di regole precise, generalmente, alla morte dell’artista, l’autenticità delle sue opere è rimessa ai suoi discendenti, i quali, però, possono avere interesse a riconoscere come autentiche opere che in realtà non lo sono o a negare la paternità di opere autentiche, al solo fine di far crescere il valore di mercato di quelle esistenti e che sono in loro possesso; inoltre, anche per gli esperti, peraltro, non sempre è possibile affermare con assoluta certezza che l’opera sia frutto del lavoro di un determinato artista, quindi il rischio di autentiche che vengono smentite nel corso del tempo è concreto. Il quadro risulta ancora più complesse con riguardo alle opere antiche, le quali erano generalmente frutto del lavoro di un artista e della sua bottega: l’artista realizzava i particolari più difficili e importanti (ad es. volti e mani delle figure principali), mentre alla bottega competeva il completamento dell’opera[15].
Nel caso in cui l’autentica si riveli errata si pone il problema della responsabilità del soggetto autenticante. In proposito un precedente del Tribunale di Milano ha ritenuto «arrecato non iure il danno cagionato dal parere circa la datazione di un’opera d’arte emesso dalla fondazione dedicata all’autore dell’opera», ne consegue l’applicabilità dell’art. 2043 c.c. e la possibilità, per il soggetto danneggiato, di far valere la sua pretesa risarcitoria. Secondo la corte meneghina «l’ente deve essere ritenuto responsabile in via extracontrattuale» qualora, formulando un parere errato, abbia cagionato un danno a terzi. La responsabilità extracontrattuale di chi autentica sussiste, secondo la sentenza citata, anche nel caso in cui la condotta sia stata colposa, ossia qualora il parere non sia «motivato, prudente, fondato su dati scientifici e su adeguate competenze professionali»[16]. La tesi sostenuta dal tribunale di Milano, che può essere estesa anche all’errata attribuzione, non è accolta in modo pacifico[17] e appare preferibile seguire l’opinione di chi limita la responsabilità dell’autenticatore ai soli casi di dolo o colpa grave[18], vista la difficoltà oggettiva che può riscontrarsi nel processo di autenticazione e la discrezionalità che tale giudizio comporta.
Non va poi sottaciuto il fatto che il mercato del falso ha, da sempre[19], una rilevanza non secondaria; secondo il rapporto del Nucleo tutela del patrimonio culturale dei Carabinieri, nel 2021, sono state sequestrate ben 1748 opere false, per un valore stimato di oltre 429 milioni di euro. Tra i beni sequestrati 1293 opere erano di arte contemporanea, la quale continua a rappresentare il settore per il quale la criminalità ha il maggiore interesse[20], mentre 370 opere sono di antiquariato, compreso quello archivistico e librario e 85 archeologiche.
Anche per questo motivo la funzione dell’attestato previsto dall’art. 64 C.b.c. appare di indubbia rilevanza e ciò per una duplice ragione: da un lato assicura l’acquirente della qualità dell’oggetto acquistato (attestato di autenticità), garantendo la liceità della sua provenienza (attestato di provenienza)[21] e, dall’altro responsabilizza il venditore, imponendogli di offrire un’informazione trasparente sulle condizioni dell’acquisto[22].
Sicuramente criticabile appare il fatto che l’art. 64 C.b.c. non preveda una sanzione nei confronti del venditore che non rilasci l’attestato, quasi che il legislatore non avesse inteso introdurre un serio obbligo a carico del professionista. L’assenza di una sanzione pubblicistica sembra però rimediabile sul piano privatistico: l’acquirente, di fronte a un venditore che si rifiuti di adempiere all’obbligo di consegnare l’expertise, lo può “sanzionare” non comprando il bene o rifiutandosi di comprarlo al prezzo richiesto. In dottrina, peraltro, si è osservato che la violazione dell’obbligo previsto dall’art. 64 C.b.c. sarebbe sanzionabile anche in base all’art. 164 che commina la nullità di tutte le transazioni che siano avvenute senza l’osservanza delle condizioni e delle modalità previste dal Codice[23]. Una tesi meno estrema ritiene, invece, che la sanzione debba essere ricercata nei rimedi generali del diritto civile e, quindi, nella disciplina dell’inadempimento, con conseguente possibilità di richiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno[24]. Questa seconda opinione appare la più condivisibile: la generale previsione della nullità contemplata dall’art. 164 C.b.c., infatti, sembra volta a sanzionare l’inosservanza delle disposizioni legislative che contrastano con gli interessi di tutela dello Stato, non la violazione delle disposizioni che introducono un obbligo a favore di un contraente. Una tale ricostruzione, del resto, sembra trovare conferma nella stessa ratio della disciplina della nullità, che, essendo il rimedio invalidante più invasivo, è generalmente riservata a colpire quelle condotte che ledono un interesse di ordine pubblico, mentre la lesione di un interesse privato è sanzionata con rimedi il cui esercizio è rimesso alla volontà della parte titolare dell’interesse leso.
Ovviamente l’acquirente potrà ricorrere anche al rimedio generale del risarcimento del danno e ciò non soltanto nel caso in cui il venditore abbia omesso di rilasciare il certificato previsto dall’art. 64 C.b.c., ma anche e soprattutto, qualora le informazioni contenute nell’expertise non siano conformi a verità. Si immagini, ad esempio, l’ipotesi del negoziante che dichiari di vendere un quadro attribuito a un determinato pittore, mentre poi l’acquirente scopra che si tratta di opera di scuola o di autore sconosciuto: in questo caso, evidentemente, l’expertise errata, oltre a poter essere utilizzata come prova ai fini dell’annullamento del contratto, potrà fondare la richiesta di risarcimento del danno, il cui ammontare sarà determinato in base al grado di certezza dell’attribuzione e alla sua conformità con le conoscenze del settore nel momento in cui il contratto veniva concluso[25].
Chiaramente il rifiuto del venditore di rilasciare l’attestato di provenienza dovrà suonare come un campanello d’allarme per l’acquirente, il quale difficilmente, davanti al rifiuto del venditore di garantire la provenienza, potrà invocare la propria buona fede al momento dell’acquisto e ciò con le relative conseguenze sia civilistiche (mancata applicabilità dell’art. 1153 c.c.) che penalistiche (eventuale reato di incauto acquisto ex art. 712 c.p.).
Resta da spendere qualche parola con riguardo a un tema che, in qualche modo, si avvicina a quello appena trattato e cioè se l’acquirente o il proprietario di un’opera d’arte possa esperire un’azione giudiziale volta all’accertamento della sua autenticità. In proposito la giurisprudenza appare divisa[26]: in alcune sentenze si è riconosciuta la possibilità di proporre azioni volte ad accertare la paternità di un’opera d’arte[27], mentre in altre, in ossequio a un orientamento prevalente, si è negato che una simile pretesa sia azionabile in giudizio[28].
In dottrina si è osservato[29] che l’ammissibilità dell’azione di mero accertamento dell’autenticità dell’opera è legata a un tema di fondo, ossia quello di stabilire se l’autenticità sia o non sia un profilo del diritto di proprietà sull’opera d’arte. In caso di risposta positiva, la tutela di mero accertamento è ammissibile e ha ad oggetto non un fatto, bensì il modo d’essere del diritto. Nel caso opposto, invece, il mero accertamento dovrà ritenersi inammissibile. Tra le due alternative quella preferibile sembrerebbe essere la seconda, posto che l’autenticità dell’opera non costituisce un aspetto o il modo d’essere del diritto, ma una qualità in concreto del bene[30].
3. L’obbligo di dichiarare provenienza e autenticità dell’opera genera il conseguente affidamento, nell’acquirente, che il bene acquistato possieda tutte le qualità promesse che il venditore ha dichiarato e attestato. Se però, successivamente alla conclusione del contratto, si scopre che il bene non possiede le qualità che il venditore ha assicurato e che erano date per certe dalle parti, l’acquirente può perdere interesse per il contratto che ha concluso e qui si aprono le problematiche con riguardo ai rimedi contrattuali che può esperire per liberarsi da un vincolo per il quale non ha più interesse.
I rimedi astrattamente prospettabili sono quelli dell’inadempimento e, in particolare, la disciplina in materia dei vizi o di difetto di conformità, dell’aliud pro alio e dei vizi del consenso. La giurisprudenza ha dimostrato un particolare interesse proprio per i vizi del consenso, facendo ampio ricorso alla disciplina dell’errore[31] e preferendo, generalmente, fare ricorso all’annullamento piuttosto che alla risoluzione per vizi della res tradita.
Possiamo immaginare diverse ipotesi nelle quali il contratto può essere impugnato per errore: la prima, forse la più classica, è quella in cui l’opera oggetto del trasferimento sia stata venduta come opera di autore famoso e, successivamente, si scopra esser stata realizzata da un autore meno noto o essere un’opera di bottega La seconda, invece, è quella contraria: l’opera è ritenuta di importanza secondaria, mentre, successivamente, si scopre che essa è stata realizzata da un autore famoso, con conseguente aumento del valore commerciale.
Una terza ipotesi prospettabile, che invero si distingue solo per qualche sfumatura dalle due precedenti, è quella dell’opera che sia stata riconosciuta come autentica da un’expertise, che poi si scopre errato.
Infine, l’ultima ipotesi, è quella dell’opera che l’acquirente riconosce essere di pregio, ma della quale il venditore non è stato in grado di riconoscere l’importanza e ha pertanto accettato di cedere a poco prezzo[32].
3.1 Un risalente precedente giurisprudenziale della Suprema Corte[33] vedeva contrapposti dei privati cittadini che proponevano, nei confronti del Ministero per i Beni Culturali, una domanda di annullamento, per errore essenziale e riconoscibile, di un contratto di compravendita avente per oggetto il trasferimento, a favore dello Stato, della proprietà di due statue; si trattava, rispettivamente, di una statua lignea di grandezza naturale rappresentante la Vergine col Bambino in collo, opera del Maestro della Cappella Pellegrini, sec. XV, e di una statua senese in terracotta, rappresentante S. Antonio Abate, anch’essa del XV secolo e a grandezza naturale.
Successivamente alla conclusione del contratto, però, gli attori venivano a scoprire che le due statue dovevano in realtà attribuirsi all’opera del rinomato scultore Jacopo della Quercia; ne conseguiva che esse avevano un valore economico ben superiore rispetto a quello stabilito nel contratto. La domanda di annullamento veniva rigettata sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello di Roma: quest’ultima rilevava, in particolare, che l’attribuzione delle due opere a Jacopo della Quercia non fosse provata e che, in ogni caso, essa era stata già ipotizzata in epoca antecedente alla conclusione della vendita. I venditori, pertanto, erano astrattamente in grado di conoscere tale circostanza al momento della conclusione del contratto; inoltre, il prezzo pattuito appariva congruo e non esisteva prova dell’errore e della sua rilevanza ai fini della conclusione del negozio tra i privati alienanti e la PA acquirente.
La sentenza della Cassazione appare particolarmente significativa perché affronta analiticamente le questioni legate alla rilevanza dell’errore, individuando alcune linee guida che si rivelano utili per affrontare e risolvere anche i casi analoghi.
Il problema che si presentava di fronte ai giudici era il seguente: è possibile procedere all’annullamento del contratto per errore essenziale, ex art. 1428, n. 2 c.c., nel caso in cui si sia avuta una falsa rappresentazione dell’identità e delle qualità essenziali dell’oggetto della compravendita e tale erronea rappresentazione della realtà abbia viziato la volontà delle parti nella pattuizione del prezzo? Al quesito le Corti di merito hanno risposto con un ragionamento articolato: in primo luogo hanno rilevato che una delle caratteristiche fondamentali dell’errore consiste nel fatto che la verità o la falsità di una rappresentazione non può dipendere dal mero confronto con la realtà, perché essa è basata su una percezione umana e perché non sempre è possibile che la rappresentazione si basi su elementi realmente esistenti nel momento in cui viene posta in essere. Se, quindi, la realtà non può essere considerata il parametro in base al quale giudicare la falsità della rappresentazione, occorre individuare un criterio che sia idoneo allo scopo e tale criterio non può che essere «una relazione di difformità che intercorre tra due diversi punti di vista, egualmente riferibili a soggetti umani»; ne consegue che il concetto di errore indica «un fenomeno che assume precise dimensioni oggettive nell’ambito del rapporto sociale ed in relazione al problema della comunicazione»[34]. In base a questo ragionamento la Corte d’appello aveva ritenuto non provata la sussistenza dell’errore invalidante «per essere stata “incerta all’epoca del contratto” in argomento, e “ancor non del tutto certa”», nel momento del giudizio, l’attribuibilità della statua a Jacopo della Quercia. La tesi che identificava in tale artista il creatore dell’opera, infatti, non si basava su elementi documentali o dimostrabili, ma su semplici argomentazioni e indizi, idonei «a far ravvisare la scuola o la bottega dello stesso», ma non la completa realizzazione o la partecipazione dell’artista alla realizzazione dell’opera, elementi questi che, secondo la Corte di merito, restavano «comunque sempre a livello di ipotesi». I giudici d’appello osservavano inoltre che «la riferibilità a Jacopo della Quercia della creazione della statua negoziata sarebbe risultata solo all’esito di lavori di restauro sulla medesima fatti eseguire dalla p.a. compratrice», mentre dal testo del contratto di compravendita emergeva che entrambe le parti, concordemente, ritenevano la statua de qua come opera del Maestro della Cappella Pellegrini; da ciò appariva ragionevole desumere che i contraenti si fossero attenuti, nell’identificazione del bene compravenduto e nella determinazione del suo prezzo, «ad una valutazione di esso tale da considerare l’eventuale pregio e l’attribuibilità alla mano od alla scuola di un maestro di rilievo ed abbiano contemplato anche l’eventualità della relativa attribuzione al della Quercia».
Ben diversa, invece, l’opinione della Cassazione, secondo la quale non vi era alcuna prova che ai venditori fosse nota la riconducibilità dell’opera a Jacopo della Quercia, anzi dalla lettera del contratto si desumeva che tale attribuzione non fosse mai stata presa in considerazione dai contraenti; dal testo del contratto, infatti, si deve ritenere che le parti intesero alienare un’opera scultorea indicata come creazione del «“Maestro della Cappella Pellegrini”, e non da un qualsiasi altro artista», le parti, quindi, «non fecero cenno alcuno all’ipotesi che la paternità della statua negoziata fosse attribuibile a Jacopo della Quercia». Inoltre, secondo la Suprema Corte, mancavano gli elementi necessari a dimostrare la correttezza dell’assunto per cui l’entità del prezzo pattuito nella vendita sarebbe stata determinata tenendo conto che le statue fossero effettivamente opera di Jacopo della Quercia.
Un altro aspetto che la Corte prende in considerazione è legato alla mancanza di prova con riguardo all’effettiva attribuzione delle statue a Jacopo della Quercia. Tale circostanza era stata considerata determinante dalla Corte d’appello per escludere l’errore invalidante, poiché non sarebbe ancora certa la paternità delle opere vendute, che avrebbe potuto realmente coincidere con quella effettivamente individuata dai contraenti. La Cassazione, però, cassava il ragionamento della Corte di merito, evidenziando come la prova dell’attribuzione delle opere a Jacopo della Quercia fosse desumibile dal fatto che la p.a. acquirente, da oltre quattro lustri, esponesse in musei pubblici e in mostre ufficiali la scultura del Maestro della Cappella Pellegrini dichiarandola opera di Jacopo della Quercia. Tale circostanza, peraltro, eliminava ogni dubbio sul fatto che ci si trovasse di fronte a un’ipotesi di errore non riconosciuto dalla controparte che, come tale, potesse essere considerato, almeno in astratto, invalidante il contratto ai sensi degli artt. 1427 e ss. c. c.[35]. Peraltro, secondo la Corte, l’essenzialità dell’errore, unita alla sua riconoscibilità, esclude la rilevanza, ai fini dell’annullamento, della scusabilità; ciò comporta che l’obiezione in forza della quale gli alienanti avrebbero potuto e dovuto rendersi conto che le statue erano attribuite a Jacopo della Quercia non aveva alcun rilievo.
La Corte ribadisce un principio già espresso in alcune risalenti pronunce[36], in forza del quale, in caso di vendita di opere d’arte, «l’errore di uno, o di entrambi i contraenti sull’autenticità dell’opera negoziata e sull’effettiva identità del relativo autore può, senz’altro, dar luogo, a mente dell’art. 1428 cod. civ., alla caducazione del contratto, perché comporta che questo debba intendersi concluso per effetto di una falsa rappresentazione dell’identità e delle qualità essenziali del relativo oggetto avuta da una o da tutte e due le parti al momento della stipulazione dell’accordo».
Dalla decisione della Corte emerge che l’errore può consistere nell’ignoranza e/o falsa conoscenza della realtà di fatto, tutte le volte che essa influisce sulla volontà del contraente viziandola, ovvero ogni volta che la conoscenza della circostanza ignorata avrebbe potuto orientare la volontà del soggetto in modo difforme da quello che sarebbe avvenuto in mancanza di errore[37].
È appena il caso di ricordare che, per determinare l’annullamento del contratto, l’errore deve essere essenziale e riconoscibile[38]; il vizio, quindi, deve assumere per il contraente un’importanza determinante secondo una valutazione oggettiva, che deve essere condotta con riguardo alla natura o all’oggetto del contratto, alla controparte, all’identità dell’oggetto della prestazione, piuttosto che a una qualità del medesimo che, secondo il comune apprezzamento, debba ritenersi determinante del consenso[39]. Si deve precisare, inoltre, che la riconoscibilità dell’errore deve essere valutata alla luce delle conoscenze esistenti al momento della conclusione del contratto, senza che possano venire in considerazione eventuali scoperte successive che le parti non potevano avere in mente al momento in cui concludevano l’accordo[40]. In proposito autorevole dottrina[41] ha osservato che, con riguardo alle opere d’arte, più che il fatto «paternità effettiva» rileva il fatto giuridico «stato attuale della critica sul punto paternità del quadro». Se si acquista un dipinto che allo stato attuale viene definito dalla critica come opera di autore ignoto o come un’imitazione, mentre in data successiva si scopre essere di autore famoso od opera autentica, giuridicamente si è verificata una trasformazione del bene[42]. Il fatto giudizialmente accertabile, infatti, è solo lo stato della critica all’atto della conclusione del contratto e l’errore rilevante è quello che su tale stato ricade: ne consegue che le scoperte successive sono accrescimenti, diminuzioni, trasformazioni della cosa, che, come tali, incidono sul patrimonio del proprietario, ma non sulla validità del contratto[43].
Il principio affermato dalla Corte ci consente, quindi, di distinguere due ipotesi: la prima è quella di chi vende un’opera d’arte ritenendola di un autore sconosciuto, mentre in realtà si tratta dell’opera di un artista più famoso. In questa ipotesi ci si trova davanti a un errore sull’identità dell’oggetto che determina l’annullabilità del contratto. La seconda, invece, è quella in cui l’opera viene compravenduta in base a valutazioni di ordine economico che spingono uno dei due contraenti a determinate scelte; in questo secondo caso l’errore cade sul motivo per cui l’opera è stata acquistata ed è destinato a restare irrilevante, essendo ininfluenti gli errori che si riferiscono a valutazioni o a previsioni soggettive concernenti la convenienza economica dell’affare, piuttosto che gli altri elementi psicologici che determinano le scelte negoziali del contraente[44].
La sentenza che abbiamo analizzato ci offre qualche spunto per risolvere anche il caso inverso, ossia quello dell’opera attribuita ad autore famoso che, successivamente, si scopra essere opera di bottega o realizzata da un artista diverso e meno noto o, addirittura, si scopra essere falsa[45]. Anche in questo caso, come nel precedente, infatti, si potrà chiedere l’annullamento per errore se, al momento in cui il contratto fu concluso, l’attribuzione dell’opera non era assolutamente pacifica in base alle conoscenze degli storici dell’arte; mentre nell’ipotesi precedente è ragionevole pensare che ad agire per l’annullamento sia il venditore, desideroso di ritornare proprietario del bene alienato, in questa seconda eventualità è più probabile che ad agire sia l’acquirente che non ha più interesse a restare proprietario di un’opera realizzata da un artista diverso da quello che sperava di essersi aggiudicato[46]. In questa seconda ipotesi, peraltro, all’acquirente si potrebbero aprire anche strade ulteriori rispetto a quella dell’annullamento per errore e cioè il ricorso al rimedio dei vizi della cosa, alla mancanza di qualità promesse o essenziali (art. 1497 c.c.), all’aliud pro alio o alla presupposizione e financo all’annullamento per dolo, nel caso in cui si possa dimostrare che il venditore era a conoscenza della diversa attribuzione o della falsità dell’opera, ma le abbia celate per trarre maggior profitto.
3.2 Occorre sin da subito osservare che giurisprudenza e dottrina si sono trovate spesso divise nell’individuare il rimedio più idoneo a tutelare i contraenti nel caso di opere d’arte false o non correttamente attribuite. Le opinioni oscillavano tra chi propendeva per il ricorso alla garanzia per vizi o per mancanza delle qualità e chi, invece, ritenendo tali rimedi inadeguati, posta la brevità dei termini decadenziali e prescrizionali previsti dal codice, riteneva che fosse l’annullamento del contratto per errore sulla qualità dell’opera d’arte il mezzo più idoneo a proteggere i contraenti[47].
La giurisprudenza, in caso di mancanza di autenticità dell’opera, non ha quasi mai fatto ricorso alla garanzia per vizi non ritenendo una tale mancanza idonea a integrare la figura del vizio redibitorio[48] o del difetto di conformità (art. 130 cod. cons.)[49], ma preferendo di gran lunga fare ricorso all’aliud pro alio o all’annullamento del contratto per errore. La presenza di un errore riguardo all’autenticità dell’opera oggetto di compravendita e/o all’identità del suo autore, infatti, può comportare l’annullamento del contratto e il conseguente obbligo di restituire il prezzo pagato e le spese sostenute a causa del contratto[50]. Perché si possa avere l’annullamento del contratto occorre, evidentemente, che l’errore sia essenziale, ossia determinante il consenso secondo un parametro oggettivo e riconoscibile. La riconoscibilità dell’errore, come si è già detto, deve essere verificata alla luce di quelle che sono le conoscenze tecniche al momento della conclusione del contratto, mentre le conoscenze acquisite successivamente dagli storici dell’arte non incidono sulla validità del contratto, né giustificano l’esercizio dell’azione per garanzia dei vizi, salva, ovviamente, la presenza di clausole contrattuali di segno contrario[51].
È appena il caso di precisare che occorre distinguere tra l’errore di chi acquista un’opera ritenendola d’autore, mentre non lo è, e chi, invece, acquista un’opera autentica, ignorando che le quotazioni dell’autore sono scese. Nel primo caso si ha un errore sull’identità dell’oggetto del contratto che, come tale, è rilevante; nel secondo, invece, ci si trova di fronte a un errore di valutazione soggettivo, che va considerato rientrante nel rischio normalmente insito nella circolazione delle opere d’arte, ma che non può essere considerato rilevante ai fini dell’annullamento del contratto[52].
A partire dagli anni Sessanta, peraltro, in caso di mancanza del requisito dell’autenticità dell’opera, la giurisprudenza ha cominciato a fare ricorso al rimedio dell’inadempimento contrattuale ex art. 1453 c.c., soggetto alla prescrizione decennale[53]. In proposito in dottrina si è osservato che «nel mercato dell’arte la nozione di genere è applicata in modo improprio, come si evince dal fatto che semplici mutamenti di qualità legittimano l’applicazione dell’art. 1453 c.c. ancorché le discrasie tra dato e dovuto siano di per sé insufficienti a giustificare la riconduzione della res tradita in una diversa categoria merceologica»[54].
3.2.1. Un caso parzialmente diverso è quello del venditore che garantisca espressamene l’autenticità dell’opera compravenduta: in questa ipotesi, infatti, la fattispecie può essere agevolmente inquadrata come vendita di aliud pro alio[55], poiché ci troviamo di fronte a una cosa sostanzialmente diversa da quella che era stata inizialmente pattuita e promessa[56]. Tale differenza legittima la richiesta di risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c.: il venditore, infatti, risulta inadempiente rispetto all’obbligo di trasferire all’acquirente il diritto su un’opera d’arte determinata e individuata in base all’autore[57].
In questo senso si è orientata la Cassazione[58] nel caso Carracci che vedeva contrapposti un antiquario e un suo cliente. Nel caso di specie, un quadro intitolato La fuga in Egitto, veniva attribuito da un’expertise ad Annibale Carracci. Una volta entrato in possesso del quadro, però, l’acquirente si rendeva conto che non si trattava di un’opera originale e chiedeva la risoluzione del contratto invocando la disciplina dell’aliud pro alio, essendo ormai decorsi i termini di cui all’art. 1495 c.c. La Cassazione accogliendo la tesi dell’acquirente, affermò che la dazione di un quadro apocrifo rientra nella nozione di aliud pro alio e che la colpa del venditore «non può essere esclusa dalla buona fede in senso oggettivo», il che è a dire che l’errore intorno alla provenienza dell’opera non excusat quando l’inesatta conoscenza della realtà sarebbe stata evitabile usando l’ordinaria diligenza, che deve essere valutata in base al grado di competenza del venditore[59].
La giurisprudenza ha riconosciuto l’aliud pro alio anche nel caso di un’opera autentica, ma rimaneggiata pesantemente, in modo da non essere più corrispondente all’originale concepito dall’artista. In questa ipotesi il ricorso all’aliud pro alio si giustifica per il fatto che l’opera d’arte può reputarsi realmente autentica soltanto se corrisponde integralmente a quella creata dall’autore, mentre se è stata modificata, anche solo in parte, non è più quella creata dall’artista[60].
Se attualmente la giurisprudenza tende a escludere l’applicazione della disciplina dei vizi o della mancanza di qualità, prediligendo quella della risoluzione per inadempimento o dell’annullamento per errore, occorre soffermarsi sui criteri che consentono di stabilire quale delle due discipline risulti applicabile in concreto. L’inquadramento della fattispecie in una disciplina, piuttosto che nell’altra, discende dall’atteggiarsi in concreto della volontà delle parti: si dovrà accertare, infatti, se, nel caso specifico, i contraenti abbiano implicitamente o esplicitamente indicato la paternità dell’opera nell’oggetto del contratto. In caso positivo, si aprirà la strada alla risoluzione del contratto per inadempimento, qualora, invece, la paternità dell’opera sia stata solo presunta dalle parti al momento della conclusione del contratto, incidendo sul processo di formazione della volontà contrattuale, ma non formando oggetto di specifici obblighi, si aprirà la strada all’annullamento del contratto per la presenza di un vizio del consenso[61].
In entrambe le ipotesi l’acquirente potrà ottenere anche il risarcimento del danno[62]. Nel caso di risoluzione del contratto il danno risarcibile comprenderà l’interesse contrattuale positivo (restituzione del prezzo e risarcimento del lucro cessante). La giurisprudenza, peraltro, in caso di risoluzione del contratto di vendita di opera d’arte non autentica, è unanime nel ritenere che il danno risarcibile sia costituito dalla differenza tra il prezzo pattuito e il maggior valore che il quadro avrebbe avuto se fosse stato autentico[63]. Nel caso di annullamento del contratto, invece, il danno risarcibile è limitato al solo interesse contrattuale negativo: ne consegue che l’acquirente potrà chiedere, oltre alla restituzione del prezzo, solo il rimborso delle spese effettuate in ragione della vendita.
Il rimedio risolutorio, quindi, offre all’acquirente la possibilità di chiedere un risarcimento maggiore rispetto a quanto avviene in caso di annullamento. Ciò comporta che, per l’acquirente, sarà più desiderabile agire con l’azione di risoluzione per aliud pro alio, piuttosto che con quella di annullamento.
È appena il caso di sottolineare che l’acquirente che intende liberarsi dal contratto potrà agire per la risoluzione in via principale e poi, in via subordinata, chiedere l’annullamento qualora il giudice non ritenga fondata la domanda basata sull’aliud pro alio.
3.2.2. Sebbene non si rinvengano precedenti giurisprudenziali, un ulteriore rimedio a disposizione del contraente che intenda liberarsi dal contratto è offerto dalla presupposizione, la quale, come noto, opera come condizione tacita del contratto, consentendone la caducazione quando la circostanza comune a entrambe le parti e determinante il consenso sia venuta meno successivamente alla conclusione del contratto[64]. In questo caso, qualora ad agire sia l’acquirente che scopre che l’opera non è dell’autore che riteneva inizialmente, occorrerà che entrambi i contraenti avessero dato per certa l’attribuzione a un determinato artista e che a entrambi fosse chiaro che il contratto veniva concluso proprio in virtù di tale paternità, la quale era considerata, seppure tacitamente, come una condizione fondamentale. Come ipotesi si potrebbe immaginare quella del collezionista di quadri della pittrice SP che acquista da un gallerista un’opera attribuita a tale artista, comunicando la volontà di procedere all’acquisto per arricchire la propria collezione. Viceversa, qualora l’opera sia stata venduta sul presupposto che si trattava del lavoro di un autore sconosciuto o minore, sarà il venditore ad avere interesse a liberarsi dal contratto e tornare in possesso del bene. In questo caso egli potrà invocare la presupposizione e affermare che il contratto è stato concluso sul presupposto, comune a entrambi i contraenti, che l’opera non fosse il lavoro di un artista noto e affermato.
Se le parti intendono tutelarsi in modo particolarmente efficace dal rischio che l’opera si scopra di autore diverso da quello originariamente pattuito, nulla vieta che esse inseriscano nel contratto clausole volte a ripartire il rischio; in questo caso, evidentemente, sarà la clausola contrattuale a individuare il rimedio o la procedura più idonea a risolvere il conflitto tra le parti.
3.5 Aliud pro alio e annullamento per errore sembrano essere i rimedi più idonei a risolvere anche la terza ipotesi che avevamo prospettato, ossia quella in cui l’opera sia stata riconosciuta autentica da un’expertise, che poi si scopre errato. Immaginiamo il caso di un gallerista o di una casa d’aste che intenda vendere un quadro e, ritenendolo opera di un pittore famoso, in assenza di firma o di altri elementi oggettivi che attestino la paternità dell’opera, al fine di fugare eventuali dubbi, commissioni a un noto storico dell’arte un’expertise che confermi l’attribuzione[65]. Una volta ricevuto l’expertise, il quadro viene posto in vendita come “opera di” e chi acquista lo fa confidando sulla veridicità della dichiarazione dello storico dell’arte ed è disposto a pagare il bene un prezzo maggiore di quanto lo pagherebbe in assenza di un certificato di garanzia proveniente da uno studioso, specie se si tratta di un esperto particolarmente affermato e quotato[66]. È facile comprendere come questa ipotesi finisca per essere sostanzialmente coincidente con quella precedente: anche in questo caso, infatti, l’opera viene acquistata sull’assunto che si tratti del lavoro di un determinato artista. Rispetto all’ipotesi precedente, però, sarà più facile dimostrare che il venditore era a conoscenza della paternità dell’opera e che tale paternità ha assunto carattere determinante del consenso. In caso contrario, infatti, il venditore non si sarebbe fatto carico di commissionare un’expertise a un professionista. Se lo ha fatto, ciò significa che intendeva trarre un particolare e ulteriore profitto dall’attribuzione dell’opera a quel determinato autore. Anche in questo caso, però, affinché l’acquirente possa esperire un rimedio contrattuale, occorrerà che l’expertise non sia espressione effettiva dello stato dell’arte della critica; in altre parole si dovrà valutare se, alla luce delle informazioni in possesso degli storici dell’arte al momento in cui l’esperto ha espresso la sua opinione, l’opera avrebbe potuto essere oggettivamente attribuibile alla mano dell’autore individuato nell’expertise.
Un esempio piuttosto efficace con riferimento al ruolo giocato dall’expertise nel mercato dell’arte è offerto dal Salvator Mundi, recentemente venduto da Christie’s per la cifra record di 450 milioni di dollari, e attribuito, secondo una contestata perizia della casa d’aste, a Leonardo da Vinci. È evidente che chi ha acquistato il dipinto per quella cifra lo ha fatto confidando sulla veridicità di quanto affermato dagli storici dell’arte ai quali la casa d’aste ha commissionato l’expertise. Nel caso in cui, un domani, si dovesse accertare, come attualmente sembra, che il quadro non è opera di Leonardo, ma di autore meno noto, non è improbabile che l’acquirente si determinerà ad agire nei confronti della casa d’aste per liberarsi dal contratto concluso, anche perché la perizia della casa d’aste non può affatto considerarsi pacifica e condivisa alla luce delle conoscenze degli storici dell’arte, tanto che molti esperti hanno dichiarato che il quadro non può essere di mano leonardesca. In una simile eventualità, le assicurazioni date da Christie’s sull’autenticità dell’opera, sia nel catalogo dell’asta che sul proprio sito, potranno evidentemente essere utilizzate per dimostrare l’impegno, assunto dalla casa d’aste, di vendere un’opera originale del genio vinciano, nonostante mancasse il consenso unanime degli storici dell’arte sull’autenticità dell’opera.
Anche in questo caso il rimedio più funzionale per liberare il contraente dal rapporto negoziale sembra essere la disciplina dell’aliud pro alio; tuttavia, qualora il termine prescrizionale decennale sia già decorso, si potrà sempre fare ricorso all’annullamento per errore.
Generalmente nel mercato dell’arte, sono rari i casi nei quali, in mancanza di una certezza assoluta, l’opera viene attribuita in modo indiscusso a un grande artista e si preferisce fare ricorso a escamotage più sottili, come, per esempio, quello di attribuire l’opera, magari anche di scarso o nullo pregio artistico, alla cerchia o alla bottega di un determinato artista famoso. In questo modo, senza dichiarare espressamente che l’opera è di un autore di fama, chi vende spera di godere della rendita del nome, senza però correre il rischio che comporterebbe un’attribuzione diretta.
3.6. Resta da analizzare l’ultima delle possibili situazioni in cui le parti possono venirsi a trovare durante il commercio di opere d’arte e cioè quella in cui l’acquirente riconosca il particolare pregio dell’opera e, approfittando dell’ignoranza del venditore, la acquisti per un valore molto inferiore a quello di mercato. L’ipotesi non è così peregrina e nella pratica si verifica con una certa frequenza. Pensiamo al caso, già accennato, delle opere d’arte dormienti, che non vengono riconosciute dal venditore o al caso di chi, avendo ricevuto in eredità una collezione di opere d’arte, ma, non sapendo cosa farsene, si rivolga a un antiquario o a un gallerista per farla valutare e questi, accortosi del valore delle opere, le valuti molto meno del loro prezzo di mercato, offrendosi di acquistarle e liberando gli eredi dall’onere di occuparsi ulteriormente della collezione ricevuta. Ancora si può immaginare l’ipotesi dell’antiquario che, durante la visita in un cascinale, veda un mobile di pregio che si offre di comprare per poche decine di euro da un contadino che non ne riconosce il valore del bene e accetta l’offerta. In tutte queste ipotesi ci si deve chiedere se il generale dovere di correttezza e buona fede, che, in forza degli artt. 1175, 1337, 1366 e 1375 c.c., ispira tutto il diritto contrattuale, imponga alla parte più informata di non profittare dell’ignoranza della controparte, oppure se prevalga la libertà negoziale e ciascuna delle parti sia tenuta a supportare il rischio del cattivo utilizzo che di tale libertà abbia fatto.
Nel caso dell’esperto acquirente di cose d’arte, che si accorge del maggior valore dell’oggetto che gli viene offerto per poca moneta e tace tale circostanza, la dottrina tende a escludere che si possa ipotizzare una violazione del dovere d’informazione: il contraente, infatti, non può pretendere di essere informato sulle qualità e sul valore della cosa che egli stesso offre in vendita. Ogni contraente deve provvedere autonomamente alla tutela dei propri interessi e non può lamentarsi per il cattivo utilizzo che abbia fatto della propria libertà contrattuale[67]. Si potrebbe dubitare della bontà di una tale conclusione soltanto nel caso in cui il venditore abbia richiesto una valutazione al professionista e questi svaluti i beni al fine di poterli poi acquistare a un prezzo infimo.
La mancanza di precisi obblighi informativi in capo alla parte maggiormente competente e informata non significa, però, che il contraente che sia stato indotto in errore o sia stato vittima di raggiri, resti privo di tutele: qualora la condotta dell’acquirente sia stata tale da integrare gli estremi dell’induzione in errore, della reticenza o del dolo, infatti, il venditore potrà agire in giudizio per chiedere l’annullamento di un contratto che è stato concluso in forza di un consenso viziato. All’atto pratico, quindi, per determinare la presenza o l’assenza di un rimedio in capo al contraente ingannato, sarà determinante la buona o mala fede della controparte contrattuale.
In proposito merita sottolineare come la giurisprudenza, a differenza della dottrina, tenda a largheggiare nella tutela del contraente ingannato. Un precedente giurisprudenziale sembra dimostrare questa convinzione: un architetto si rivolse a un rigattiere che aveva aperto da poco la propria attività, cercando “qualcosa di interessante”. Il rigattiere proponeva delle tavole lignee che l’architetto fece visionare a un esperto, il quale lo rassicurò sul fatto che si trattava di opere di pregio riconducibili alla scuola veneta. L’architetto, senza informare il venditore, procedette all’acquisto che, successivamente, fu impugnato dal rigattiere accortosi del maggiore valore del bene. La Corte d’appello di Roma[68] annullò la vendita ritenendo che l’acquirente avesse approfittato dell’errore della controparte e avesse agito con una malafede tale da rasentare l’inganno[69]. Come si vede, il confine tra diritto a tacere le proprie conoscenze e obbligo di contrarre in buona fede, non profittando dell’ignoranza altrui, può rivelarsi labile all’atto pratico; mentre la dottrina sembra più accondiscendente verso chi tace, imponendo alla parte meno informata di documentarsi prima di concludere il contratto, la giurisprudenza appare più rigorosa nel fare ricorso al principio di buona fede per sanzionare l’acquirente che abbia profittato dell’asimmetria informativa.
3.6.1. Diversamente stanno le cose con riferimento agli sleepers. Per sleeper si intende un’opera d’arte o un oggetto antico che è stato sottovalutato e identificato in modo errato a causa di una svista o di un errore dell’esperto che lo ha valutato e che, di conseguenza, viene venduto all’asta per un prezzo molto inferiore a quello che avrebbe se fosse stato correttamente riconosciuto
Per qualificare un’opera come sleeper devono concorrere tre requisiti cumulativi: in primo luogo, si deve trattare di un’opera d’arte o di un oggetto d’antiquariato; in secondo luogo, il bene deve essere venduto all’asta e, infine, la casa d’aste deve essere responsabile dell’attribuzione errata e sottovalutata[70]. Nonostante l’errata attribuzione, però, un acquirente particolarmente attento e competente è in grado di riconoscere la mano dell’artista che ha realizzato l’opera e riesce ad aggiudicarsela per un valore molto inferiore rispetto a quello che essa avrebbe avuto se attribuita correttamente al suo autore. Ovviamente se lo sleeper è riconosciuto da molti potenziali acquirenti il suo valore salirà avvicinandosi a quello di mercato, mentre se esso è riconosciuto soltanto da pochi sarà possibile acquistarlo per una somma relativamente modesta.
In questo caso ci si deve chiedere se il venditore che ha consegnato il bene alla casa d’aste possa agire chiedendo l’annullamento, invocando l’errore di attribuzione, o se tale facoltà gli sia preclusa. Nel caso dell’opera dormiente l’acquirente scommette su una sua intuizione e sull’autenticità dell’opera, accettando il rischio di un possibile errore di valutazione, quindi la strada dell’errore sembra da escludere e il rimedio a tutela del venditore non sarà nei confronti dell’acquirente, ma della casa d’aste, alla quale potrà essere chiesto il risarcimento del danno derivante da una valutazione errata e non sufficientemente attenta del bene che le è stato consegnato.
3.7. È noto che molte delle opere che circolano sul mercato dell’arte sono delle copie di originali. Ovviamente, ai nostri fini, non si pone nessun problema qualora la copia venga immessa sul mercato come tale: in questo caso è evidente che l’acquirente accetta di comprare un falso. Diversa è invece l’ipotesi nella quale la copia venga ceduta come originale: in questo caso può accadere che il venditore sia consapevole del fatto, oppure sia anche egli convinto che l’opera è originale.
Con riguardo alla prima ipotesi, qualora l’acquirente riesca a dimostrare la truffa della quale è stato vittima, potrà fare ricorso alla disciplina del dolo e ottenere l’annullamento del contratto. Nel caso in cui, invece, egli non riesca a provare l’elemento soggettivo della truffa, per liberarsi dal contratto, potrà fare ricorso alla disciplina dell’errore o dell’aliud pro alio. È appena il caso di precisare che, se il venditore vende consapevolmente l’opera falsa al prezzo corrispondente al valore dell’esemplare autentico, ci troviamo di fronte a una vera e propria reticenza, la quale, a prescindere dal ricorso alla disciplina del dolo, dell’errore o dell’inadempimento, costituisce violazione di un obbligo informativo e come tale potrà essere sanzionata sotto il profilo risarcitorio[71].
Nel caso in cui il venditore ignorasse la falsità dell’opera che ha venduto, invece, si verifica un’ipotesi del tutto analoga a quella dell’opera attribuita a un autore diverso e meno importante rispetto a quello reale. I rimedi fruibili dall’acquirente saranno quindi l’annullamento del contratto per errore o il ricorso all’aliud pro alio, purché, però, la falsità, al momento della conclusionale del contratto, fosse riconoscibile da un venditore diligente. Se la falsità, invece, ha potuto essere accertata solo in un momento successivo, facendo ricorso a tecniche nuove, che al momento in cui il contratto è stato concluso non erano disponibili, pare corretto ritenere che, analogamente a quanto avviene con l’attribuzione erronea e successivamente corretta per i progressi della critica storico-artistica, il rischio della falsità ricada sull’acquirente.
Si immagini un’ipotesi analoga a quella delle teste di Modigliani, falsificate e gettate nel Fosso Reale di Livorno, ritrovate e attribuite da autorevoli storici dell’arte all’artista. In un caso come questo, se le teste fossero state vendute dal ritrovatore, ci si potrebbe chiedere se l’acquirente, una volta scoperto il falso, avrebbe potuto agire nei confronti del venditore chiedendo l’annullamento del contratto. La risposta appare positiva almeno nel caso in cui, al momento della conclusione del contratto, gli esperti e gli storici dell’arte non fossero stati unanimemente convinti dell’autenticità. Viceversa se, nel momento in cui il contratto veniva concluso, la convinzione unanime della critica fosse stata che l’opera era autentica, il rischio che, in un momento successivo, venisse scoperta la sua falsità sarebbe dovuto gravare sull’acquirente, al quale non sarebbero attribuibili rimedi nei confronti del venditore.
4. Resta da chiedersi in quanto tempo si prescrivano i rimedi che sono stati individuati e quale sia il dies a quo dal quale il termine di prescrizione comincia il suo decorso.
I termini prescrizionali variano al variare del rimedio invocato: qualora si faccia ricorso alla disciplina dei vizi nella vendita il termine prescrizionale sarà di un anno (art. 1495 c. 3 c.c.; nel caso in cui si invochi un difetto di conformità, ai sensi dell’art. 132 primo comma cod. cons., il termine sarà invece di due anni), purché sia stata effettuata la denuncia del vizio nei termini decadenziali indicati dall’art. 1495 primo comma c.c. (o 132 comma 2 cod. cons.); se, invece, il rimedio invocato è l’annullamento del contratto il termine prescrizionale sarà di cinque anni (art. 1442 c.c.); infine, se la parte che agisce ricorre all’aliud pro alio opererà il termine prescrizionale ordinario di dieci anni (art. 2946 c.c.).
Oltre a un diverso termine prescrizionale anche il dies a quo dovrà essere individuato in modo diverso a seconda del differente rimedio invocato: nell’ipotesi di vizio (difetto di conformità) o di aliud pro alio la prescrizione comincia il suo decorso con la consegna del bene. Con riferimento ai vizi e al difetto di conformità è la legge a indicare nel momento della consegna il momento in cui inizia la prescrizione (artt. 1495 c.c. e 132 cod. cons). Un termine prescrizionale così breve, in un settore in cui la scoperta del vizio difficilmente è immediata, finisce per rendere praticamente inutilizzabile (e di fatto inutilizzata) la disciplina dei vizi (o del difetto di conformità).
Nel caso di aliud pro alio, invece, è stata la giurisprudenza a individuare nella consegna il momento in cui la prescrizione comincia il suo decorso. Una recente ordinanza della Suprema Corte[72] ha affermato, ribadendo peraltro quanto già affermato in precedenza dalla stessa Corte[73], che in caso di vendita di un quadro non autentico, qualificabile come vendita di aliud pro alio, il diritto a richiedere la risoluzione e il conseguente risarcimento del danno è assoggettato alla prescrizione ordinaria decennale che inizia il suo decorso nel momento della consegna del bene. In tale momento, secondo la Corte, si verifica l’inadempimento, senza che possa assumere rilevanza la circostanza che l’acquirente non fosse a conoscenza della falsità del bene e ciò perché, ai fini della sospensione del termine prescrizionale, rileva soltanto l’impossibilità che derivi da cause giuridiche e non quella che consegua a impedimenti soggettivi o ostacoli di mero fatto, posto che, nel nostro ordinamento, il principio contra non valentem agere non currit praescriptio opera in maniera limitata (cfr. artt. 2935 e 2941 c.c.).
In dottrina non manca chi, correttamente, critica una tale ricostruzione ritenendo che «il riferimento che la Cassazione fa al momento in cui si è verificato l’inadempimento con coeva produzione del danno, secondo una valutazione oggettiva, piuttosto che al momento in cui l’acquirente ha avuto contezza di tale circostanza relativa alla mancata attuazione della prestazione dovuta, in base ad una valutazione soggettiva»[74] debba essere corretta attraverso una «interpretazione “adeguatrice” dell’art. 2935 c.c. che tenga conto anche di elementi di tipo fattuale, che il dies a quo per il decorso del termine di prescrizione venga individuato nel momento in cui risulti possibile all’acquirente la conoscibilità della non autenticità dell’opera»[75].
Il decorso del termine prescrizionale, nel caso in cui venga invocato l’annullamento del contratto per dolo o per errore, comincia, invece, nel momento in cui il dolo o l’errore vengono scoperti (art. 1442 secondo comma c.c.) e ciò rappresenta sicuramente uno dei motivi per cui la disciplina dell’errore sia quella che, nella prassi, viene più frequentemente invocata: è infatti altamente probabile che la mancanza della qualità, considerata essenziale per la conclusione del contratto, venga scoperta a distanza di molto tempo dalla conclusione del contratto o dalla consegna del bene e che quindi gli altri rimedi siano già tutti prescritti.
5. Il valore di mercato di un’opera d’arte è determinato dal suo autore e dal fatto che si tratti di un originale. Un’opera di autore sconosciuto, per quanto possa essere pregiata, difficilmente raggiungerà le grandi cifre, lo stesso è a dirsi per la copia di un’opera famosa, salvo che non sia realizzata essa stessa da un grande autore. Corretta attribuzione e originalità sono quindi aspetti fondamentali, oltre che questioni estremamente delicate per il mercato dell’arte. Purtroppo spesso chi vende o acquista opere d’arte scopre che il bene che ha acquistato o che ha venduto non è quello che intendeva acquistare o vendere e che il prezzo pattuito non corrisponde al reale valore del bene. In tutti questi casi il contratto che si è concluso non appare più l’equa composizione di opposti interessi che era inizialmente; non sempre, però, il diritto offre dei rimedi alle parti che intendano eliminare gli effetti del negozio che hanno voluto in precedenza.
Talvolta ai contraenti non sono riconosciuti rimedi, ma la successiva scoperta dell’errata attribuzione piuttosto che della falsità sono trattate alla stregua di comuni sopravvenienze, il cui rischio ricade sulla parte. In linea di massima, infatti, come si è detto, il diritto non tutela i contraenti se l’opera, nel momento in cui il contratto è stato concluso, secondo la critica unanime degli storici dell’arte, non poteva essere attribuita al suo autore o la paternità non poteva essere contestata.
Qualora, invece, la critica fosse incerta sull’attribuzione, i rimedi esperibili dalle parti sono la risoluzione del contratto di vendita per inadempimento (aliud pro alio) o l’annullamento per errore. Ovviamente l’aliud pro alio è un rimedio a beneficio del solo acquirente, il venditore, qualora si accorga di aver venduto un’opera di valore, ritenendola erroneamente di scarso pregio potrà invocare unicamente la disciplina in materia di annullamento del contratto a causa di un errore essenziale sulla qualità dell’oggetto del contratto.
Il rimedio dell’aliud pro alio, peraltro, può presentare un ulteriore aspetto problematico con riferimento al termine prescrizionale: spesso, infatti, la scoperta dell’attribuzione errata avviene a distanza di molto tempo dalla conclusione del contratto e quindi il termine di prescrizione ordinario decennale può non essere sufficiente a garantire una tutela all’acquirente. In questo caso l’unico rimedio disponibile sarà l’annullamento per errore o, nel caso in cui sia possibile dimostrare l’inganno del venditore, l’annullamento per dolo.
Data la brevità del termine prescrizionale e decadenziale, invece, i rimedi ordinari in materia di vendita (risoluzione del contratto o riduzione del prezzo) difficilmente potranno entrare in gioco e, infatti, nei massimari giurisprudenziali i precedenti nei quali le corti hanno qualificato l’errata attribuzione o la falsità dell’opera come un vizio del bene sono assai poco frequenti e confinati a ipotesi estremamente marginali quali, ad esempio, la scorretta indicazione della data di realizzazione di un dipinto[76].
[1] Sul caso del Caravaggio spagnolo si veda V. Sgarbi, Ecce Caravaggio, Milano, 2021. Un altro esempio particolarmente interessante è riportato in M. Farneti, Quali rimedi contrattuali in caso di vendita di opere d’arte di paternità controversa, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2011 p. 429 ss, p. 429, il quale descrive l’episodio occorso durante un’asta francese, nella quale un piccolo quadretto di 25 cm per 30 venne presentato in catalogo come opera di autore anonimo di «scuola del XIX sec.», e stimato circa 100 Euro. Alla fine dell’asta, dopo una lunga serie di rilanci, l’opera fu aggiudicata al prezzo di 350.000 euro, escluse tasse e diritti d’asta. L’immediato entusiasmo dei venditori si trasformò in profonda delusione nel momento in cui si individuò l’identità dell’autore anonimo in Caspar David Friedrich e si stabilì che il dipinto era la «Civetta su un albero» della quale si erano perse le tracce.
[2] In questo senso vd. A. L. Bandle, The Sale of Misattributed Artworks and Antiques at Auction, Cheltenham 2016, p. 7 ss.
[3] In verità, anche qualora l’autentica provenga dall’artista e sia dallo stesso autografata, potrebbero porsi dei problemi. Gli esempi non mancano: De Chirico, richiesto di pronunciarsi su quale di due opere a lui attribuite fosse autentica e quale fosse la copia, rispose con un’affermazione assai vaga, secondo la quale «né l’una è copia dell’altra né l’altra è copia dell’una» (su De Chirico si veda V. Carbone, I de chirico di De Chirico, nota a Trib. Roma Sez. V, 21 gennaio 1989, n. 669, in Corr. giur., 1989, p. 860 e ss.). Mario Schifano, dopo aver venduto personalmente alcune opere a dei collezionisti, le rinnegò in seguito a un accertamento fiscale. Questi due esempi dimostrano come il mercato dell’arte sia spesso rischioso e come quella che oggi appare come un’attribuzione certa e incontestabile domani potrebbe essere messa in discussione, con conseguente crollo del valore del bene. Sul tema dell’expertise, con particolare riguardo agli strumenti musicali, si veda R. Calvo, Expertise degli strumenti ad arco e affidamento nel prisma della responsabilità senza contratto, in Contratto e impr./Europ., 2010, p. 1 ss.
[4] L’allegato A (Integrativo della disciplina di cui agli artt. 63, comma 1; 74, commi 1 e 3) elenca una lunga serie di cose: «A. Categorie di beni:
1. Reperti archeologici aventi più di cento anni provenienti da a) scavi e scoperte terrestri o sottomarine; b) siti archeologici; c) collezioni archeologiche.
2. Elementi, costituenti parte integrante di monumenti artistici, storici o religiosi e provenienti dallo smembramento dei monumenti stessi, aventi più di cento anni.
3. Quadri e pitture diversi da quelli appartenenti alle categorie 4 e 5 fatti interamente a mano su qualsiasi supporto e con qualsiasi materiale (aventi più di settanta anni e non appartenenti all’autore)
4. Acquerelli, guazzi e pastelli eseguiti interamente a mano su qualsiasi supporto (NdR aventi più di settanta anni e non appartenenti all’autore).
5. Mosaici diversi da quelli delle categorie 1 e 2 realizzati interamente a mano con qualsiasi materiale e disegni fatti interamente a mano su qualsiasi supporto (NdR aventi più di settanta anni e non appartenenti all’autore).
6. Incisioni, stampe, serigrafie e litografie originali e relative matrici, nonché manifesti originali (NdR aventi più di settanta anni e non appartenenti all’autore).
7. Opere originali dell’arte statuaria o dell’arte scultorea e copie ottenute con il medesimo procedimento dell’originale, diverse da quelle della categoria 1.
8. Fotografie, film e relativi negativi (NdR aventi più di settanta anni e non appartenenti all’autore).
9. Incunaboli e manoscritti, compresi le carte geografiche e gli spartiti musicali, isolati o in collezione (NdR con la ovvia eccezione degli incunaboli, gli altri beni devono avere più di settanta anni e non appartenenti all’autore).
10. Libri aventi più di cento anni, isolati o in collezione.
11. Carte geografiche stampate aventi più di duecento anni.
12. Archivi e supporti, comprendenti elementi di qualsiasi natura aventi più di cinquanta anni.
13. a) Collezioni ed esemplari provenienti da collezioni di zoologia, botanica, mineralogia, anatomia; b) Collezioni aventi interesse storico, paleontologico, etnografico o numismatico.
14. Mezzi di trasporto aventi più di settantacinque anni.
15. Altri oggetti di antiquariato non contemplati dalle categorie da 1 a 14, aventi più di settanta anni.
B. Valori applicabili alle categorie indicate nella lettera A (in euro):
1) qualunque ne sia il valore 1. Reperti archeologici; 2. Smembramento di monumenti; 9. Incunaboli e manoscritti; 12. Archivi.
2) 13.979,50 5. Mosaici e disegni; 6. Incisioni; 8. Fotografie; 11. Carte geografiche stampate
3) 27.959,00 4. Acquerelli, guazzi e pastelli
4) 46.598,00 7. Arte statuaria; 10. Libri; 13. Collezioni; 14. Mezzi di trasporto; 15. Altri oggetti
5) 139.794,00 3. Quadri».
L’allegato è stato modificato dall’art. 2-decies, comma 1, d.l. 26 aprile 2005, n. 63, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 giugno 2005, n. 109; successivamente l’art. 2-decies è stato abrogato dall’art. 4, comma 1, lett. b), d.l. 17 agosto 2005, n. 164, non convertito in legge (Comunicato 18 ottobre 2005, pubblicato nella Gazz.Uff. 18 ottobre 2005, n. 243). Da ultimo è stato modificato dall’art. 5, comma 1, lett. a), b) e c), d.lgs. 24 marzo 2006, n. 156, dall’art. 1, comma 10, d.lgs. 7 gennaio 2016, n. 2 e dall’ art. 1, comma 175, lett. l), l. 4 agosto 2017, n. 124.
[5] L’abrogazione non è stata operata dal Codice dei beni culturali, ma dal d. lgs. 114/1998. Cfr. A. Giuffrida, Contributo allo studio della circolazione dei beni culturali in ambito nazionale, Milano 2008, p. 353.
[6] Per i beni che superano il valore soglia indicato nel decreto ministeriale, la descrizione deve essere dettagliata (art. 63 c. 2 ultima frase del codice).
[7] Così M. Buonauro, sub Art. 63, in G. Leone, A. L. Tarasco, a cura di, Commentario al Codice dei beni culturali, Padova, 2006, p. 427, il quale rileva che l’obbligo di registrazione non è collegato alla valenza culturale del bene, quanto piuttosto alla necessità di assicurare una maggiore certezza con riguardo alla circolazione di determinati tipi di beni.
[8] A. Milone, sub art. 63, in M. A. Sandulli, Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano 2006, p. 477.
[9] Ibidem.
[10] In questo G. Magri, Beni culturali e acquisto a non domino, in Riv. dir. civ., 2013, p. 746.
[11] Secondo R. Tamiozzo, G. Veccia, sub art. 63, in R. Tamiozzo, a cura di, Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano 2005, p. 290 la norma prevederebbe un vero e proprio diritto di accesso a favore della soprintendenza, limitatamente ai beni del settore archivistico e documentario
[12] Così Cass pen. 6 luglio 2007 (ud. 13 marzo 2007), n. 26072, in Giur. It. 2008, p. 425 ss., secondo la quale «In tema di disciplina sui beni culturali di cui al testo unico approvato con il D. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, contrariamente al senso letterale dell’art. 2, VI comma, le disposizioni di cui all’art. 63, che impongono ai venditori e ai commercianti di rilasciare attestati di autenticità e di provenienza delle opere, e quelle di cui agli artt. 127 e 128, che incriminano la contraffazione e l’alterazione di opere d’arte se non accompagnate da una dichiarazione di non autenticità, si applicano anche alle opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni», con nota di F. Pavesi, In tema di falsificazione delle opere d’arte, ivi, p. 428 ss.
[13] A. Giuffrida, op. cit., p. 356.
[14] G. Frezza, Arte e diritto fra autenticazione e accertamento, Napoli, 2019, passim e, con riguardo all’azione di accertamento dell’autenticità, R. Donzelli, Sull’azione di mero accertamento dell’autenticità dell’opera d’arte, in Rass. dir. moda e arti, 2022, p. 31 ss.
[15] Celebre l’esempio del Battesimo di Cristo realizzato dal Verrocchio con l’apporto del giovane Leonardo che dipinse il volto di un angelo in modo magistrale, tanto che il Vasari, a proposito del dipinto, nelle sue Vite, ebbe a scrivere che «in questa opera aiutandogli Lionardo da Vinci allora giovanetto e suo discepolo, vi colorì un Angelo di sua mano, il quale era molto meglio che l’altre cose; il che fu cagione che Andrea si risolvette a non voler toccare più pennelli, poiché Lionardo, così giovanetto in quell’arte, si era portato molto meglio di lui».
[16] Cfr. Tribunale di Milano, Sez. Proprietà industriale e intellettuale, 14 luglio 2012, n. 8626, in Danno e responsabilità, 2014, p. 287 ss. con nota critica di C. Gabbani, Responsabilità aquiliana da errato parere sulla datazione di un’opera d’arte: la portata giustificativa dell’art. 21 Cost.
[17] Cfr. C. Gabbani, op. loc. cit.
[18] Cfr. A. Barenghi, L’attribuzione di opere d’arte. Vero o falso?, in Il Corriere giuridico, 2019, p. 1093 ss., pp. 1103 e s. ove si afferma che «l’obbligo risarcitorio del soggetto che esprime il giudizio risulta normalmente vincolato alla ricorrenza del dolo o di una colpa grave particolarmente qualificata» e si precisa che «il problema, già delicato di per sé, della responsabilità da informazioni qui assume una tonalità particolarmente sfumata, perché riguarda la formazione di un giudizio (necessariamente insindacabile), di un processo conoscitivo, il che di per sé non può essere privo di conseguenze nella configurazione della fattispecie di responsabilità. Sicché finisce per diventare quasi secondario richiamare, sotto il profilo della responsabilità contrattuale, il principio dell’art. 2236 c.c., e le clausole di limitazione o di esonero da responsabilità che abitualmente vengono stipulate, ovvero le esplicite delimitazioni convenzionali dell’oggetto dell’obbligo. Così come appare solo rafforzativo, sul terreno extracontrattuale, laddove in ipotesi una simile responsabilità risulti configurabile (come nel caso de Chirico)»
[19] I falsari operano da sempre nel mercato dell’arte, uno dei casi più noti fu quello di Han van Meegeren, falsario olandese che, se da giovane venne considerato un artista fallito, apprese le tecniche di falsificazione da Theo Van Wijngaarden, famoso restauratore e falsario operante ad Amsterdam. Van Meegeren, affascinato dalla pittura olandese del seicento e in particolare da Vermeer, si impadronì delle tecniche e dello spirito di Vermeer. Per i suoi falsi utilizzò tele originali del ‘600, prive di valore artistico, da cui raschiava accuratamente il colore. Non copiò mai opere esistenti di Vermeer esistenti, ma creò dipinti nuovi caratterizzati da un’aderenza stilistica assolute, in modo da ingannare anche i critici d’arte. Con la sua attività da falasario, van Meegeren si era voluto vendicare di coloro che non l’avevano mai apprezzato come pittore. Nel corso della sua attività riuscì a vendere a Heinrich Himmler, dipinti falsi per un valore di cinque milioni e mezzo di fiorini e un falso Vermeer (Cristo e l’adultera) a Hermann Göring.
Van Meegeren creò in tutto 6 falsi Vermeer e, per aver venduto due dipinti a dei capi nazisti, alla fine della guerra fu arrestato con l’accusa di collaborazionismo. Fu processato in Olanda nell’ottobre del 1947 e riuscì a evitare l’ergastolo soltanto rivelando d’essere un falsario e d’avere venduto ai tedeschi dei falsi. Per dimostrarlo, dipinse nell’aula del tribunale un Gesù nel tempio, che molti esperti definirono stupendo. Sulla storia di van Meegeren si veda E. Dolnick, Der Nazi und der Kunstfälscher, Berlino 2014, più in generale sul tema die falsari nel mercato dell’arte si veda H. Bellet, Falsari illustri, Milano 2019.
[20] Cfr. Comando Carabinieri, Tutela patrimonio culturale, Attività operativa 2021 disponibile all’indirizzo https://www.beniculturali.it/comunicato/23137#allegati. Sul tema si vedano anche gli aneddoti contenuti in S. Facchinetti, Storie e segreti dal mercato dell’arte, Bologna 2019, p. 77 ss.
[21] Così A. Papa, sub art. 64, in V. Italia, a cura di, Testo unico sui beni culturali, Milano 2000, p. 177 e A. Milone, op. cit., p. 479.
[22] M. Buonauro, sub art. 64, in G. Leone e A. L. Tarasco, a cura di, Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Padova, 2006, p. 429.
[23] La tesi è sostenuta da A. Giuffrida, op. cit., p. 360.
[24] R. A. M. Muscio, La prelazione artistica, in E. Follieri, a cura di, Il diritto dei beni culturali e del paesaggio, Napoli, 2005, p. 203.
[25] Sul problema dell’attribuzione si vedano S. Facchinetti, op. cit., p. 15 ss. e A. Barenghi, op. cit., il quale a p. 1095 e s. osserva che «Il tema fondamentale è quello di discriminare l’opera d’arte autentica da quella che autentica non è.
Il problema dell’autenticità o meno di un’opera d’arte riguarda innanzitutto il rapporto tra autore (o presunto tale) e possessore dell’opera, poi quello tra cedente e cessionario della stessa, tra conoscitore o studioso, autore e possessore, si pone poi rispetto al pubblico, e può essere infine variamente declinato nei confronti del potere giudiziario, il quale in determinati casi può (e in altri invece, come si vedrà, non può) essere chiamato a prendere in considerazione simili problemi, e quando lo fa rischia di rivelarsi controproducente.
L’inserimento o meno dell’opera nel catalogo dell’artista, la sua inclusione o la sua esclusione dalla retrospettiva in corso di preparazione, la rivendicazione o il ripudio della paternità da parte dell’autore o del presunto autore, o ancora la pubblicazione di giudizio sull’attribuzione dell’opera possono determinare conseguenze sulla circolazione dell’opera che assumono un particolare rilievo quando ne sia contestato il fondamento: l’opera considerata ‘buona’ che invece viene esclusa, o viceversa l’opera considerata falsa che viene inclusa e validata.
Appare evidente il peso che le diverse circostanze accennate possono assumere in ordine alla circolazione dell’opera e alla sua collocazione nel mercato. Ne possono discendere questioni, di non sempre facile soluzione, in termini di responsabilità».
[26] Sul tema si veda G. Frezza, op. cit., p. 75 ss. e R. Donzelli, op. loc. cit.
[27] In questo senso Tribunale di Milano Sez. spec. Impresa, 15 febbraio 2018, n. 4754, Il Diritto di Famiglia e delle Persone, 2019, p. 660: «È ammissibile tout court l’azione di accertamento dell’autenticità di un’opera d’arte se fondata su elementi (scientifici e fattuali) incontrovertibili. È inammissibile la condanna all’inserimento nel catalogo generale di un artista, curato da un ente che svolge un’attività di archiviazione delle opere d’arte, rappresentando quest’ultima la libera manifestazione del pensiero, e, come tale, trattandosi di un’attività incoercibile».
[28] Così Tribunale , Roma , sez. XVII , 21 giugno 2018, in Il Diritto di Famiglia e delle Persone, 2018, p. 1409I «Premesso che le azioni di mero accertamento possono avere ad oggetto, al pari di ogni forma di tutela giurisdizionale contenziosa, soltanto i diritti e non anche i fatti, sia pure giuridicamente rilevanti, non esiste un diritto giudizialmente tutelabile all’accertamento dell’autenticità di un’opera d’arte, così come non è configurabile un potere giudiziale di accertare con carisma di verità dell’autenticità di un’opera d’arte: in tal caso, infatti, l’accertamento richiesto non interessa la titolarità del diritto, ma un elemento di fatto neutrale sotto il profilo giuridico e che assume rilevanza solo per la determinazione del valore commerciale dell’opera».
[29] R. Donzelli, op. loc. cit.
[30] Ibidem.
[31] Sul tema si vedano, senza pretese di completezza, G. Amorth, In tema di errore nella compravendita di opere d’arte antiche, in Foro it., 1948, I, c. 679; A. Caccia, L’errore e l’inadempimento nella compravendita di dipinti antichi, in Vita not., 1985, p. 993 ss.; P. L. Carbone, La vendita di opere d’arte non autentiche, in Giur. It., 1994, p. 411; R. Campagnolo, L’errore sull’identità dell’autore nella negoziazione di opere d’arte, in Resp. civ. prev., 2000, p. 1093 ss.; F. Carresi, Sulla presunta aleatorietà della compravendita di opere d’arte, in Giur. compl. Cass civ., 1948 III, p. 865 e ss.; G. De Cristofaro, R. Calvo, I contratti del turismo, dello sport e della cultura, Torino 2010; F. Di Ruzza, Vendita d’opera d’arte non autentica e risarcimento del danno, in Giur. it., 1985, I, 1, p. 520; M. Costanza, Commercio e circolazione delle opere d’arte, Padova, 1998; M. Fabiani, Riproduzione di opera d’arte non autenticata dall’autore e diritto di paternità intellettuale, in Giur. it., 1985, I, p. 81 ss.; M. Farneti, op. loc. cit..; A. Fragola, Il falso d’autore, in Dir. d’aut., 1980, p. 259 ss.; S. Gatti, L’opera d’arte figurativa in un unico esemplare fra diritto di proprietà e diritto d’autore, in Riv. dir. comm., 1999, p. 1ss.; R. Sacco, L’errore sulla paternità del quadro, in Riv. dir. comm., 1949, II, p. 192 ss.
[32] Sul problema delle erronee attribuzioni, con particolare riferimento alle opere c.d. dormienti, cfr. A. L. Bandle, op. loc. cit.
[33] Cfr. Cass. 2 febbraio 1998, n.985, in Resp. civ. e prev., 2000, p. 1099 ss., con nota di R. Campagnolo, cit.
[34] R. Campagnolo, op. loc. cit.
[35] V. Pietrobon, L’errore nella teoria del negozio giuridico, Milano 1962, p. 494; R. Sacco, Riconoscibilità e scusabilità dell’errore, in Riv. dir. civ., 1948, p. 181 ss., spec. p. 186 ss.
[36] Cass. 11 giugno 1942, n.1635, in Rep. Foro it, voce vendita, n. 63 e Cass. 21 aprile 1956, n. 1220,in Rep. Foro it., 1956, voce vendita n. 35.
[37] Cfr. L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato, Napoli, 1948, p. 487.
[38] P. Gallo, Il contratto, Torino 2017, p. 716 s.
[39] Con riguardo alle opere d’arte si è osservato che «L’errore giuridicamente concepibile tollera solo una certezza presente e riveste i contenuti di una falsa rappresentazione soltanto rispetto a fatti conosciuti o conoscibili al momento della conclusione dell’accordo a nulla rilevando eventuali fatti sopravvenuti in termini di alterazione di una precedente communis opinio», così F. Volpe, in nota a Cass. 985/1998, in I Contratti, 1998, p. 441 ss.
[40] In questo senso A. M. Musy, S. Ferreri, I singoli contratti I, La vendita, in R. Sacco, Trattato di diritto civile, Torino 2006, p. 179 s.
[41] R. Sacco G. De Nova, Il contratto, IV ed., Torino 2016, p. 511 s.
[42] Ibidem.
[43] Ibidem.
[44] F. Formica, Errore ostativo fittizio ed errore ostativo effettivo: interpretazione ed annullabilità del contratto, in Giur. compl. Cass. civ., 1955, III, p. 14 ss.; R. Quadri, La rettifica del contratto, Milano 1973.
[45] Sui risvolti giusprivatistici del falso artistico si veda E. Jayme, Mercato dei falsi e diritto civile (con spunti di diritto internazionale privato). in Studi in onore di Giorgio Cian, vol. II, Padova 2010, p.1389 ss. Sul tema dell’autenticità dell’opera d’arte si veda, invece, A. Donati, Autenticità, Authenticité, Authenticity dell’opera d’arte, in Riv. dir. civ., 2015, p. 987 ss.
[46] Con riferimento all’opera falsa e alla riduzione del suo apprezzamento, rispetto all’originale, suonano particolarmente significative le parole di J.H. Merryman, The Public Interest in Cultural Property, in California Law Review, 1989, 77, p. 339 ss., il quale osservava che «When we stand before the authenticDomesday Book in the Public Record Office in London or the manuscript of Justinian’s Digest in the Gregorian Library in Florence, we feel a sense of satisfaction. When we discover that the original of the Digest manuscript is kept elsewhere for protection and we have actually been looking at a reproduction, we feel cheated, no matter how accurate the reproduction might be. The magic that only the authentic object can work is dissipated».
[47] Cfr. Cass., 11 giugno 1942, n. 1635, in Rep. Foro it., 1942, voce vendita, n. 63 che ha escluso l’applicazione della disciplina dell’inadempimento, ripiegando su quella dell’errore. Nella sentenza la Corte escludeva che la vendita di opere d’arte (nella specie un quadro antico) potesse essere inquadrata tra i negozi aleatori. La disciplina dell’errore, peraltro, consente all’acquirente di avvalersi del termine prescrizionale quinquennale che decorre non già dal momento della consegna, come nel caso dei vizi, ma da quello in cui l’errore è stato scoperto (art. 1442, co. 2, c.c.). Merita richiamare la ricostruzione storica di G. Calabi e R. Zollino, Caveat emptor: come si tutelano l’acquirente e il venditore nel caso di vendita di opera d’arte non autentica, in Aedon 2/2004, secondo i quali «la giurisprudenza… nel primo approccio al problema, ravvisando nella oggettiva incertezza della materia e nella difficoltà di giungere alla sicura attribuzione di un’opera ad un determinato autore un carattere di aleatorietà, respinge sistematicamente le domande di annullamento proposte dagli acquirenti, in base al principio che a causa dell’oggettiva incertezza sulla paternità di un’opera, l’errore su di essa non produce l’annullamento del contratto in quanto non rilevante, giungendo così – rifiutato anche l’inquadramento della fattispecie nella categoria dell’inadempimento sul presupposto che “il fatto che l’autore sia diverso può reagire sulla conclusione e non sulla esecuzione del contratto” – all’ingiustificato estremo di lasciare l’acquirente sprovvisto di qualsiasi tutela». Successivamente, L’orientamento che riconosce alla vendita dell’opera d’arte il carattere dell’aleatorietà – fortemente avversato dalla dottrina, convinta che l’incertezza oggettiva sulla paternità dell’opera d’arte non è in grado di incidere sulla classificazione del contratto, inficiandone il carattere commutativo e provocandone la traslazione nella categoria dei contratti aleatori – rimane isolato e viene ben presto superato». Secondo l’orientamento successivo pur «svincolato dai dettami di una valutazione volta a ricondurre la fattispecie entro i caratteri dell’aleatorietà, giunge comunque a negare tutela all’acquirente, respingendo le domande di annullamento sul presupposto che l’incertezza oggettiva sulla paternità dell’opera rende l’errore sulla stessa irrilevante». Si affermava, infatti che «L’errore deve essere innanzitutto essenziale. […] Astrattamente non può esservi dubbio, dottrina e giurisprudenza concordi riconoscono, che per un’opera d’arte l’autenticità sia qualità sostanziale indipendentemente dall’influenza che possa avere sul suo valore; ma occorre anche considerare che l’errore presuppone una obiettiva certezza sulla sostanza della cosa, e tale elemento manca nella determinazione dell’autore di un’opera d’arte quando non soccorrano elementi probatori documentali e dati storici che consentano di stabilire con assoluta certezza la paternità. Non può pertanto essere fatto valere come causa di annullamento del contratto l’errore in cui una parte pretenda di essere incorsa circa la paternità di un’opera d’arte di cui è controverso l’autore» (Cfr. Trib. Milano 12 giugno 1947, in Giur. it, 1948, I, 2, 193.).
[48] In questo senso si veda Cass., 26 gennaio 1977, n. 392, in Mass. giust. civ., 1977. È appena il caso di precisare che il termine vizio va inteso anche come mancanza di conformità ai sensi della disciplina in materia di vendita di beni di consumo. Secondo Cass. 27 novembre 2018, n. 30713, in Resp. civ e prev. 2019, p. 1288 ss. se «La negoziazione, avvenuta come genuine, di res poi rivelatesi false appartiene propriamente alla categoria dell’aliud pro alio», la diversa ipotesi della «falsità della data costituisce mero vizio redibitorio».
[49] Sull’applicabilità della disciplina in materia di vendita di beni di consumo al mercato dell’arte si vedano R. Calvo, Vero e falso nel prisma dei sistemi di diritto continentale, in R. Calvo, M. G. Chiavazza, a cura di, L’autenticità degli strumenti ad arco, Torino 2010, p. 2 e s.
[50] Cfr. App. Bologna, 4 gennaio 1993, in Dir. aut., 1993, p. 487.
[51] Così A. M. Musy, S. Ferreri, op. loc. cit.
[52] R. Campagnolo, op. cit., p. 1093.
[53] Così Cass., 14 ottobre 1960, n. 2737, in Foro it., 1960, I, c. 1914 ss. e da ultimo Cass. 25 gennaio 2018, n. 1889, in Resp. civ. e prev., 2018, p. 633 ss., secondo la quale «Agli effetti previsti dall’ art. 2935 c.c. , il termine di prescrizione del diritto dell’acquirente alla risoluzione del contratto ed al risarcimento del danno, derivante dalla vendita di aliud pro alio, decorre non dalla data in cui si verifica l’effetto traslativo, ma dal momento in cui, rispettivamente, ha luogo l’inadempimento e si concreta la manifestazione oggettiva del danno, avendo, cioè, riguardo all’epoca di accadimento del fatto lesivo, per come obiettivamente percepibile e riconoscibile, e non al dato soggettivo della conoscenza della mancata attuazione della prestazione dovuta e del maturato diritto risarcitorio da parte del creditore, conoscenza che potrebbe essere colpevolmente ritardata pure per incuria del medesimo titolare del diritto».
[54] R. Calvo, op. loc. cit.
[55] Cfr. Cass., 27 novembre 2018, n. 30713, cit., p. 1288 ss. e Cass. 1 luglio 2008, n. 17995, in Giust. civ. Mass. 2008, p. 1071, secondo la quale «La cessione di un’opera d’arte falsamente attribuita ad artista che in realtà non ne è stato l’autore costituisce una ipotesi di vendita di aliud pro alio, e legittima l’acquirente a richiedere la risoluzione del contratto per inadempimento del venditore, ex art. 1453 c.c.». Per Cass. 14 novembre 1983 n. 2457, in Giur. it. 1985, I, 1, 25 l’acquirente di un quadro venduto come opera d’autore e risultato poi non autentico può chiedere la risoluzione del contratto.
[56] Cass. 14 ottobre 1960, n. 2737 in Giur. it., 1961, p. 4.
[57] Cfr. Cass. 1 luglio 2008, n. 17995, cit.
[58] Cass. 3 luglio 1993, n. 7299, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 410 ss.
[59] Cfr. R. Calvo, op. ult. cit., p. 38 e s.
[60] Cfr. Cass. 8 giugno 2011, n. 12527, in Giust. civ., 2012, I, p. 1559 ss., secondo la quale: «La cessione di un’opera d’arte pur autentica, ma modificata e rimaneggiata in modo tale da non essere più corrispondente all’originale concepito dall’artista, costituisce una ipotesi di vendita di aliud pro alio, giacché soltanto nell’integrale consistenza in cui è stata creata dall’autore l’opera d’arte può reputarsi genuina, posto che l’essenziale sua unitarietà fa rifluire sul tutto la non autenticità anche solo di una parte. Ne consegue che l’acquirente è legittimato a richiedere la risoluzione del contratto per inadempimento del venditore, ex art. 1453 c.c.».
[61] Cfr. G. Calabi e R. Zollino, op. cit.
[62] Ibidem.
[63] In questi termini Cass., 16 aprile 1984, n. 2457, in Mass. giust. civ., 1984. La massima recita: «Poiché la risoluzione del contratto per inadempimento comporta l’obbligo del contraente inadempiente di rifondere all’altra parte, a titolo di risarcimento del danno, anche il lucro che abbia perduto in conseguenza della mancata esecuzione della prestazione, non vi è dubbio che, nel caso di risoluzione, per inadempimento del venditore, della compravendita di un quadro dichiarato d’autore, rivelatosi non autentico, deve essere riconosciuto al compratore il diritto non soltanto alla restituzione del prezzo versato, ma anche al risarcimento del maggior valore che il quadro avrebbe avuto se fosse stato autentico, ma tale principio (…) in caso di colpa non può essere applicato anche per il maggior valore acquistato dal quadro dopo la vendita, che non è prevedibile». Si veda anche Cass., 14 novembre 1983, n. 2457, in Giur. it., 1985, I, 1, p. 520. Sul punto cfr. E. Damiani, Vendita di quadro falso e decorrenza del termine di prescrizione, Rass. dir. moda e arti, 2022, p. 157 e ss., spec. p. 161.
[64] In questo senso si veda Cass. 25 maggio 2007, n.12235, in Rass. dir. civ. 2008, p. 1134, con commento di R. Pennazio. La sentenza afferma che: «La presupposizione, non attenendo all’oggetto, né alla causa, né ai motivi del contratto, consiste in una circostanza ad esso “esterna”, che pur se non specificamente dedotta come condizione ne costituisce, specifico ed oggettivo presupposto di efficacia, assumendo per entrambe le parti, o anche per una sola di esse – ma con riconoscimento da parte dell’altra – valore determinante ai fini del mantenimento del vincolo contrattuale, il cui mancato verificarsi legittima l’esercizio del recesso. (Nell’affermare il suindicato principio, con riferimento a vicenda concernente contratto stipulato tra il Comune di Genova e la società Italsider s.p.a. – oggi Fintecna s.p.a. – di permuta di terreno di proprietà di quest’ultima con un quantitativo – da fornirsi con consegne ripartite in 20 anni – di mc. 200 milioni di acqua industriale, da prodursi a mezzo di ivi costruendo depuratore di acque nere o altrimenti proveniente da fonti sostitutive, la S.C. ha escluso che il corretto funzionamento dell’impianto e la fornitura di acqua con le pattuite caratteristiche potessero qualificarsi come “presupposto implicito”, affermandone l’inerenza viceversa alla qualità del bene)».
[65] Sul tema appare di notevole interesse il testo a cura di A. L. Bandle e F. Elsig, Risques et périls dans l’attribution des oeuvres d’art: de la pratique des experts aux aspects juridiques, LGDJ 2018.
[66] In proposito C. M. Bianca, La vendita e la permuta, Torino 1962, p. 303, osserva che per il difetto di qualità non è sufficiente che l’opera sia dichiarata e venduta come di un certo autore noto, ma occorre che il venditore abbia fatta come propria tale attribuzione. La semplice dichiarazione che l’opera è stata attribuita a un certo autore non implicherebbe, secondo l’illustre autore, che il venditore ne garantisca l’autenticità. La tesi appare corretta sul piano teorico, ma all’atto pratico può risultare problematico distinguere la linea di confine che separa il venditore che si limita a riportare l’attribuzione, da quello che, riportando enfaticamente l’attribuzione e sperando di incidere sulla volontà dell’acquirente, finisca di fare propria l’attribuzione. In proposito P. Greco, G. Cottino, Della vendita, in Tratt. Scialoja-Branca, Bologna 1981, p. 245 osservano che le formule “attribuito” o “attribuibile” se non implicano la garanzia di autenticità, dovrebbero comunque comportare la «garanzia di un fatto storico», ossia che la critica attendibile attribuisce l’opera ad un certo autore.
[67] In questo senso E. Guerinoni, op. cit. p. 19.
[68] Corte d’appello di Roma 23 novembre 1948, in Riv. dir. comm., 1949, p. 192 ss., con nota di R. Sacco, L’errore sulla paternità del quadro, cit.
[69] Soluzioni analoghe sono registrabili anche in altri ordinamenti. In Francia, ad esempio, Cass. 1ère civ. 16 octobre 1979, in Gazz. du Palais, 1980, Somm., 60 ha annullato la vendita di un quadro attribuito dagli esperti alla “scuola di”, mentre poi si è scoperto essere opera autentica di Fragonard. La decisione della Cassazione faceva leva sul fatto che l’acquirente del dipinto era uno degli esperti che, in prima battuta, aveva contestato l’attribuzione a Fragonard, sminuendo il valore dell’opera. Sul caso si veda J. Chatelain, L’objet d’art, objet de droit, in Études offertes a Jacques Flour, Paris, Répertoire du notariat Defrénois 1979, p. 63 ss. Prima dell’affaire Fragonard la Cassazione francese si era già pronunciata in termini analoghi nel caso Poussin (Cass. 22 février 1978, in Rec. Dalloz Sirey Hebd., 1978, Jur. p. 601). La fattispecie sottoposta alla Corte riguardava un quadro giudicato opera della scuola di Carraccio e offerto in vendit a prezzo modesto. Lo Stato francese esercitava la prelazione sul quadro e lo esponeva nei musei nazionali come opera di Poussin. La Corte d’appello negava l’annullamento del contratto osservando che era mancante la prova dell’attribuzione a Poussin e che, con riguardo alle opere d’arte, un’incertezza nell’attribuzione è spesso inevitabile. La Cassazione, invece, ammise che potesse configurarsi un vizio della volontà nel caso in cui si fosse accertato che i venditori fossero convinti che l’opera non potesse essere di Poussin, la causa veniva quindi rinviata alla Corte d’appello perché accertasse tale elemento. Probabilmente in questa ipotesi la Corte ha ritenuto sospetta la circostanza che lo Stato abbia esercitato la prelazione ed esposto il quadro nei musei nazionali ritenendo che si trattasse di un’opera di maggior pregio e omettendo di informare il venditore. Sui due casi si veda A. Musy, S. Ferreri, op. cit., p. 179, nota 89.
[70] A. L. Bandle, op. cit., p. 7 e s.
[71] Cfr. E. Guerinoni, Buona fede contrattuale e obblighi di informazione, in PMI, 2007, p. 17 ss., spec. p. 19.
[72] Cass. 14 Gennaio 2022, n. 996, in Rass. dir. moda e arti, 2022, p. 157 e ss., con osservazioni di E. Damiani, Vendita di quadro falso e decorrenza del termine di prescrizione, cit.
[73] Cass. 9 novembre 2012, n. 19509, in Corr. Giur., 2013, p. 463 ss.
[74] E. Damiani, op. cit., p. 161.
[75] Ibidem.
[76] Cfr. ad es. Cass. 27 novembre 2018, n. 30713, cit.