Diritto, moda e nuove tecnologie: chi risponde dei danni ambientali prodotti all’estero?

Valentina Zampaglione

Assegnista di ricerca in diritto privato, Università degli Studi di Napoli Federico II, Ph.d.

Il saggio mette in luce lo stretto legame che intercorre tra il diritto, la moda e le nuove tecnologie, precisando il ruolo che ciascuno di questi fattori ricopre nell’ ambito della delicata problematica del degrado ambientale derivante dall’ uso distorto del modello di società multinazionale. Il tema approfondito si lascia apprezzare per le recenti novità registrate nella politica ambientale internazionale e nella legislazione comunitaria sulla responsabilità sociale d’ impresa e sulle intelligenze artificiali.

The essay highlights the link between law, fashion and new technologies, specifying the role that each of these factors plays in the matter of environmental degradation, caused by the abuse of the multinational company model. The in-depth topic can be appreciated for the recent innovations recorded in international environmental policy and in EU legislation on corporate social responsibility and artificial intelligence.

Sommario: 1. Introduzione. –  2. L’ uso distorto dello schema delle imprese multinazionali e i primi tentativi di responsabilizzazione delle attività. – 3. Un modello virtuoso: la loi francese n. 2017-399. –  4. La disciplina italiana. – 5. L’ intervento del legislatore comunitario: le direttive Corporate responsability due diligence e Corporate sustainability Reporting (CSRD).

1. La forte concorrenza che governa il mercato globale, sempre più informatizzato, ha costretto molte imprese, soprattutto del comparto tessile, a spostare la propria attività all’ estero, dove i costi di produzione sono più bassi, anche per le minori restrizioni poste a tutela dell’ ambiente. Ma chi risponde dei danni ambientali prodotti all’ estero dalle affiliate? Sulla spinta del vigoroso movimento di opinione fortemente sostenuto dall’ Onu e dall’ Oecd e sull’ esempio dalla loi francese n. 2017-399, la Commissione europea ha adottato il 23 febbraio 2022 la proposta di direttiva Corporate responsability due diligence e il 21 aprile 2021 la proposta di direttiva Corporate sustainability Reporting (CSRD) con cui, in linea con la politica del green deal europeo, ha manifestato la sua apertura al riconoscimento della responsabilità d’ impresa, già anticipata a livello giurisprudenziale[1].

2. Il fenomeno d’ interconnessione ed interdipendenza tra Stati, meglio noto come globalizzazione[2], ha avuto l’ effetto, tra gli altri, di ridisegnare l’ assetto dei mercati: si è passati da una pluralità di economie nazionali ad un’ unica economia mondiale, retta da principi neo-liberisti. Ad agevolare l’ integrazione dei mercati è stata l’ istituzione della WTO[3] e la liberalizzazione degli scambi che ne è seguita[4].

In tale contesto si è affermata la pratica delle imprese multinazionali[5], che se da una parte ha favorito la crescita economica delle nazioni, in particolare di quelle meno sviluppate; dall’ altra, ha avuto l’ effetto di americanizzare il mondo[6], di diffondere la strategia capitalista[7] e, a volte, anche di destabilizzare le istituzioni statali.[8]

Attraverso lo schema delle imprese multinazionali è possibile dislocare le attività laddove è più conveniente, non solo in termini di costi. Molto spesso la scelta è studiata per andare esenti da responsabilità, ad esempio, per la violazione del diritto della concorrenza, per la corruzione di ufficiali stranieri o anche per la deturpazione dell’ ambiente. Infatti, questo schema consente di invocare la giurisdizione delle corti dei Paesi ospitanti, agevolandosi per l’ applicazione di norme più favorevoli[9]

Per ben comprendere la delicata questione occorre precisare che le società multinazionali si caratterizzano per la dicotomia tra l’ unità economica e la pluralità giuridica dell’ impresa[10], per il controllo effettivo esercitato dalla holding companies[11] sulle affiliate, sganciato dalla detenzione della maggioranza delle quote,[12] per la nazionalità molto spesso diversa delle società nazionali (cd. affiliate), attraverso le quali è esercitata l’ attività d’ impresa. Da qui la difficoltà di sottoporre ogni diramazione della società ad un’ unica legge ed a standards comuni (e ciò sia quanto alla gestione lavoristica che a quella dell’ ambiente) e la pluralità dei fori competenti, con conseguente possibilità per la holding di sottrarsi alla responsabilità per gli illeciti compiuti dalle affiliate sul territorio dell’ host State.

Per cercare di frenare questo fenomeno, nel 1897, la House of Lords nel caso Salomon v. A. Salomon & Co., Ltd.[13],così come nei successivi casi Re International Tin Council del 1989 e Adams v. Cape Industries plc. del 1990, ha chiaramente precisato che la responsabilità della holding non va esclusa in linea di principio, dovendo verificare caso per caso se la separazione legale tra la parente e la subsidiary company sia solamente formale e dunque una mera copertura[14].

Nel 1789 negli USA, contro la pratica di avvantaggiarsi della più favorevole giurisdizione dei Paesi in via di sviluppo, scelti come host State, è stato adottato l’ Alien Tort Claims Act (ATCA)[15] con cui è stato sancito come sia sufficiente anche un contatto minimo[16] con gli Usa perché la violazione del diritto nazionale[17] sia portata avanti alla giurisdizione civile delle Corti distrettuali statunitensi, a nulla rilevando che la violazione sia imputabile all’ affiliata di un’ impresa multinazionale e, dunque, che il ricorrente straniero non sia fisicamente presente sul territorio americano e l’ illecito non sia stato commesso negli USA. In questo modo è stata garantita una regolamentazione uniforme degli illeciti commessi da società nazionali e società estere ma affiliate di una capogruppo nazionale e un ristoro effettivo ai danneggiati che possono agire dinnanzi a corti tecnicamente avanzate e beneficiare delle garanzie del fair trial of law. Si consideri, poi, la risonanza che ha sul piano dell’ opinione internazionale il fatto di coinvolgere il Paese d’ origine[18]

L’ applicazione della legge della holding alla sussidiaria anche in assenza di un illecito è stata vista come un’ ingerenza intollerabile nella sfera degli altri Stati[19], una violazione della sovranità territoriale altrui e, in generale, delle disposizioni sul trattamento delle persone giuridiche straniere[20]. Così, per soddisfare l’ esigenza di tutelare l’ ambiente ed i diritti fondamentali della persona umana si è pensato anche di riconoscere alle IMN, sebbene a certe condizioni, la soggettività giuridica internazionale[21].

La necessità di conciliare le esigenze di business con il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali dell’ individuo, pur essendo stata sposata da organizzazioni come l’ Onu[22] e l’ Oecd[23], è rimasta a livello di soft law[24]per cui tutti i principi enunciati, ad esempio, dall’ Onu (c.d. Ruggie principles[25]) nel Guiding principles on business and human rights, sono privi di forza cogente. 

In tale contesto, si lascia maggiormente apprezzare il tentativo del legislatore comunitario di affermare, sulla scia dell’ esperienza francese, l’ esistenza in capo alla holding di un dovere di vigilanza (c.d. parental duty of care) e di rispetto di determinati standards nella gestione dell’ attività d’ impresa per andare esente dalla responsabilità per i reati commessi dalle affiliate.

3. La Francia è stato il primo Paese europeo[26] ad aver istituito un sistema di regole che garantiscano la tutela effettiva dei diritti e delle libertà protette dagli atti di soft law delle organizzazioni internazionali[27], spinta dal tragico incendio che, nell’ aprile 2013, ha devastato un edificio sito a Rana Plaza (Bangladesh) adibito alle lavorazioni del settore tessile e dell’ abbigliamento, in cui operavano, in condizioni di sicurezza del tutto precarie ed insufficienti, centinaia di persone in esecuzione di ordini e commesse di imprese straniere o di capogruppo straniere di imprese multinazionali.

Con la loi n. 2017-399, il 27 marzo 2017, è stato modificato il code de commerce nel cui ambito sono stati inseriti gli artt. L 225 -102-4 4 L 225-102-5 che prevedono obblighi di due diligence e di prevenzione dei rischi di lesione dei diritti umani nell’ ambito dell’ impresa, ivi incluse le imprese policentriche e le supply chain.

Più precisamente alle imprese che superino determinate soglie dimensionali[28] e che si avvalgano, per il perseguimento dei propri obiettivi produttivi, della collaborazione di altre imprese (siano esse imprese appaltatrici ovvero subfornitrici, oppure imprese ad essa collegate sulla base di una relazione partecipativa di controllo), è stato posto il dovere di farsi carico anche in queste imprese del rispetto dei diritti umani, dei principi di sicurezza sul lavoro e dei luoghi di lavoro e dei principi di salubrità dell’ ambiente[29].

La strategia è di prevenire la lesione valorizzando il profilo organizzativo dell’ impresa, su cui è fatto gravare un dovere di vigilanza anche stand alone e indipendentemente dalla giurisdizione cui appartengono le imprese controllate, appaltatrici, o subfornitrici. 

In particolare ad esse spetta identificare e procedere con la mappatura dei rischi, ma anche predisporre presidi organizzativi. Tutto questo va documentato nel plan de vigilance[30] . Diversamente dalla denominazione del piano, l’ obbligo non è di vigilanza a che certi misfatti non vengano commessi. L’ impegno richiesto va ben oltre e richiede l’ adozione in concreto di misure organizzative utili e necessarie affinché il rischio del verificarsi di certi sinistri sia correttamente identificato ex ante e siano effettivamente posti in essere presidi per prevenirli. Il piano di vigilanza deve essere elaborato e messo in opera ed è, anche per questo, che è stata prevista la sua pubblicazione, così da consentire a chiunque di controllare lo stato di adempimento. 

A spronare comportamenti virtuosi è soprattutto il puntuale sistema sanzionatorio che fa da corredo alla legge, la cui applicazione scatta dopo soli tre mesi dalla messa in mora dell’ inadempiente. Si pensi che la legittimazione ad agire in giudizio a che venga emessa un’ ingiunzione dall’ autorità giudiziaria e, eventualmente, anche una penale per il ritardo (c.d. astreinte), è riconosciuta a chiunque ne abbia interesse. Oltre all’ ingiunzione ad adempiere e alla penale per il ritardo, contro l’ inadempiente può essere emessa condanna al risarcimento dei danni che l’ osservanza di quella norma avrebbe consentito di evitare, laddove sia stato soddisfatto l’ onere probatorio previsto dagli artt. 1240 e 1241 code civilche ammettono la presunzione della colpa dal difetto di organizzazione, dalla mancanza o inadeguatezza dei presidi organizzativi che avrebbero dovuto essere istituiti. Così, attraverso il criterio presuntivo, il verificarsi dell’ evento viene causalmente ricondotto ad una colpa o a un difetto di organizzazione, consistente nell’ assenza o nell’ insufficienza dei presidi organizzativi. Infine, tra le sanzioni vi è anche la pubblicazione o la diffusione della sentenza o di un suo estratto a spese del responsabile.

La disciplina delineata si lascia apprezzare per la sua incontrovertibile concretezza. Ben individuato è l’ obiettivo perseguito dalla legge, così come determinate sono le imprese cui si rivolge la legge e specifici sono anche gli obblighi di comportamento e le sanzioni previste nel caso di inadempimento. 

Discutibile è, invece, l’ efficacia in concreto della norma rispetto all’ effettivo e sostanziale perseguimento dell’ obiettivo della salvaguardia e della protezione di determinati diritti fondamentali dell’ uomo. Invero, l’ impresa per andare esente da responsabilità deve semplicemente allegare e dimostrare la bontà e l’ adeguatezza dei presidi organizzativi messi in campo.

4. Il principio di adeguatezza organizzativa, di previsione e di prevenzione dei rischi è accolto anche nell’ ordinamento italiano.

A seguito della riforma del 2003[31], gli organi sociali delle SpA devono farsi carico dell’ adeguatezza dell’ assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, rispetto alla natura e alle dimensioni d’ impresa, all’ entità e alla tipologia dei rischi, cui essa è esposta[32], dandone atto in maniera dettagliata nella relazione al bilancio d’ esercizio[33]. In particolare il sistema è il seguente: i componenti esecutivi del Cda curano l’ assetto organizzativo, amministrativo e contabile dell’ impresa, affinché sia adeguato (ex art. 2381, comma 5, c.c.), mentre i membri non esecutivi ne valutano l’ adeguatezza (ex art. 2381, comma 3, c.c.) e il collegio sindacale vigila, tra l’ altro, sull’ adeguatezza degli assetti organizzativi curati dagli amministratori esecutivi e valutati dal Cda. Questi sono i c.d. principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale, che s’ impongono a tutte le società, indipendentemente dall’ oggetto e dalle dimensioni e senza differenze tra le diverse funzioni aziendali. Essi, però, non sono di per sé finalizzati al perseguimento di obiettivi specifici, come la salvaguardia dell’ ambiente o l’ osservanza delle norme che tutelano i diritti fondamentali, ma possono essere ad essi funzionali nella misura in cui i detti obiettivi vengano internalizzati  nella gestione dell’ impresa in virtù di altra norma di diritto positivo, allo stato assente nel nostro ordinamento per quanto riguarda i diritti umani, ma presente per quanto concerne ad es. la salvaguardia della salute e della sicurezza di chi svolge la propria attività lavorativa nell’ impresa[34].

L’ approccio adottato nell’ ordinamento italiano si discosta da quello francese sotto più profili. Quest’ ultimo si è dotato di una legge volta espressamente a perseguire l’ obiettivo di salvaguardia e protezione di determinati diritti fondamentali dell’ uomo, tarandola specificamente sulle relazioni tra le imprese legate da rapporti di appalto o di subfornitura o facenti parti il medesimo gruppo. Fenomeno, questo, che non è stato proprio preso in considerazione dal legislatore italiano del 2003, nonostante l’ adozione di modelli organizzativi complessi e policentrici sia divenuta quasi una prassi per l’ impresa capitalistica moderna anche nell’ ordinamento italiano. Alla base della scelta, però, non vi è un’ insensibilità verso il fenomeno dei gruppi di società. L’ art. 2359 c.c. già nella sua versione originaria dava una definizione di società controllate[35]. La disciplina, poi, è stata arricchita con la riforma del 2003 che ha introdotto gli articoli dal 2947 al  2497 septies c.c., in cui è stato configurato il modello organizzativo dell’ impresa a gruppo come insieme delle società sottoposte all’ attività di direzione e di coordinamento di un ente o di una società capogruppo. Ad ulteriore conferma dell’ assunto si consideri, poi, che la soggezione all’ attività di direzione e di coordinamento è presunta (presunzione iuris tantum) laddove sussista tra le diverse società o enti, una relazione di controllo ex art. 2359 c.c. o ex dlgs n. 127/1991, in tema di bilancio consolidato di gruppo.

L’ obbligo per la capogruppo di rispettare anche nelle società controllatele le norme che presiedono, ad esempio, alla salvaguardia della salubrità dell’ ambiente o della sicurezza dei luoghi di lavoro o, ancora, al corretto smaltimento dei residui nocivi della produzione, potrebbe trovare fondamento nell’ art. 2497 c.c. che impone il rispetto dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale anche nelle società cui sono impartiti atti di direzione e di coordinamento[36], sanzionandone la violazione con l’ estensione alla holding della responsabilità per tutti i danni cagionati al patrimonio delle società dirette e coordinate, fatta eccezione del caso in cui i pregiudizi subiti siano compensati con benefici e vantaggi. 

Quindi, poiché per indirizzo consolidato l’ applicazione di siffatti principi impone l’ adozione di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati ex art. 2381 c.c., la capogruppo nell’ esercizio dell’ attività di direzione e di coordinamento delle controllate, ha il dovere di impartire direttive anche circa la predisposizione, in ciascuna di esse, di siffatti assetti [37] così che l’ impresa miri al profitto ma anche alla compliance, e quindi al rispetto di quelle diverse norme o complessi di norme onde è regolata l’ attività d’ impresa, tra cui rientrano quelle poste a presidio della salubrità dell’ ambiente e della sicurezza dei luoghi di lavoro.

Quanto al dovere di vigilanza sul corretto recepimento da parte degli organi delle società controllate delle direttive impartite, nell’ ordinamento italiano manca una disposizione analoga a quella contenuta nella loi n. 2017/399. Né si può pensare di colmare la lacuna attraverso un’ interpretazione estensiva dell’ art. 2403 c.c. che, seppure delinei la funzione di controllo del collegio sindacale sull’ osservanza della legge e dello statuto, circoscrive espressamente il proprio campo d’ applicazione alle sole società automisticamente considerate. Diversamente, il raggio d’ azione sembra ampliato dal successivo art. 2403 bis, comma 2, 2° periodo, laddove è attribuito al collegio sindacale il potere di scambiare informazioni con l’ organo corrispondente delle società controllate, in merito ai sistemi di amministrazione e di controllo ed all’ andamento generale dell’ attività sociale; e trattandosi di un potere legato all’ esercizio di una funzione (quella di controllo e di vigilanza) esso si configura come un dovere.

Individuati i doveri, occorre soffermarsi sulle conseguenze dell’ inadempimento degli stessi. La capogruppo è responsabile dei danni subiti dalla controllata, dai suoi soci o dai suoi creditori (volontari o involontari)[38], per effetto dell’ adozione di direttive, inadeguate o carenti.  Più precisamente essa potrà essere condannata in solido con la controllata laddove sia dimostrato che non abbia adottato direttive o che abbia dato direttive insufficienti o inadeguate rispetto alle prescrizioni di legge o sia provata l’ esistenza di una direttiva specifica la cui attuazione abbia costituito antecedente causale dell’ evento dannoso. In quest’ ultimo caso la capogruppo potrebbe incorrere in una condanna per cooperazione colposa nell’ inadempimento della controllata o per induzione all’ inadempimento.

Delicata è la questione della disciplina applicabile ai gruppi multinazionali in cui la capogruppo e tutte o alcune delle controllate operino nell’ ambito di giurisdizioni nazionali diverse. Invero, il diritto italiano si presenta carente, anche, nella considerazione dei profili internazionalprivatistici dei gruppi di società, ancorché la pratica sia assai diffusa. 

In particolare, il fenomeno dei gruppi e delle relazioni intragruppo non è proprio preso in considerazione dalla legge n. 218/1995, recante la riforma del sistema italiano del diritto internazionale privato. Mentre il d.lgs. 127/1991 vi accenna nel momento in cui, al fine di perimetrare l’ area del bilancio consolidato, considera imprese controllate da includere nei conti consolidati dell’ impresa capogruppo soggetta alla legge italiana, anche quelle su cui la consolidante italiana ha il diritto di esercitare un’ influenza dominante “in virtù di un contratto o di una clausola statutaria”, sul presupposto che la legge straniera applicabile consenta tali contratti o clausole.

Non essendo dettata una norma specifica al riguardo, non solo a livello nazionale[39] ma anche dell’ Ue e dei trattati internazionali, si è posto il dubbio se la capogruppo debba/possa esercitare il potere-dovere di direzione e di coordinamento nonché di vigilanza sulla corretta ricezione ed attuazione delle direttive[40], anche nei confronti di controllate soggette ad una diversa giurisdizione. Un problema, questo, che potrebbe essere ulteriormente complicato dal diritto applicabile alle società controllate laddove escluda questo tipo di rapporti tra imprese o disconosca il modello organizzativo del gruppo delineato nel c.c., con conseguente autonomia decisionale degli amministratori delle controllate.

In attesa di un intervento chiarificatore, è stata invocata l’ applicazione d.lgs 231/2001 con cui è stata disciplinata per la prima volta la responsabilità degli enti per il reato commesso da soggetti operanti al loro interno o nel loro ambito come soggetti apicali o come persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei primi[41]. Queste disposizioni, pur non prendono in considerazione in maniera espressa il fenomeno dei gruppi di imprese e non predisponendo una regola per il caso in cui il reato sia stato commesso nell’ ambito di una società controllata[42], presentano un’ apertura verso il collegamento tra le imprese, laddove all’ art. 5, comma 1, lett. b)[43] è contemplato il caso in cui a commettere il reato siano persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti apicali di cui alla lett. a). E l’ amministratore o il dirigente della società controllata destinatario delle direttive e degli atti d’ indirizzo degli amministratori della capogruppo, non è altro che un soggetto sottoposto a direzione e vigilanza altrui. Da qui, l’ esposizione della capogruppo ad una pronuncia di condanna per i reati commessi nell’ ambito di una società controllata o sottoposta alla sua direzione e coordinamento, salva la prova che i soggetti agenti abbiano perseguito esclusivamente un interesse proprio o di terzi[44].

5. Le proposte di direttiva Corporate responsability due diligence e Corporate sustainability reporting costituiscono senza dubbio una svolta importante nel riconoscimento della responsabilità della capogruppo.

Occorre precisare, però, che già nel 2014 a livello comunitario è stato compiuto un passo in avanti, con l’ introduzione dell’ istituto della dichiarazione di carattere non finanziario (DNF), nelle due forme della dichiarazione individuale (ex art. 3 d.lgs. n. 254/2016) e della dichiarazione consolidata (ex art. 4 dello stesso decreto)[45]

Diversi sono i profili alla luce dei quali merita di essere menzionata questa disciplina. Innanzitutto va rilevato che l’ informazione non finanziaria, che si ricordi è obbligatoria per le società e per i gruppi di società che superino la soglia dimensionale di cui agli artt. 1 e 2 del d.lgs., investe tutte quelle tematiche che possono essere riassunte nel concetto di responsabilità sociale dell’ impresa[46] e almeno parte dei temi e dei settori considerati dalla loi sul dovere di vigilanza. A ciò si aggiunga che la normativa pone attenzione al fenomeno dei gruppi di società, anche nella loro proiezione internazionale, prevedendo espressamente che l’ informazione va resa dalla capogruppo per conto delle sue controllate (attraverso la dichiarazione consolidata, unica per tutte le imprese) anche quando la società posta al vertice del gruppo appartenga alla giurisdizione di un diverso Stato membro. 

Un’ ulteriore nota positiva va rinvenuta nel contenuto delle informazioni di cui è chiesta la divulgazione da cui si deduce come la direttiva, in linea con l’ odierna tendenza del diritto d’ impresa, richieda agli amministratori particolare attenzione all’ impatto che l’ attività d’ impresa ha sull’ ambiente, sulla salute dei lavoratori, sui diritti umani, etc.; e quindi l’ adozione di strumenti adatti per rilevarlo e di decisioni che ne tengano conto.

La direttiva sulla non financial disclosure, però, pecca per la mancata previsione, in capo alla holding, di un obbligo di vigilanza sul rispetto dei diritti umani, dei valori ambientali e sociali nell’ ambito della società controllata, alla stregua della loi n. 2017-399. Né è possibile una lettura in senso sostanzialista della stessa, così da porre l’ accento sulla tutela sostanziale ed effettiva degli interessi evocati, in quanto l’ ampiezza e la genericità delle previsioni farebbe si che sugli organi di gestione e di controllo delle imprese siano posti obblighi di diligenza dal contenuto eccessivamente esteso e vario e quindi inesigibile.

Le carenze della legislazione sulla dichiarazione di informazioni non finanziarie sono state colmate con l’ adozione, nel novembre 2022, della Corporate Sustainability Reporting Directive, con cui sono stati introdotti obblighi di trasparenza più stringenti circa l’ impatto che le imprese producono sull’ ambiente, sui diritti umani, sugli standard sociali, e ciò sulla base di criteri comuni ed in linea con gli obbiettivi climatici dell’ Ue[47]. In questo modo sono stati messi a disposizione degli investitori dati comparabili, attendibili ed accessibili digitalmente[48] e le imprese[49] sono state responsabilizzate nei confronti dei cittadini, con l’ imposizione in capo alle stesse dell’ obbligo di provvedere con regolarità alla pubblicazione dei dati, certificati e verificabili, relativi all’ impatto sociale ed ambientale prodotto.

In tale sede merita di essere ricordata anche la proposta di direttiva Corporate responsability due diligence del 23 febbraio 2022, ancora in attesa di approvazione[50].

La proposta è conseguenza del sostanziale fallimento dell’ approccio tradizionale fondato su misure volontarie e di autoregolamentazione aziendale (c.d. responsabilità sociale d’ impresa[51]) e della crescente necessità di una legislazione vincolante a livello europeo che contribuisca a prevenire le violazioni dei diritti umani che si verificano nell’ ambito delle operazioni economiche delle imprese, incluse le rispettive catene del valore[52].

 L’ idea della Commissione è introdurre nell’ ordinamento giuridico dell’ Ue un obbligo di due diligence in materia di diritti umani e di ambiente per le imprese europee. La direttiva ove approvata sarà applicabile anche lungo le catene di approvvigionamento delle imprese europee a livello globale, così da evitare il rischio della frammentazione del mercato interno e la lesione della libertà di stabilimento derivante dalle diverse scelte dei Paesi membri. 

Tra le novità va evidenziata l’ introduzione in capo agli amministratori delle imprese dell’ obbligo di prendere in considerazione le conseguenze delle proprie decisioni sulle questioni legate alla sostenibilità (duty of care), inclusi i diritti umani, l’ ambiente e il cambiamento climatico[53] e di supervisionare e controllare l’ attuazione delle misure di vigilanza predisposte dalle proprie imprese, in esecuzione dell’ obbligo di due diligence[54]. A tal fine è prevista, sulla scia dell’ esperienza francese, l’ obbligatoria redazione di un piano d’ azione, con scadenze definite e indicatori qualitativi e quantitativi che ne misurino i miglioramenti[55]. Interessante è anche l’ art. 15 in cui è introdotto l’ obbligo di valutare il rischio di impatti negativi sul clima, derivante dalle operazioni d’ impresa, in relazione all’ obiettivo assunto con l’ accordo di Parigi[56]. All’ art. 22, invece, è stato previsto come gli Stati membri debbano prevedere che le imprese rispondano dei danni causati dal mancato adempimento degli obblighi di due diligence in materia ambientale e di protezione dei diritti umani, salvo che si tratti di impatti ascrivibili alle attività di un partner indiretto (a meno che l’ azione intrapresa dal partner non sia del tutto inadeguata in relazione alle circostanze del caso concreto). E che l’ imputazione della responsabilità della capogruppo non pregiudica quella delle società controllate e dei partner contrattuali.

Pur sancendo il tanto atteso obbligo di due diligence[57], la proposta ha suscitato non poche perplessità.

Il criterio per circoscrivere ratione personae il campo d’ applicazione della direttiva appare poco convincente. Il numero dei dipendenti o il fatturato[58] non costituiscono indicatori affidabili circa gli impatti negativi di un’ impresa sulla sua catena del valore. A ciò si aggiunga che la norma si presta a facile elusione (essendo sufficiente l’ adozione di strategie di outsorcing per sfuggire alla sua applicazione) e il non meno importante mancato coordinamento con la direttiva sulla rendicontazione societaria sulla sostenibilità, che si applica a tutte le grandi imprese e a quelle minori quotate in borsa[59]

Diverse sono le carenze della proposta che mostrano quanto sia distante dall’ effettiva attuazione dei principi guida Onu. In essa è previsto, ad esempio, che gli obblighi di due diligence trovano applicazione anche alle operazioni che sono condotte lungo le catene del valore da partner commerciali con cui l’ impresa mantiene un “rapporto d’ affari consolidato”. Espressione, questa, mutuata dalla loi francese del 2017 che si discosta dal principio 17 lett. a, secondo cui lo standard di due diligence per le catene di fornitura è individuato attraverso il collegamento diretto tra l’ impatto negativo sui diritti umani e le operazioni, i prodotti e i servizi dell’ impresa per il tramite delle sue relazioni commerciali. Così con la proposta di direttiva oltre ad escludere dall’ ambito d’ applicazione gli impatti negativi derivanti da relazioni d’ affari non durature, ma comunque caratterizzate da impatti gravi e severi sui diritti umani e sull’ ambiente, si consente all’ impresa di sottrarsi dall’ applicazione della normativa semplicemente cambiando regolarmente i fornitori.

Anche l’ ambito d’ applicazione ratione materie ha destato perplessità: diversamente da quanto sancito nel principio Onu n. 12, che fa riferimento all’ intero spettro dei diritti umani, “l’ impatto ambientale negativo” e “l’ impatto negativo sui diritti umani” – di cui si parla nella proposta di direttiva – sono dedotti dalla violazione dei divieti e degli obblighi derivanti da quelle convenzioni internazionali in materia ambientale e da quegli strumenti internazionali sui diritti umani elencati nelle Parti I e II dell’ Allegato alla direttiva.

Restano, poi, i numerosi ostacoli di accesso alla giustizia civile. Non è previsto alcun rimedio al costo elevato delle spese legali, ai termini brevi di denuncia, all’ onere della prova sproporzionato rispetto alla forza delle controparti[60]. Tutti fattori che impediscono l’ accesso all’ equo processo e la realizzazione di una responsabilità sostanziale[61].

Il conseguimento dell’ obiettivo della sostenibilità e della creazione di valore nel lungo periodo, fissato dalle più recenti politiche economiche e regolatorie europee, dipenderà anche dall’ utilizzo che verrà fatto delle tecnologie digitali a livello dell’ organizzazione e dell’ amministrazione d’ impresa[62]. I risvolti positivi di questo connubio sono stati già confermati dalle prime evidenze scientifiche che hanno dimostrato come la potenza cibernetica dell’ intelligenza artificiale renda possibile il superamento di alcuni limiti operativi che hanno fino a ieri impedito una compiuta realizzazione degli obiettivi in questione, permettendo, ad esempio, l’ interoperabilità e l’ interconnessione tra diverse tecnologie e una più efficiente implementazione di tecniche di energia rinnovabile[63]. E di ciò si è reso conto anche il legislatore europeo che ha inserito tra le aree di intervento prioritarie quella della trasformazione digitale, di cui all’ art. 3 del dispositivo per la ripresa e la resilienza, essendo significativamente collegata alla transizione verde e alla crescita intelligente, sostenibile, che comprenda coesione economica, occupazione, produttività, competitività, ricerca, sviluppo e innovazione, e un mercato interno ben funzionante connotato da un rafforzamento delle piccole e medie imprese[64].

L’ utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale potrebbe facilitare il dialogo con gli stakeholder richiesto dal Codice di Corporate Governance e quindi l’ individuazione degli interessi sociali rilevanti per la specifica impresa. Inoltre, sistemi predittivi possono costituire un supporto utile ad orientare le scelte gestionali dell’ organo amministrativo al fine di un efficiente perseguimento degli interessi identificati. Si consideri, poi, che questi sistemi potrebbero agevolare la comunicazione a soggetti terzi – ad esempio, i consulenti assicurativi e di investimento, o anche le autorità di vigilanza – degli stessi interessi sociali rilevanti e delle strategie gestionali adottate per perseguire questi, ovvero la diffusione al mercato di informazioni relative ai fattori ESG (environmental, social, governance) in adempimento agli obblighi normativamente predisposti.

L’ utilizzo degli strumenti informatici, però, è anche sinonimo di nuovi rischi di sostenibilità, proprio relativi ai possibili usi distorsivi e fraudolenti della tecnologia, come avvenuto nel noto caso Dieselgate[65].


[1] Il riferimento è alla sentenza del 26 maggio 2021 del Tribunale distrettuale dell’ Aia, sezione commercio e imprese, relativa al caso Four Nigerian Farmers and Milieudefensie v. Shell in cui si è discusso della delicata questione sorta sull’ addebitabilità alla capogruppo della responsabilità per i danni causati all’ estero dalle società da essa controllate. In particolare, alcuni cittadini nigeriani e la Milieudefensie, un’ associazione ambientalista olandese, avevano citato in giudizio, davanti al tribunale dell’ AIA, la controllata Shell Petroleum Development Company of Nigeria e la capogruppo Royal Dutch Shell, affinché fossero entrambe condannate alla bonifica dei luoghi ed al risarcimento dei danni che avevano causato con lo sversamento nel suolo e nelle acque di un’ ingente quantità di petrolio. Nelle pronunce che ne sono seguite, è stato affermato per la prima volta il principio per cui è possibile convenire la società capogruppo di fronte al suo giudice nazionale, per i danni ambientali verificatisi all’ estero a causa dell’ attività della controllata. Inoltre, l’ autorità adita ha riconosciuto la legittimazione ad agire dell’ associazione ambientalista per la tutela dell’ interesse di uso alla protezione dell’ ambiente. Tuttavia, è da precisare che la Corte d’ appello dell’ Aia (Gerechtshof) con la pronuncia del 29 gennaio 2021, non ha ricollegato la responsabilità della capogruppo alla posizione di autorità e di controllo da essa ricoperta, ma alle specifiche azioni poste in essere e dunque al coinvolgimento attivo della stessa. Inoltre, bisogna rilevare che le conclusioni dei giudici sono fondate sul diritto nigeriano ed in particolare sulle disposizioni che regolano la posizione dei titolari delle licenze estrattive e su fatti specifici. Pertanto, non è da escludere che in futuro casi simili, in ordinamenti diversi, saranno considerati in maniera diversa. Interessante è anche il caso Notre Affaire à Tous e altri v. Total attualmente pendente in Francia. L’ azione sollevata nel 2019 è volta a fare dichiarare la responsabilità della petrolifera per la violazione dell’ art. L. 225-102-4.-I del code de commerce non avendo la stessa segnalato adeguatamente i rischi climatici assoggettati alle sue attività e non avendo adottato misure per mitigare tali rischi in linea con gli accordi di Parigi del 2015. A sostegno delle attrici, il 21 luglio 2022, è intervenuta (volontaire accessoire) la città di New York per il notevole interesse ad impegnarsi negli sforzi per mitigare il cambiamento climatico, anche per i gravi danni e i rischi che questo fenomeno provoca alla città. Per un commento v.: E. Napoletano, S. Spinelli, Il caso Royal Dutch Shell. La Corte olandese impone il taglio del 45% delle emissioni di CO2 al 2030: abuso di diritto o rispetto degli accordi internazionali?, in Giurisprudenza Penale web, 2021, pp. 7-8. Per un quadro generale sulle azioni da climate change litigation v.: V. Zampaglione, L’ accesso alle informazioni ambientali e le prime azioni per danno da cambiamento climatico. Esperienze a confronto, in Rivista Giudiridica AmbienteDiritto.it, n. 3/2022, p. 1.

[2] Il fenomeno della globalizzazione ha avuto inizio nel XIX sec. con la crescita del commercio internazionale e delle comunicazioni, seguita dalle rivoluzioni industriali e scientifiche. Sul punto v.: Kiss Et Al., Economic Globalization and Compliance with International Environmental Agreements, in The Hague, 2003, p. 3. Con l’ introduzione della World Trade Organization (WTO), in applicazione degli accordi di Marrakech del 1994, si è tornato molto a parlare di globalizzazione. Peroni, Il commercio internazionale dei prodotti agricoli nell’ accordo WTO e nella giurisprudenza del Dispute Settlement Body, Milano, 2005, p. 32. 

[3] Sulla WTO anche per la vasta bibliografia di riferimento mi si consenta di rinviare a Peroni, Il commercio internazionale dei prodotti agricoli nell’ accordo WTO e nella giurisprudenza del Dispute Settlement Body, Milano, 2005, p. 32. 

[4] Muchlinski, Globalisation and Legal Research, in International Lawyer 2003, p. 221.

[5] Secondo uno studio condotto dall’ United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD) circa la metà delle prime cento potenze economiche mondiali è costituito proprio da tale tipo di imprese. Sul punto si v.: www.unctad.org/templates/page.asp?int.temID=1465.

[6] Mattei, A Theory of Imperial Law, in Indiana Journal of Global Legal Studies, 2003, p. 383., SUR, The State Between Fragmentation and Globalization, in European Journal of International Law, 1997, p. 421. 

[7] V. Beck, Was ist Globalisieung?, Frankfurt am Main, 1999, p. 14; Martin-Schumann, Die Globalisierungsfalle. Der Angriff auf Demokratie und Wohlstand, Hamburg, 1996, p. 193. 

[8] In questo senso Mathews, Power Shift, in Foreign Affairs 1997, p. 50; Luhmann, Der Staat des politischen Systems, in Beck, Perspectiven der Weltgesellschaft, Frankfurt am Main, 1998, p. 375. 

[9] Muchlinski, The Bhopal Case: Controlling Ultrahazardous Industrial Activities Undertaken by Foreign Investors, in The Modern Law Review, 1987, p. 545. 

[10] Santa Maria, Il Diritto Internazionale dell’ Economia, in Carbone-Luzzatto -Santa Maria, Istituzioni di Diritto Internazionale, Torino, 2006, 499; Wallace, The Multinational Enterprise and Legal Control. Host State Sovereignity in an Era of Economic Globalisation, The Hague, 2002, 101 ss. 

[11] Muchlinski, Multinational Enterprises and the Law, Oxford – New York, 2007, 56 ss. Per holding company si intende una società che possiede più del cinquanta per cento, o comunque la maggioranza, del pacchetto azionario di altre società o che fa parte di un’ altra società e ne controlla la composizione del consiglio di amministrazione. Di solito, l’ attività di una holding si limita al controllo e alla gestione delle società sussidiarie e raramente si estende anche ad attività produttive di beni o servizi. Nel primo caso la holding è definita società finanziaria pura, mentre nel secondo è chiamata società finanziaria operativa. Cfr., Economic & Business – Dizionario Enciclopedico Economico e Commerciale, Bologna, 2005. 

[12] In particolare si pensi al caso degli accordi di distribuzione o di produzione. Nel primo caso, un produttore dell’ home State contratta con un distributore dell’ host State; il distributore acquisisce diritti esclusivi di vendita del prodotto ma, in cambio, si obbliga ad acquistare le merci del produttore e a rivenderle. Nel secondo caso, l’ azienda dell’ home Country, nella veste di licensor, autorizza un’ impresa locale (il licensee) a produrre il bene nello stesso host Country; trasferisce tecnologia e know how e controlla ogni azione del licensee; in cambio ottiene il pagamento delleroyalties, solitamente parametrate al profitto ottenuto dalle operazioni commerciali. Muchlinski, Globalisation and Legal Research, in 37 International Lawyer 2003, p.55.

[13] Salomon v. A. Salomon & Co., Ltd., [1897] A. C. 22

[14] Interessante è anche il caso Jones v. Lipman, [1962] 1 W.L.R. 832 (High Court, Ch.) in quanto l’ organo giudicante, con riferimento alla sussidiaria, ha parlato di“a device and sham, a mask which the incorporator holds before his face in an attempt to avoid recognition by the eye of equity”.

[15] Lo scopo dell’ Alien Tort Claims Act era quello di fornire un rimedio giudiziale presso le Corti statunitensi agli stranieri che fossero stati vittima di un illecito avvenuto sul territorio americano. Grazie alla giurisprudenza Filártiga v. Peña-Irala del 1980, la giurisdizione civile delle Corti statunitensi ha cominciato ad affermarsi anche per i casi in cui il reo abbia un contatto con gli Stati Uniti (nel caso in questione Peña, ispettore generale di polizia cileno, fu raggiunto dalla citazione in giudizio mentre si trovava sul territorio statunitense) e abbia violato – anche all’ estero – la c.d. law of nations intesa come quell’ insieme di disposizioni che descrivono condotte “definable, obligatory…and universally condemmed” (nel caso di specie Peña aveva torturato e ucciso un cittadino chileno per motivi politici). Questi concetti sono stati poi trasposti nei casi che hanno coinvolto gli illeciti delle imprese multinazionali.Si v.: Jägers, Corporate Human Rights Obligations: in Search of Accountability, Oxford – New York, 2002, p. 177; Winkler, La responsabilità delle imprese multinazionali per violazioni dei diritti dell’ uomo nella giurisprudenza statunitense, in Jus, 2005, p. 545. 

[16] Per il tramite di un ufficio, di un rappresentante, o una qualsiasi forma di business

[17] La processabilità dell’ IMN per violazione del diritto internazionale consuetudinario può essere considerata un indice delle recenti tendenze di dottrina e giurisprudenza a conferire una sorta di personalità giuridica internazionale alle persone giuridiche. 

[18] Sull’ applicazione agli illeciti delle IMN dell’ ATCA e sui casi di domestic jurisdiction in Europa v.: Jägers, Corporate Human Rights Obligations: in Search of Accountability, Oxford – New York, 2002, p. 177Per il solo Nord America v: Stephens, Corporate Accountability: International Human Rights Litigation against Corporations in US Courts, in Kamminga-Zia-Zarifi (eds.), Liability of Multinational Corporations under International Law, The Hague – London – Boston, 2000, p. 226; Boyd, The Inconvenience of Victims: Abolishing Forum Non Conveniens in US Human Rights Litigation, in Virginia Journal of International Law, 1998, p. 41; Nollkaemper, Public International Law in Transnational Litigation against Multinational Corporations: Prospects and Problems in the Courts of the Netherlands, in Kamminga-Zia-Zarafi (a cura di), Liability of Multinational Corporations under International Law, The Hague, 2000. Nel particolare campo dei danni ambientali, si veda Anderson, Transnational Corporations and Environmental Damage: is Tort Law the Answer?Washburn Law Journal, 2001-2002, p. 411. 

[19] Vi sono alcuni settori per cui l’ applicazione extraterritoriale del diritto è stata legittimata: in tema di corruzione di ufficiali stranieri, reato in cui sono spesso coinvolte le IMN. A metà degli anni Settanta il fenomeno assumeva già dimensioni preoccupanti, tanto che il Congresso statunitense emanò il Foreign Corrupt Practices Act (FCPA), tuttora vigente e “recepito” nella OECD Convention on Combating Bribery of Foreign Public Officials in International Business Transactions del 1998. Il sistema preventivo, tramite compliance programs, e sanzionatorio del FCPA presenta la peculiarità di estendersi all’ operato delle affiliate sulla base del fatto che esse siano “agenti” di un’ impresa multinazionale statunitense; dalla giurisprudenza, infatti, emerge chiaro come anche subsidiaries totalmente estere ricadano sotto le previsioni del FCPA sulla base di un rapporto di “agenzia”, che è dunque la fonte di un addebito penale. (Cfr., Urgenson-Harris, Foreign Companies Prosecuted in the U.S. for Bribes Overseas, 15 Business Crimes Bulletin, Ottobre 2007). Per approfondire la discussione dottrinale sul tema, si vedano: Francioni, Exporting Environmental Hazard through Multinational Enterprises: Can the State of Origin be Held Responsible?, in Francioni-Scovazzi (eds.), International Responsibility for Environmental Harm, London, 1991, 275 ss., JÄGERS, op. cit., p. 203. 

[20] Sul tema dell’ applicazione extraterritoriale delle regole di concorrenza si rinvia a Picone, L’ applicazione extraterritoriale delle regole sulla concorrenza e il diritto internazionale, in AA.VV, Il fenomeno delle concentrazioni di imprese nel diritto interno internazionale, Padova, 1989, p. 81., ed anche per la ricca bibliografia sul tema v.: De Pasquale, La disciplina della concorrenza oltre i confini comunitari, Napoli, 2005, p. 11. 

[21] Alla luce dell’ attuale contesto di diritto internazionale, lo status legale delle imprese multinazionali resta controverso. Per un’ efficace e precisa ricostruzione delle diverse posizioni dottrinali intervenute sul tema V.: Dumberry ‘ Enterprise, Sujet de Droit International? Retour sur la Question a la Lumiere des Developpements recents du Droit International des Investissements, in Revue Générale de Droit International Public, 2004, p. 103; Iovane, Soggetti Privati, Società Civile e Tutela Internazionale dell’ Ambiente, in Aa. Vv., Il Diritto Internazionale dell’ Ambiente dopo il Vertice di Johannesburg, 2005, Napoli, p. 133.; Borgia, La responsabilità delle imprese multinazionali, Napoli, 2007, p. 33.

[22] Nel 2011 il Consiglio delle Nazioni Unite ha approvato il Guiding on Business and Human Rights (noti come Ruggie Principles). Sul punto v.: Marrella F., I principi guida del’ Onu sulle imprese e i diritti umani del 2011 e l’ accesso ai rimedi tramite gli strumenti di diritto internazionale privato europeo: una valutazione critica, in M. Castellaneta, Vessia F. (a cura di), La responsabilità sociale d’ impresa tra diritto societario e diritto internazionale, Napoli, 2019, p. 315; Schmalenbach K., Multinazionale Unternehmen und Menschenrechte, in Archiv des Völkerrechts, Bd. 39 (2001), p. 57.

[23] Guidelines for Multinational Enterprises.

[24] Con la risoluzione 26/9 di luglio 2014 le Nazioni Unite avevano commissionato un gruppo intergoverantivo affichè prendesse in esame e predisponesse una bozza di trattato internazionale. Tuttavia, tale iniziativa è stata osteggiata dai Paesi del Nord, Stati Uniti, Canada e anche dall’ Unione Europea. Invece, tra i sostenitori dell’ iniziativa vanno ricordati Ecuador e Sudafrica.

[25] I principi prendono il nome da un professore di Harvard (John Ruggie) che nel 2005 era stato officiato dall’ Onu per lo studio della materia e la predisposizione di un documento di lavoro al riguardo. Sul punto v.: F. Marrella, I principi guida dell’ Onu sulle imprese e i diritti umani del 2011cit

[26] Una certa sensibilità per i temi affrontati dalla legge francese è percepibile anche in altri territori, come la Svizzera. Ivi nel 2015, su impulso di alcune organizzazioni attive nella società civile, è stata promossa un’ iniziativa diretta ad affermare la responsabilità della società con sede nel proprio territorio, per la violazione dei diritti umani perpetrate nell’ ambito delle società controllate con sede all’ estero. Si pensi, poi, all’ Olanda dove le imprese aventi sede nel territorio di quel Paese, in forza dello Dutch Child Labour Due diligence act del 2019, sono obbligate a contrastare l’ impiego del lavoro minorile nell’ ambito della catena produttiva dell’ impresa. Per un approfondimento dell’ esperienza olandese v.: https://www.ropesgray.com/en/newsroom/alerts/2019/06/Dutch-Child-Labour-Due-Diligence-Act-Aprroved-by-Senate-Implications-for -Global-companies; mentre per quella svizzera v.: https://www.business-humanrights.org/en/switzerland-ngo-coalition-launches-responsible-business-initiative.

[27] In Francia il 19 giugno 2018, dopo poco più di un anno dalla promulgazione della legge che ci si appresta a commentare, è stato presentato un progetto di legge (project Act) volto a riscrivere gli artt. 1833 e 1835 del cod. civil. e, più in generale, a riformare il diritto d’ impresa e delle società per orientarlo verso obiettivi di lungo termine, improntati su concetti di crescita sostenibile, di responsabilità sociale e sull’ idea secondo cui l’ iniziativa economica privata in forma di impresa dovrebbe farsi promotrice, innanzitutto, dell’ interesse collettivo. Nonostante le numerose critiche sollevate (tra tutti spiccano le critiche di B. Lecourt, P.H. Conac, J. Heinich, I. Urbain-Parleni, E. Masset, A. Couret, J. Mestre nel Revue des Sociétés, n. 10 e n. 11/2018) nel 2019 il progetto è stato approvato. Si tratta della loi n. 019-486 del 22 maggio 2019 (loi Pacte) Per un commento v.: P.H. Conac, Le nouvel article 1833 du Code Civil francais et l’ intégration de l’ intéret social et de la responsabilité social d’ entreprise: constat ou révolution?, in Riv. ODC, n. 3/2019, p. 497; I. Urbain- Parleani, L’ article 1835 et la raison d’ etre, in Riv. ODC, n. 3/2019, p. 533.

[28] La disposizione si applica solamente alle società che, per due esercizi consecutivi, impieghino almeno 5000 dipendenti (tenuto conto anche dei dipendenti delle società direttamente o indirettamente controllate aventi sede nel territorio francese), o almeno 10.000 dipendenti (a tal fine si tiene conto dei dipendenti delle società direttamente o indirettamente controllate aventi sede in Francia o all’ estero).

[29] La riforma è avvenuta con la loi n. 2017-399 del 27 marzo 2017. È da notare che i primi casi di concreta applicazione della legge si sono avuti solamente nel 2019. Per un’ analisi della casistica v.: http://blog.journals.cambridge.org.

[30] Il piano va elaborato d’ intesa con le parti interessate nella società e, se necessario, sulla base delle iniziative multistakeholder nell’ ambito della filiera o del territorio in cui si sviluppa l’ attività della società e delle controllate/appaltatrici/fornitrice. Esso deve contenere: 1)una mappa dei rischi, utile alla loro identificazione, analisi e classificazione; 2) procedure per la valutazione regolare della situazione delle società controllate, delle imprese appaltatrici e fornitrici aventi relazioni commerciali stabili con la società, riguardo alla loro collocazione nella mappa dei rischi; 3) azioni positive appropriate, dirette all’ attenuazione dei rischi o alla prevenzione di lesioni gravi degli interessi considerati; 4) un meccanismo di allerta e di raccolta delle segnalazioni relative all’ esistenza potenziale o attuale dei rischi, istituito di concerto con le organizzazioni sindacali rappresentative presenti nella società; 5) un sistema per monitorare le misure attuative e valutarne l’ efficacia.

[31] Il riferimento è al D.lgs. n. 6/2003, di attuazione della delega legislativa di cui alla legge n. 166/2001, entrato in vigore il 1° gennaio 2004. Va precisato, però, che già prima della riforma era maturata una sensibilità verso il riconoscimento della responsabilità della capogruppo per i danni causati da un illecito commesso nell’ ambito della controllata, derivante dalla violazione di specifiche norme di legge, facendo leva su argomentazioni di carattere equitativo e sostanziale per cui non si dovrebbe consentire alla capogruppo di cogliere solamente i benefici (sul piano dell’ articolazione e della segmentazione dei rischi) della scelta del modello organizzativo e non anche gli inconvenienti, come la responsabilità per danni arrecati a terzi per le azioni e o omissioni verificatisi a livello della controllata e nell’ ambito della sfera di attività di quest’ ultima. Qualcuno rinveniva il fondamento normativo di tale responsabilità nell’ art. 2049 c.c. ravvisando una responsabilità da posizione, che prescinde dalla colpa del soggetto a cui fa carico. Tesi, questa, non condivisa da chi rilevava che alla capogruppo possa addebitarsi solamente una responsabilità per gli illeciti derivanti dall’ esecuzione delle direttive impartite (G. Scognamiglio, La responsabilità della società capogruppo: problemi ed orientamenti, in Riv. Dir. civ., 1988, I, p. 365). Tale impostazione non sembra essere sconfessata dalla sopravvenuta disciplina sulla direzione ed il coordinamento delle società, stante l’ ampiezza del disposto contenuto nell’ art. 2497 c.c. che ricollega la responsabilità della capogruppo all’ esercizio dell’ attività di direzione e coordinamento non conforme ai canoni della correttezza imprenditoriale e societaria.

Altra parte della dottrina rinveniva il fondamento della responsabilità nell’ art. 2447 quater, comma 3, 2° periodo, c.c. in forza del quale “resta salva la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito”, anche nel caso in cui essendo stata deliberata la costituzione di patrimoni destinati ad uno specifico affare, la società risponda per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare “nei limiti del patrimonio ad essi destinato”. Ad avviso dei fautori di tale tesi, la separazione patrimoniale consentita per le s.p.a e la conseguente limitazione delle responsabilità al patrimonio destinato riguardano solamente le obbligazioni ex contractu assunte per lo specifico affare e non quelle da fatto illecito, non potendosi risolversi in un pregiudizio per i creditori involontari successivi alla data di efficacia della deliberazione. La disposizione sarebbe applicabile anche ai gruppi d’ impresa ed ai rapporti tra società capogruppo e controllata in quanto la separatezza e la reciproca autonomia giuridica che caratterizza le società del gruppo è assimilabile al rapporto tra il patrimonio destinato e quello generale della società e, al pari di questa, non deve volgersi in danno di coloro le cui ragioni di credito (verso la società controllata) nascono da un comportamento illecito dannoso piuttosto che da dall’ inadempimento di una obbligazione contrattuale. Condivisibili sono le critiche mosse ai fautori di tale tesi da G. Scognamiglio (in, Sulla tutela dei diritti umanicit.) che osserva la mancanza di un riscontro nel diritto positivo; il diverso campo d’ applicazione delle normative (la disciplina dettata per i patrimoni destinati si applica solo alle S.p.a., mentre nessun limite è posto quanto al fenomeno di direzione e coordinamento); il diverso grado di autonomia nella gestione, molto più ampio per la società controllata.

[32] Art. 2428 cod. civ.

[33] v. art. 2428 c.c.

[34] G. Scognamiglio, Sulla tutela in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 10/2019, p. 559.

[35] Si tratta di società sottoposte all’ influenza dominante di un’ altra società: a) attraverso la partecipazione diretta o indiretta di quest’ ultima nelle prime, in misura tale da garantirle la disponibilità della maggioranza dei voti esercitabili nell’ assemblea ordinaria; oppure, b) attraverso particolari vincoli contrattuali. 

[36] Attraverso l’ adozione di direttive strategiche e atti di indirizzo gestionale in cui si concreta l’ attività di direzione e di coordinamento.

[37] P. Montalenti, Organismo di vigilanza 231 e gruppi di società, in AGE, 2009, p. 383.

[38] All’ art. 2497 c.c. non si distingue tra le due categorie di creditori. Sul punto si conviene con G. Scognamiglio (in Sulla tutela dei diritti umani nell’ impresa e sul dovere di vigilanza dell’ impresa capogruppo. Considerazioni a margine di un confronto fra legislazione francese e quella italiana, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 10/2019, p. 546) che sostiene che una simile distinzione non può essere dedotta dall’ interprete. Ad avviso dell’ A. in entrambi i casi vi è l’ interesse diretto alla conservazione dell’ integrità patrimoniale della controllata e che questo interesse merita di essere parimenti protetto, non tanto sotto il profilo della tutela dell’ affidamento preventivo nella solidità patrimoniale del soggetto debitore, bensì sotto il profilo della protezione dell’ aspirazione del danneggiato a conseguire la riparazione del pregiudizio subito, che potrebbe essere stata messa a repentaglio da politiche di gruppo spregiudicate, inidonee a svuotare o a spolpare il patrimonio della società controllata alla quale il comportamento illecito è direttamente imputabile.

[39] Un discorso a parte va fatto per il diritto della crisi d’ impresa. Il regolamento sull’ insolvenza transfrontaliera già nella sua versione del 2000 (regolamento 2000/1346/UE) è stato più volte applicato per risolvere problematiche sui gruppi ed in particolare sui rapporti fra le procedure concorsuali che investono società dello stesso gruppo. Nella versione più recente del 2015 (regolamento 2015/848/UE) è stato dedicato l’ intero capo V alla disciplina dell’ insolvenza dei gruppi di società operanti su più ordinamenti.

[40] Discutibile è anche la possibilità dei soci e dei creditori della controllata sottoposta alla giurisdizione italiana di intraprendere un’ azione di responsabilità verso una capogruppo straniera per l’ esercizio non corretto dell’ attività di direzione e di coordinamento, o per l’ abuso del potere di direzione e coordinamento. La questione potrebbe essere risolta positivamente aderendo all’ indirizzo maggioritario per cui il diritto dei gruppi d’ impresa sia principalmente un sistema di norme rivolte alla protezione di determinati interessi (in particolare, dei creditori sociali e dei soci esterni al controllo) potenzialmente lesi dall’ attività di direzione e di coordinamento della capogruppo.

[41] L’ art. 4 del d.lgs. stabilisce che gli enti aventi nel territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all’ estero.

[42] F. Sgubbi, Gruppo societario e responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del decreto 231/2001, in www.rivista231.it.

[43] Si ricordi che per le norme penali vige il divieto di analogia. Però va anche precisato che si discute se il decreto 231 disciplini la responsabilità penale o quella amministrativa degli enti. È comunque indiscusso che il decreto riguardi la responsabilità che scaturisce dalla commissione di un reato presupposto (quelli indicati dalla norma); che l’ amministrazione e concreta attuazione delle regole in esso contenute sia attribuita al giudice penale; che alla persona che ha commesso il reato si applichino le sanzioni penali previste dalla norma incriminatrice di volta in volta violata e all’ ente responsabile sanzioni di tipo diverso che, sebbene qualificate come amministrative, presentano molti caratteri tipici delle sanzioni penali.

[44] Secondo un primo indirizzo, nei gruppi di società si presume che l’ agente abbia perseguito un interesse della capogruppo (Cass., sez. III penale, 21 giugno 2018, n. 28725, con nota di M. Mossa Verre, in Società, 2018, p. 1438). Secondo un’ altra più rigorosa impostazione, tale circostanza va provata specificamente e secondo altri ancora la responsabilità della capogruppo sarebbe configurabile solamente laddove nella consumazione del reato presupposto abbia concorso almeno una persona fisica che agisca per conto della holding, non essendo sufficiente l’ enucleazione di un generico riferimento al gruppo o ad un generale interesse di gruppo (Cass., sez. II penale, 9 dicembre 2016, n. 52316).

[45] La Dnf copre molteplici settori anche eterogenei tra di loro, quali quello ambientale, sociale, quelle attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva. Essa va redatta, dall’ organo amministrativo, secondo il principio di continuità, al termine di ciascun esercizio. Deve essere messa a disposizione dell’ organo di controllo e del soggetto incaricato ad effettuare la revisione legale del bilancio e và inserito nel registro delle imprese.

[46] Si pensi, ad esempio, alle politiche ambientali e all’ impatto dell’ attività dell’ impresa sull’ ambiente, sulla salute e sulla sicurezza; alle politiche sociali e attinenti alla gestione del personale, incluse le azioni poste in essere per garantire la parità di genere e le misure dirette ad attuare le convenzioni di organizzazioni internazionali e sovranazionali in materia di lavoro; alle politiche relative ai diritti umani, incluse le misure adottate per prevenirne le violazioni.

[47] Già nella risoluzione del 6 febbraio 2013 “responsabilità sociale delle imprese: comportamento commerciale trasparente e crescita sostenibile” e “responsabilità sociale delle imprese: promuovere gli interessi della società e un cammino verso la ripresa sostenibile ed inclusiva” il Parlamento europeo aveva riconosciuto l’ importanza della comunicazione delle imprese sulle informazioni sulla sostenibilità socio-ambientali, invitando la Commissione a presentare una proposta di riforma.

[48] La dichiarazione sulla sostenibilità è stata equiparata alla dichiarazione finanziaria.

[49] I nuovi obblighi di trasparenza sulla sostenibilità si applicheranno a tutte le grandi imprese, quotate in borsa o meno, comprese le imprese estere che fatturano più di 150 milioni di euro all’ interno dell’ Ue.

[50] La versione attuale è meno incisiva di quella originaria che, all’ art. 20, richiamava espressamente l’ art. 16 del Reg. n. 864 del 2007 e, pertanto, definiva (tutte) le disposizioni pertinenti della (futura) direttiva come «disposizioni di applicazione necessaria». Tali riferimenti di diritto internazionale privato, oggi scomparsi, avrebbero potuto superare le incertezze connesse al Regolamento c.d. «Roma II», che ritiene prevalente l’ applicazione della legge dello Stato dove si è verificato il danno, consentendo, invece, l’ utilizzazione della normativa dello Stato dove è collocata la società leader, ossia la legge più favorevole per le vittime. Il fatto poi che la corrente Proposta non risolva i problemi di giurisdizione potrebbe pregiudicare l’ effettivo accesso alla giustizia dinanzi ai tribunali europei da parte di chi abbia subito condotte imprenditoriali irresponsabili.

[51] Sul punto si ricordi che la letteratura della Corporate Social Responsibility (CSR) si è affermata negli anni Ottanta del secolo e che i fautori di tale tesi riconoscono all’ impresa compiti di cura diretta di interessi diversi da quelli degli shareholder. Interessi ormai comunemente attribuiti ai c.d. stakeholder (lavoratori, consumatori, imprese fornitrici e collegate, comunità locali, ecc.). Si ricordi, poi, che in quegli stessi anni, per effetto del rapporto Brundtland (1987), matura la teoria generale dello «sviluppo sostenibile» che, consentendo «alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri», apre la strada ad una relazione cooperativa fra attività produttive e ambiente. È chiaro che, in questo caso, la «sostenibilità» ha un’ accezione diversa dal mero contenimento dei costi di produzione, un’ accezione ecologica e sociale. Lo «sviluppo sostenibile» mira a mantenere nel tempo qualità e riproducibilità delle risorse naturali e, nel presente, realizza obiettivi di benessere sociale (lavoro, sicurezza, salute, rispetto dei diritti umani…). Per un commento aggiornato v.: I. Spaziale, Il nuovo paradigma dell’ impresa sostenibile, in Contratto e Impr., 2022, 3, p. 752.

[52] Si consideri che l’ attuale panorama delle fonti, europee e nazionali, di hard law e di soft law, sospinge le imprese verso il paradigma della sostenibilità, ossia ben oltre lo statico orizzonte dell’ art. 2247 c.c. In tale ambito degno di nota è il codice di autodisciplina delle società quotate, adottato nell’ ordinamento italiano nel 2020, in cui è stato previsto l’ obiettivo del successo sostenibile, cui deve anelare l’ organo di amministrazione, che «si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società» (Codice di Corporate Governance, gennaio 2020, p. 4). Non meno importante, poi, è la recente riforma della Costituzione italiana dell’ 11 febbraio 2022 (l. Cost. n.1), con cui sono stati aggiornati gli artt. 9 e 41 Cost. con espliciti riferimenti all’ ambiente ed ai profili dell’ ecosostenibilità. Si tratta di una riforma che trae spunto (anche) dalla nota vicenda giurisprudenziale dell’ ILVA di Taranto: se già da tempo la Consulta aveva elevato l’ ambiente a «valore fondamentale», da declinare lungo la coordinata del bilanciamento con gli altri principi che pure sorreggono l’ ordinamento (v. Corte cost. n. 274 del 1974 e n. 210 del 1987); il “caso ILVA”, nella sua ampia risonanza mediatica, ha reso prioritario per il Parlamento intervenire direttamente sul testo costituzionale, imprimendovi un cambio di passo green, che non fosse (solo) simbolico, ma (anche) sostanziale. Sul testo del nuovo terzo comma dell’ art. 9 Cost. sono già sorte alcune perplessità nella parte in cui è precisato che la tutela dell’ ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi è “anche nell’ interesse delle future generazioni” e ciò per l’ incertezza giuridica del concetto di «future generazioni», che vorrebbe identificare nel presente uno “status” spettante a soggetti solo potenziali. Tuttavia, è bene rilevare che la protezione aggiunta nella Carta costituzionale attiene agli interessi – e non certo ai diritti di tali generazioni – e che l’ «interesse» rappresenta un obiettivo tendenziale che la Repubblica deve perseguire, un esplicito parametro del giudizio di costituzionalità delle leggi. Quell’ «anche» poi conferisce al dovere attuale di tutela dell’ ambiente un carattere intertemporale, nel senso che l’ azione di tutela posta in essere oggi e per “l’ oggi” dovrà necessariamente considerare le potenziali implicazioni sul domani – e quindi sulle generazioni future – così da attualizzare una tutela nei loro confronti» (Guerra e Mazza, La proposta di modifica degli artt. 9 e 41 Cost.: una prima lettura, in Forum di Quaderni costituzionali, 5 novembre 2021, p. 126). Ai sensi del nuovo art. 41 Cost., invece, l’ esercizio della libertà di iniziativa economica non potrà più nuocere alla salute a all’ ambiente (oggi inteso in senso ampio, quale complesso sistema di risorse naturalistiche, umane e sociali) e sarà, al contempo, sottoposto a controlli, allo scopo precipuo di indirizzarlo a fini ecologisti. È stato posto, così, un ulteriore limite esterno all’ iniziativa economica privata.

[53] Si veda l’ art. 25 della proposta di direttiva.

[54] Ivi art. 26.

[55] Ivi art. 7.

[56] L’ Accordo è stato concluso a Parigi in occasione della Cop21 del 2015. Esso è ancorato ai risultati del V Rapporto di valutazione dell’ International Panel on Climate Change, per cui pone l’ obiettivo di stabilizzare l’ aumento della temperatura media globale a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, o almeno di mantenere l’ aumento ben al di sotto dei 2°C. A tal fine è stata stabilita una riduzione dei gas ad effetto serra del 45% rispetto ai livelli del 2010, per poi arrivare a zero emissioni entro il 2050. Il testo dell’ accordo di Parigi è disponibile sul sito https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:22016A1019(01). Per un approfondimento: BOMPAM E., Il mondo dopo Parigi. L’ accordo sul clima visto dall’ Italia: prospettive, criticità e opportunità, Edizioni ambiente, 2014; LOMBROSO L., Ciao fossili. Cambiamenti climatici resilienza e futuro post carbon, artestampa, 2016. Per un quadro della 

[57] Sono stati previsti obblighi di verifica e di prevenzione degli impatti negativi che l’ attività d’ impresa produce sui lavoratori, sui consumatori, sulle comunità vulnerabili e sugli ecosistemi.

[58] Il campo d’ applicazione è circoscritto alle grandi imprese aventi un fatturato superiore a 150 milioni di euro e più di 500 dipendenti, le quali sono responsabili per le violazioni generate direttamente o indirettamente dalle loro attività. Nei settori ad alto rischio (come il settore tessile, della pesca, dell’ agricoltura, della silvicultura e della lavorazione dei prodotti alimentari) bastano 250 dipendenti e un fatturato superiore a 40 milioni. L’ obbligo di due diligence si applicherà non solamente alle imprese in possesso di tali condizioni disciplinate dal diritto di uno Stato membro, ma anche a quelle che, sebbene disciplinate da un Paese terzo, operino all’ interno del mercato dell’ Ue e soddisfino uno dei due requisiti.

[59] Le piccole imprese sono state escluse per evitare di porre sulle stesse oneri eccessivamente elevati (e quindi sproporzionati) in termini di risorse finanziarie ed amministrative, necessari per la predisposizione e l’ attuazione di meccanismi di due diligence, non essendo abituate tali realtà a meccanismi di vigilanza ed essendo sfornite del know-how e del personale specializzato.

[60] Non esistendo nella maggior parte dei Paesi membri dell’ UE un diritto d’ accesso alle informazioni che siano in possesso della parte convenuta o di una terza parte quando tali informazioni siano rilevanti per comprovare le rivendicazioni delle vittime.

[61] L’ efficacia della proposta è messa in discussione dalla stessa Commissione. Sul punto si v. Commissione UE, Relazione alla Proposta di Dir. di modifica delle normative europee in tema di comunicazione societaria sulla sostenibilità, in https: //ec.europa.eu, Bruxelles, 21 aprile 2021, COM (2021) 189 final, p. 3, in cui la commissione ha affermato che «Il motivo è che alcune imprese da cui gli utenti si aspettano informazioni sulla sostenibilità non le comunicano, mentre molte delle imprese che invece le comunicano omettono alcune informazioni che sono tuttavia pertinenti per gli utenti. Le informazioni, ove comunicate, sono spesso non abbastanza attendibili e non abbastanza comparabili tra le varie imprese (…)».

[62] Interessante in tal senso il contributo di G. Schneider, Intelligenza artificiale, governance societaria e responsabilità sociale d’ impresa: rischi e opportunità, II seconda parte, in Nuova Giur. Civ., 2022, 4, p. 925. L’ A., in particolare, mette in luce l’ interdipendenza caratterizzante la digitalizzazione e la sostenibilità d’ impresa, evidenziandone le criticità.

[63] Vinuesa, he Role of Artificial Intelligence in Achieving the Sustainable Development Goals, in Nature Communications, 2020, 233, p. 11.

[64] Sotto questo profilo va menzionato il Rapporto Assonime sui “doveri degli amministratori e sostenibilità”, nel quale la “digitalizzazione di imprese e organizzazioni” è individuata come “driver fondamentale di evoluzione verso la sostenibilità”. Ancor prima, nel Rapporto Consob 2019 sulla rendicontazione delle informazioni non finanziarie delle società quotate, “l’ utilizzo di sistemi avanzati e tecnologici di raccolta dati e ascolto degli stakeholder” è stato annoverato tra le condizioni per una più puntuale compliance da parte delle società quotate rispetto agli obblighi di pubblicazione delle informazioni non finanziarie, in particolare di cui alla dir. n. 95/2014 UE. Inoltre, si consideri che nella direttiva in materia di comunicazione societaria sulla sostenibilità, sopra analizzata, è sottolineata l’ opportunità in termini di efficienza e abbattimento dei costi connesse alla digitalizzazione dei bilanci e delle relazioni sulla gestione. Infine, si ricordi che la Commissione europea ha pubblicato nel novembre 2020 uno studio specificamente riguardante Sustainability-related Ratings, Data and Research, dove viene illustrato lo stato dell’ arte relativamente ai sistemi automatizzati esistenti ad oggi nell’ Unione, appositamente strutturati per carpire e analizzare informazioni in materia di CSR, e in grado di monitorare gli attuali livelli e le prospettive evolutive nella effettiva attuazione delle politiche di responsabilità sociale d’ impresa.

[65] La sentenza che si segnala è stata pronunciata il 7 luglio 2021 dal Tribunale ordinario di Venezia, sezione II civile, a definizione del caso Dieselgate, lo scandalo sulle emissioni inquinanti che nel 2016 ha interessato il Gruppo Volkswagen. Per un commento si veda, Teck-Ayadurai-Chua-Liang-Sorooshian, Sensemaking Corporate Social Responsibility, Reflexive Organisational Change and Moral Transponse, the Case of Volkswagen ‘ Diesel Dupe’  Crisis, in JMS, 2020, 10, p. 66.

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