Fabio Russo
Professore a contratto di diritto sportivo dell’Università di Catania
La sentenza in commento ricostruisce il complesso sistema delineato nelle originarie previsioni degli articoli 5 e 29 della legge 20 giugno 1909, n. 364, con la disposta inalienabilità dei beni di interesse artistico in assenza della denuncia al Ministero della pubblica istruzione e la prescritta nullità di pieno diritto delle alienazioni in violazione dei divieti ivi contenuti.
The judgement reconstructs the complex system outlined in the original provisions of Articles 5 and 29 of Law no. 364 of 20 June 1909, with the inalienability of assets of artistic interest in the absence of notification to the Ministry of Public Education and the prescribed nullity of disposals in violation of the prohibitions contained therein.
Sommario: 1. Il caso e la decisione – 2. Nullità “artistica” di pieno diritto e dichiarazione governativa – 3. Il reale ordine di problemi per una possibile (diversa) statuizione giudiziale.
1. La lunga contesa tra il Senato della Repubblica, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, e la società Urbs s.r.l. trae origine dall’esercizio, nel gennaio del 1926, del diritto di prelazione su Palazzo Giustiani da parte dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione.
Per meglio comprendere le questioni pare utile, primariamente, collocare nel tempo gli avvenimenti e ricostruire sommariamente la vicenda. Il 16 gennaio 1911 la Società Urbs s.r.l. aveva acquistato la proprietà di Palazzo Giustiani al fine di adibirlo, come già avveniva dal 1901, a sede legale dell’associazione massonica del Grande Oriente d’Italia – Massoneria Universale (G.O.I.). Nell’atto di compravendita, tuttavia, si ometteva di dichiarare l’esistenza del vincolo storico – artistico gravante su quel bene e né parte alienante né parte acquirente si premuravano di denunciare al Ministero l’alienazione dell’immobile ai sensi dell’art. 5 della legge 20 giugno 1909, n. 364.
Il 5 novembre 1925 il palazzo veniva occupato con violenza da truppe squadriste armate e, poche settimane dopo, veniva promulgato il regio decreto – legge n. 2192 con il quale si prevedeva la facoltà del Governo di dichiarare la nullità degli atti di compravendita degli immobili di valore storico e artistico nazionale oggetto di tutela ai sensi della legge n. 364/1909 al fine di esercitare la prelazione. Alla luce di detto decreto il Ministro della Pubblica Istruzione procedeva pertanto il 20 gennaio 1926 a esercitare il diritto di prelazione su Palazzo Giustiniani senza tuttavia che fosse stata dichiarata la nullità dell’atto di compravendita.
La società Urbs s.r.l. lamentava prontamente l’illegittimità dell’acquisizione e il 13 giugno 1927 si giungeva a un atto transattivo tra le parti con il quale si conveniva circa la validità ed efficacia del diritto di prelazione esercitato con il sopra menzionato decreto a fronte del pagamento da parte dello Stato di lire 4.000.000,00, in luogo dell’originario prezzo fissato in lire 1.055.000,00. Caduto il fascismo, tuttavia, la società provvedeva a instaurare un nuovo giudizio civile per far dichiarare nullo, per vizio di consenso a causa di violenza, l’atto di transazione e vendita del 13 giugno 1927 e ottenere, di conseguenza, la restituzione dell’immobile. La Suprema Corte a Sezioni Unite, adita con ricorso preventivo di giurisdizione, dichiarava, in data 6 giugno 1950, la sussistenza della giurisdizione ordinaria a conoscere delle questioni concernenti la validità della transazione del 13 giugno 1927 e della giurisdizione amministrativa a conoscere delle questioni di legittimità del decreto ministeriale del 20 gennaio 1926. Quanto al successivo svolgimento della vicenda basta qui ricordare che, dopo un nuovo atto transattivo intervenuto tra le parti il 14 novembre 1991, con il quale il Senato si era impegnato a stipulare una convenzione con l’Urbs s.r.l. per la regolamentazione delle condizioni d’uso “di una limitata porzione dei locali dell’immobile rilasciati, ubicati al piano terreno ed al piano ammezzato, e relativi accessori e pertinenze con accesso da piazza della Rotonda nn. 10 e 11 e da via Giustiniani nn. 1 e 2 per destinarli a sede del Museo storico della Massoneria italiana”, a seguito della mancata conclusione della suddetta convenzione la società presentava nuovamente ricorso al T.A.R.; si lamentava, in via principale, l’occupazione abusiva dell’immobile per le ragioni anzidette e, in via subordinata, l’inadempimento dell’accordo del 1991. Il T.A.R. dichiarava inammissibile la domanda per difetto di giurisdizione e tale conclusione veniva confermata in appello dal Consiglio di Stato.
Si perviene così nuovamente innanzi alle Sezioni Unite ove, in ragione della doglianza della ricorrente, che non lamenta la carenza di potere in astratto (ossia l’an della potestà pubblica) quanto l’illegittimità del relativo esercizio (ossia il quomodo), per la mancata dichiarazione di nullità (che rappresenterebbe “condizione pregiudiziale dell’esercizio del potere”), si statuisce che la posizione soggettiva fatta valere nella domanda principiale è di interesse legittimo oppositivo e che, dunque, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo. Si perviene così alla formulazione dei seguenti principi di diritto: “Ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo rispetto ad una domanda di accertamento del diritto di proprietà nei confronti della pubblica amministrazione se fatto estintivo di quello costitutivo del diritto fatto valere è un provvedimento amministrativo di esercizio della prelazione artistica, emanato sulla base di una norma attributiva del relativo potere e non in carenza assoluta di potere”; altresì: “La dichiarazione di nullità, di cui all’art. 29 della legge 20 giugno 1909 n. 364, delle alienazioni effettuate contro i divieti contenuti nella legge stessa è condizione di legittimità dell’esercizio del potere di prelazione previsto dall’art. 6 della medesima legge”.
2. Nel sancire che “La dichiarazione di nullità, di cui all’art. 29 della legge 20 giugno 1909 n. 364, delle alienazioni effettuate contro i divieti contenuti nella legge stessa è condizione di legittimità dell’esercizio del potere di prelazione”, le Sezioni Unite attribuiscono alla dichiarazione governativa di nullità dell’atto di alienazione una funzione che pare mal coniugarsi con le previsioni di cui alla legge 20 giugno 1909 n. 364.
Invero, nel caso di specie, ai precedenti proprietari di Palazzo Giustiniani era stato notificato, con atto del 23 ottobre 1909, l’importante interesse artistico del bene. Al momento della stipula della compravendita, pertanto, erano certamente operanti, ratione temporis, l’art. 5 della legge n. 364/1909, ai cui sensi “Colui che come proprietario o per semplice titolo di possesso detenga una delle cose di cui all’art. 1 (ossia di interesse storico, archeologico, paletnologico o artistico n.d.r.), della quale l’autorità gli abbia notificato, nelle forme che saranno stabilite dal regolamento, l’importante interesse, non può trasmetterne la proprietà o dimetterne il possesso senza farne denuncia al Ministero della pubblica istruzione”, nonché il relativo art. 29, in forza del quale “Le alienazioni, fatte contro i divieti contenuti nella presente legge, sono nulle di pieno diritto”.
Orbene, stando al significato letterale delle parole, sembra difficilmente contestabile che le previsioni ora richiamate intendessero disporre l’assoluta inalienabilità di beni di interesse artistico in assenza della denuncia al Ministero della pubblica istruzione. L’espressione nullità di “pieno diritto”, del resto, veniva normalmente impiegata per far riferimento a ipotesi di nullità assoluta, radicale, insanabile, derivanti, appunto, dalla legge[1], da distinguersi nettamente dalle altre ipotesi di invalidità in quanto non necessitanti di alcuna pronuncia giudiziale costitutiva per essere fatte valere «dappoiché il nulla non può venire annientato»[2]. L’atto colpito da nullità di pieno diritto, infatti, secondo l’insegnamento della dottrina francese dell’Ottocento, fatto proprio anche da quella italiana, è un «mort-né», è «nul et comme non avenu»[3]. In quest’ottica, dunque, non basterebbe il consenso traslativo per l’operare dell’alienazione di un bene di interesse storico artistico bensì sarebbe necessaria anche la denuncia per il perfezionamento della fattispecie complessa immaginata dal legislatore. In assenza della denuncia, infatti, non potrebbe operarsi alcun trasferimento di proprietà e l’atto sarebbe colpito da nullità ipso iure[4] che, in quanto assoluta, potrebbe essere fatta valere da chiunque abbia interesse[5]; l’omessa denuncia costituirebbe un fatto (negativo) preclusivo dell’operare dell’effetto traslativo o, comunque, del negozio di trasferimento[6]. La dichiarazione governativa prevista dal regio decreto – legge n. 2192/1925, siccome quella giudiziale, non rappresenterebbe quindi altro che una presa d’atto della condizione di fatto determinata dall’operare della norma e non avrebbe alcuna efficacia costitutiva[7]; pertanto, nel caso, come quello di specie, dovesse essere stata omessa, non si potrebbe ritenere sussistente una causa di illegittimo esercizio del potere bensì, al massimo, un vizio formale del procedimento, inidoneo, di per sé, a comportare l’invalidità del provvedimento.
All’impostazione suddetta, che trae fondamento dal significato letterale delle parole, si è tuttavia opposto che, in realtà, l’art. 29 della legge n. 364/1909 non avrebbe inteso attribuire al quisque de populo il potere di far dichiarare nullo l’atto[8], bensì avrebbe previsto un’ipotesi «di nullità relativa, cioè di nullità caratterizzata dal fatto che l’azione intesa a pronunciarla può essere fatta valere soltanto dallo Stato, sul presupposto che essa costituisca una sanzione intesa a tutelare soltanto un interesse dello Stato»[9]. Questa interpretazione può dirsi assolutamente prevalente nella giurisprudenza che, in riferimento all’art. 61 della legge 1° giugno 1939 n. 1089, sostitutivo del richiamato art. 29[10], si è assestata, salvo rari casi[11], nel riconoscere la titolarità dell’azione esclusivamente in capo allo Stato[12]. Va osservato tuttavia che, mentre nelle decisioni più risalenti, ove si precisava che «lo Stato potrà anche rinunciare a far valere quella nullità, che esiste, se anche non dichiarata da alcuna autorità[13]», non si negava che si trattasse di vera e propria nullità operante ipso iure, la giurisprudenza, anche sulla base del contributo della dottrina, ha nel tempo cominciato a ridimensionare la portata della norma, affermando che la stessa «non incide sulle posizioni di diritto privato, che dalla convenzione derivano, e non priva le parti della convenzione stessa della titolarità dell’interesse a far valere tali posizioni, anche nei confronti della pubblica amministrazione. L’acquirente del bene vincolato non perde, quindi, la titolarità del diritto di proprietà, acquistato con la convenzione, in conseguenza dell’applicazione della sanzione prevista nell’art. 61, 1° comma, ma ne viene privato soltanto a seguito del legittimo esercizio del potere di prelazione, ai sensi del 2° comma dello stesso articolo»[14].
In effetti la dottrina già da tempo aveva contestato che potesse trattarsi di vera e propria nullità rilevando che «la prelazione presuppone […] che il negozio, che ha dato luogo al trasferimento, sia stato validamente posto in essere e che, per disposizione di legge o per disciplina convenzionale, un altro soggetto possa prendere la posizione di una delle parti del rapporto[15]». Secondo questa lettura, dunque, più che di nullità (poste anche le difficoltà concettuali di una nullità relativa[16] nonché le discrasie che si creerebbero se si trattasse di nullità sopravvenuta[17]) dovrebbe parlarsi di inefficacia del negozio nei confronti della Pubblica amministrazione per cui «il negozio sarebbe da considerare integro; ma la mancanza di un elemento estraneo alla sua struttura (mancata notifica) lo renderebbe inoperante e quindi inopponibile all’Amministrazione»[18].
Ora, fermo restando che la ripetuta previsione della nullità, sia nell’art. 29 della legge n. 364/1909 che nel successivo art. 61 della legge n. 1089/1939, sia, ancora, nell’art. 135 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490[19] che, infine, nell’art. 164 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, lascia intendere che il legislatore è sempre stato fermamente convinto dell’opportunità di sanzionare con la massima severità la violazione della norme poste a tutela del patrimonio culturale[20], per evitare di rimanere ingarbugliati in rigidi schemi classificatori, pare utile ripartire dall’art. 5 della legge n. 364/1909, ai cui sensi il proprietario di beni di interesse storico artistico “non può trasmetterne la proprietà o dimetterne il possesso senza farne denuncia al Ministero della pubblica istruzione”. Invero, proprio il tratto perentorio della previsione richiamata non pare lasciare spazi interpretativi per sostenere che il negozio, in assenza della prescritta denuncia, possa essere operante tra le parti. A differenza, infatti, dell’art. 30 della legge n. 1089/1939, dell’art. 58 del d.lgs. n. 490/1999 e del più recente art. 59 del d.lgs. n. 42/2004, il cui primo comma si limita a prevedere che «gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o, limitatamente ai beni mobili, la detenzione di beni culturali sono denunciati al Ministero»[21], l’art. 5 della legge n. 364/1909, nel precludere al proprietario di trasmettere la proprietà o il possesso senza farne denuncia, incide direttamente sulle posizioni di diritto privato giacché impedisce che l’avente causa possa assumere la titolarità del diritto. In altre parole, al di là delle classificazioni in termini di inefficacia, nullità o condizione legale[22], pare emergere in modo chiaro dal dettato normativo che per il legislatore del 1909 il contratto era condizione necessaria ma non sufficiente per il trasferimento della proprietà dei beni sottoposti a vincolo storico-artistico.
Alla luce di quanto sopra sembrerebbe doversi escludere che nel caso di specie la Urbs s.r.l. sia mai divenuta effettivamente proprietaria di Palazzo Giustiniani in quanto il trasferimento del diritto è stato precluso dalla previsione di cui all’art. 5 della legge n. 364/1909, operante a prescindere dall’esercizio o meno del diritto di prelazione da parte dello Stato. Non rileva, pertanto, che sia stata omessa la dichiarazione governativa in quanto la stessa non avrebbe potuto avere comunque alcuna efficacia costitutiva giacché l’inefficacia/nullità dell’atto di alienazione sarebbe scaturita ex lege in ragione dalla mancanza della denuncia. Ne deriva, quindi, che non appare nel giusto la Corte nel ritenere la dichiarazione governativa condizione di legittimità dell’esercizio del potere di prelazione giacché la relativa portata, meramente dichiarativa, in nessun modo avrebbe inciso sulla situazione di fatto già creatasi in forza dell’operare delle norme[23].
3. Acclarato, dunque, che in realtà la società appellante non ha mai acquisito il diritto di proprietà, resta da interrogarsi brevemente sulle ulteriori statuizioni della Suprema Corte, laddove in particolare si ritiene che “Ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo rispetto ad una domanda di accertamento del diritto di proprietà nei confronti della pubblica amministrazione se fatto estintivo di quello costitutivo del diritto fatto valere è un provvedimento amministrativo di esercizio della prelazione artistica, emanato sulla base di una norma attributiva del relativo potere e non in carenza assoluta di potere”. La pronuncia cassa la precedente sentenza del Consiglio di Stato con cui si era sostenuto che la giurisdizione dovesse spettare al giudice ordinario sulla scorta del fatto che «la società agisce in giudizio, affermando la sussistenza del suo diritto di proprietà su Palazzo Giustiniani e disconoscendo qualsivoglia valore giuridico agli atti normativi, amministrativi e negoziali che, tra il 1925 e il 1927, ne avrebbero sancito – almeno, formalmente – il passaggio di proprietà allo Stato», e che «nel ricorso introduttivo del giudizio, la società non censura l’esercizio del potere autoritativo da parte dell’amministrazione, introducendo soltanto in appello alcune argomentazioni sui profili di illegittimità dei provvedimenti emanati dall’amministrazione»[24].
Orbene, se in linea di principio pare condivisibile quanto statuito dalla Suprema Corte per il caso in cui il ricorrente lamenti non la carenza di potere in astratto (ossia l’an della potestà pubblica) quanto l’illegittimità del suo esercizio (ossia il quomodo), non convince laddove ritiene che «benché la domanda non sia indirizzata all’atto amministrativo, ma sia limitata all’accertamento della validità ed efficacia dell’atto di compravendita del 1911 […] la circostanza che fatto estintivo del fatto costitutivo allegato – il diritto di proprietà – sia un provvedimento amministrativo emanato sulla base di un potere attribuito della norma, ed in relazione al quale si può porre solo una questione di carenza di potere in concreto, comporta che la cognizione in via principale del giudice si intenda estesa anche al profilo della legittimità di un tale provvedimento».
Invero, come si è cercato di dimostrare, nel caso in esame il fatto estintivo del diritto di proprietà non sembra affatto essere l’esercizio della prelazione quanto piuttosto il combinato disposto dei richiamati artt. 5 e 29 della legge n. 364/1909, ossia la prevista preclusione circolatoria in assenza di denuncia al competente Ministero e la consequenziale sanzione della nullità di pieno diritto delle alienazioni in violazione dei divieti contenuti nella medesima. In ragione dell’omessa denuncia, infatti, è quantomeno controverso se l’attore sia effettivamente mai divenuto proprietario di Palazzo Giustiani.
Assumere, dunque, che il «fatto estintivo del fatto costitutivo allegato – il diritto di proprietà – sia un provvedimento amministrativo» vuol dare per dimostrato ciò che occorre dimostrare, vuole cioè affermare che l’atto di alienazione stipulato il 16 gennaio 1911 era valido/efficace tra le parti sino all’esercizio del diritto di prelazione da parte dell’Amministrazione. Tale assunto, tuttavia, non pare fondato; pertanto, prima di ragionare sulla legittimità dell’esercizio della prelazione, ci si sarebbe dovuti occupare, così come peraltro richiesto dall’appellante, di accertare la validità ed efficacia dell’atto di compravendita del 1911 alla luce delle previsioni di legge sopra meglio riportate.
[1] La giurisprudenza coeva infatti, affermava che «un atto, nullo di pieno diritto, ossia giuridicamente inesistente, non può mai essere confermato quod nullum est non potest confirmari, resistendo, in tal caso, la legge continuamente e per sé stessa alla validità dell’atto vietato, e che, al contrario, tutti gli atti che non sono nulli di pieno diritto, ma soltanto annullabili ad istanza di uno o più delle parti, possono essere ratificati potendo certamente le parti rinunziare ad un vantaggio che loro deriva da una nullità creata nel loro privato interesse» (Cass. Napoli, 23 febbraio 1919, in Diritto e giurisprudenza, Vol. XXXIV, 1919, II parte, c. 247). Si tralascia in questa sede il tema dei rapporti, che nella decisione paiono sovrapposti, tra inesistenza e nullità su cui, per tutti, R. Tommasini, Nullità (dir. priv.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 866 ss. e spec. 871 ss.
[2]In tal senso, nella dottrina francese, si veda, ad esempio, C. Demolombe, Corso del Codice Civile, Delle successioni, parte prima, D. Capasso, Napoli, 1857, p. 134, per il quale «lo affermare esser nulla una convenzione è manifestare la idea che la nullità ha luogo di pieno diritto, val dire che questa pretesa convenzione non ha legalmente veruna esistenza, e che non è necessario agire giudizialmente per farla dichiarar nulla; dappoiché il nulla non può venire annientato. Lo affermare essere annullabile la convenzione è per contrario manifestare la idea che tal convenzione ha una esistenza legale, apparente almeno e provvisoria, e che bisogna agire giudizialmente per farla rescindere, annullare o risolvere. Ed uno de’ precipui effetti di tal differenza si è che la nullità di pieno diritto può dedursi da chiunque vi abbia interesse; mentre per contrario l’annullabilità può dedursi unicamente da alcune persone, le quali sole han qualità all’obbietto». Si veda anche M. Rizzuti, La sanabilità delle nullità contrattuali, E.S.I., 2015, p. 26 il quale ricorda che «il legislatore francese sembra fare riferimento anche ad ipotesi di atti qualificati come nulli «de plein droit», senza, però, specificare quali sarebbero. Così, parte della dottrina ha ricollegato tali ipotesi alla mancanza delle condizioni prescritte per quella che il Code ha chiamato «validitè d’une convention», in una norma che, peraltro, non ne precisa il rapporto con la «nullitè» o la «rescission». Di conseguenza, secondo questa prima impostazione, tutti gli atti carenti di tali condizioni sarebbero colpiti da una «nullità di pieno diritto», che, per operare, non avrebbe bisogno di alcuna azione giudiziale, essendo qualificabile come una forma di inesistenza». Per G. Casu, Studio n. 2011/1998 – Beni culturali e contrattazione immobiliare, tratto da www.notariato.it/it/ufficio_studi/studio-n-20111998-beni-culturali-e-contrattazione-immobiliare, l’espressione “nullità di pieno diritto” «ha soltanto lo scopo di evitare che la nullità richiedesse la pronuncia giudiziaria ai fini della sua operatività, come talvolta si richiedeva nel sistema del codice civile del 1865, e come espressamente si desumeva dall’omologa norma contenuta nell’art. 1 del R.D.L. 22 novembre 1925, n. 2192, che, nel regolare la materia poi trasfusa nella legge 1089, stabiliva la formale dichiarazione di nullità da parte della pubblica amministrazione».
[3] Cfr. Venosta, F., Le nullità contrattuali nell’evoluzione del sistema, Vol. 1, Milano, 2004, p. 61. Va rilevato, tuttavia, che la stessa dottrina francese tendeva a considerare talmente eccezionali le ipotesi di nullità di pieno diritto da affermare che «nullités de plein droit n’ont lieu en France». In tal senso, infatti, si veda, ad esempio, F. Laurent, Principes de droit civil, Tome 1, 1869, p. 105 per il quale «Lorsque le législateur déclare un acte nul, cet acte est-il nul en vertu de la loi, ou est-il seulement annulable, c’est-à-dire faut-il que la nullité soit demandée au juge et prononcée par lui? C’est un vieil adage du droit français, que «nullités de plein droit n’ont lieu en France.» On a toujours entendu cette maxime en ce sens qu’il faut s’adresser à la justice pour obtenir l’annulation de l’acte déclaré nul. Cela est fondé en raison. Les nullités, quand même elles sont établies dans un intérêt général, concernent, dans l’application, l’intérêt privé. Il faut donc laisser à l’intérêt privé le soin de poursuivre l’annulation. Le législateur n’a aucune raison d’intervenir directement en cette matière; son intervention pourrait, au contraire, compromettre l’intérêt des particuliers. En effet, il se peut que l’acte, quoique nul, leur soit avantageux; le législateur, en annulant un acte que les parties voudraient maintenir, leur causerait un préjudice, sans aucun avantage pour la société. Il suffit que la loi prononce la nullité pour que l’intérêt social soit sauvegardé».
[4] Si veda Trib. Napoli, 10 ottobre 1944, in Repertorio generale annuale della giurisprudenza italiana, Torino, 1948, c. 86 «È nulla ipso iure, e non soltanto annullabile ad istanza del Ministero della pubblica istruzione, la vendita di cose sottoposte al vincolo di cui alle leggi che tutelano il patrimonio artistico nazionale».
[5] In questo senso Trib. Firenze, 28 febbraio 1948, in Giurisprudenza completa della Corte Suprema di Cassazione Sezioni Civili, Serie II, Vol. XXVII, 1948, 3° Quadrimestre, secondo il quale, «parlando gli art. 29 (legge 1909) e 61 (legge 1939) di nullità di pieno diritto, quei contratti sono affetti, non da annullabilità, ma da nullità (art. 1418 ult. parte CC); la quale può esser fatta valere da chiunque vi abbia interesse (art. 1421 CC), e quindi certamente dallo Stato, che attraverso la dichiarazione di nullità può far valere i diritti che, come si è visto, ad esso spettano sulle opere d’interesse artistico, come al supremo tutelatore del patrimonio artistico nazionale».
[6] Sul punto, seppur in riferimento all’art. 164 del D. Lgs. 42/2004, si veda però P. De Martinis, Prelazione artistica: vecchi e nuovi temi, in Resp. civ. prev., 2016, 3, p. 94 per il quale la nullità sarebbe «concepita come sanzione e non come un difetto sostanziale del negozio denunciato. A meno di non voler, più correttamente, affermare che la vendita di bene culturale è procedimento complesso, negozio a formazione progressiva, e che la nullità, che ne colpisce una delle fasi (la denuncia), fa cessare il negozio. Il che sembra più aderente su di un piano interpretativo, ma contro tale ricostruzione rintracciamo un dato sistematico: la nullità è prevista nella parte relativa alle sanzioni».
[7] Del resto, Cass., sentenza 15 luglio 1944, n. 438, in Repertorio generale annuale della giurisprudenza italiana, Torino, 1948, c. 85 ha statuito che «la sanzione [della nullità n.d.r.] funziona per il solo fatto dell’inosservanza dell’obbligo della denunzia, indipendentemente dall’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato».
[8] In questo senso si veda A. Giuffrida, Contributo allo studio della circolazione dei beni culturali in ambito nazionale, Milano, 2008, p. 369, per il quale «il legislatore ha scelto di legittimare unicamente lo Stato all’esercizio dell’azione di nullità evidentemente perché ritiene quest’ultimo il primo referente preposto alla tutela dei beni culturali, lasciando così fuori gioco il mero quisque de populo».
[9] Così G. Casu, Studio n. 2011/1998 – Beni culturali e contrattazione immobiliare, cit..
[10] L’art. 61 della legge n. 1089/1939, analogamente al precedente art. 29 della legge n. 364/1909 prevedeva che «Le alienazioni, le Convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalla presente legge o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da essa prescritte, sono nulli di pieno diritto».
[11] Per i quali v., supra, nota 5.
[12] Una prima sentenza in tal senso è di Trib. Venezia, 23 marzo 1928, in Foro ven., 1928, p. 257, ove la statuizione che «la mancata denunzia della vendita di oggetto di importante interesse artistico o storico produce la nullità relativa e non la inesistenza assoluta del negozio giuridico, essendo la invalidità comminata dall’art. 29 della legge 20 giugno 1909 n. 364, coordinata alla facoltà preminente dello Stato di esercitare il diritto di prelazione».
[13] Così Cass., 14 aprile 1947, n. 554, in Il Foro Italiano, Vol. 71, No. 1, c. 36 con nota di G. Pescatore, Nullità o inefficacia delle alienazioni di cose di interesse artistico avvenute senza denuncia all’autorità amministrativa? Per la Corte «la nullità, se pure qualificata di pieno diritto, è sempre stabilita evidentemente nell’interesse dello Stato solamente, che vuole assicurato a sé il mantenimento dell’integrità del patrimonio storico, artistico, ecc., nazionale, mediante l’esercizio del diritto di prelazione nel caso di alienazioni o altri trasferimenti fra privati di cose a loro appartenenti, ma che siano già state indicate agli stessi d’interesse nazionale per speciali caratteristiche».
[14] Così Cass., sez. un., 15 maggio 1971, n. 1440, in Il Foro Italiano, Vol. 94, No. 11, c. 2831, per la quale «il contenuto effettivo della norma consiste, invero, nell’attribuzione alla pubblica amministrazione della facoltà di prescindere del tutto dalla considerazione della convenzione nell’esercizio dei poteri che la legge ad essa attribuisce in relazione ai beni disciplinati dalla legge speciale». Analogamente Cass., 14 febbraio 1975, n. 590, in Il Foro Italiano, Vol. 98, No. 5, c. 1110, ha ritenuto che «la norma non investe le posizioni dei contraenti, né li abilita a reagire contro l’inosservanza dell’obbligo di denunzia, inteso a salvaguardare interessi squisitamente pubblicistici. Si tratti, dunque, di nullità relativa ovvero, invece, di inefficacia relativa, è da escludere in ogni caso che il giudice avesse il potere di rilevarla ex officio». Si veda anche Cass., Sez. Unite, 24 novembre 1989, n. 5070, in One Legale, per la quale «la nullità delle alienazioni, della convenzioni e degli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalla predetta legge o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da essa prescritte, nella previsione dell’art. 61 della stessa legge, nonostante la drastica locuzione da esso usata, ha carattere relativo, essendo predisposta nel solo interesse dello Stato, e non può essere fatta valere nei rapporti tra altri soggetti, come più volte ha affermato questa suprema corte sia basandosi su argomenti logico-sistematici, sia puntualizzando la ratio della norma, sia analizzando il dato legislativo sotto il profilo storico».
[15] Così G. Pescatore, Nullità o inefficacia delle alienazioni di cose di interesse artistico avvenute senza denuncia all’autorità amministrativa?, cit., p. 33.
[16] Sul punto si veda P. Guida, Mancata osservanza delle formalità necessarie e ritrasferimento del bene culturale, in https://elibrary.fondazionenotariato.it/articolo.asp?art=40/4004&mn=3 per il quale la tesi che qualifica la nullità in questione come relativa«interferisce con la qualificazione della sanzione di nullità nella teoria generale del diritto. La nullità, come già chiarito, si caratterizza proprio in virtù della sua assolutezza e risulterebbe quanto meno strano affermare che un negozio, invalido nei confronti di un soggetto, peraltro non contraente, risulti valido nei confronti delle parti, direttamente in esso coinvolte. La categoria della nullità relativa, inoltre, quando comminata, si trova espressamente disciplinata come tale dal legislatore. Come pure, sembra contraddittorio sostenere che il negozio nasca valido, divenendo solo parzialmente invalido alla scadenza del periodo previsto per l’adempimento, anche tardivo, delle formalità richieste dalla normativa in esame. L’invalidità, infine, lo colpirebbe definitivamente e con valenza retroattiva solo nel momento in cui lo Stato eserciti effettivamente il diritto di prelazione. Non si può fare a meno di notare, peraltro, che la nullità normalmente incide sul negozio ab initio. Appare incongruo che uno stato patologico del negozio dipenda da eventi ad esso successivi, che, invece, ben possono incidere sulla sua efficacia, determinando un’inefficacia successiva». Per un quadro articolato e compiuto sui temi (e i problemi) di carattere generale ivi richiamati M. Mantovani, La nullità e il contratto nullo, in V. Roppo, Trattato del contratto, IV, Rimedi – 1, a cura di A. Gentili, Milano, 2006, p 1 ss.
[17] G. Casu, Studio n. 2011/1998 – Beni culturali e contrattazione immobiliare, cit.., rileva, infatti, che «la norma è congegnata in modo tale che il contratto nasce valido, perché esso viene posto in essere anteriormente alla denuncia; soltanto successivamente, se la denuncia non viene presentata o viene presentata senza rispetto delle debite forme, si ha la nullità che coinvolge l’intero negozio con effetto, è da ritenersi, ex tunc. La stranezza è che, non essendo previsti tempi per la presentazione della denuncia, questa può avvenire a distanza di tempo dal contratto, determinando, la mancata presentazione della denuncia, la nullità provvisoria del contratto, nullità che verrebbe meno nel momento in cui venga presentata denuncia, a patto che nel frattempo non sia stata esperita azione di nullità. L’unico modo per evitare questo strano groviglio di discrasie nei principi sarebbe, pertanto, quello di far presentare la denuncia contestualmente all’atto di trasferimento del bene, evitando che anche un solo giorno di ritardo determini la nullità dell’atto».
[18] G. Pescatore, Nullità o inefficacia delle alienazioni di cose di interesse artistico avvenute senza denuncia all’autorità amministrativa?, cit., c. 34. In questo senso, tra gli altri, M.E. Poggi, La circolazione dei beni culturali di proprietà privata, in Contr. e impr., 1986, p. 431 «Nonostante che la previsione legislativa parli chiaramente di nullità, ci sembra più adeguato ai principi di diritto generale che fissano la nullità nell’ipotesi di contrarietà a norme imperative, ritenere semmai il contratto di trasferimento inefficace o inopponibile, a causa dell’omessa denuncia, allo Stato».
[19] In merito all’art. 135 del d.lgs. n. 490/1999 si vedano le riflessioni di G. Celeste, Beni culturali: prelazione e circolazione, in Riv. Not., 2000, 5, p. 1071 ss., per il quale non può condividersi l’idea che la nullità possa essere fatta valere solo dallo Stato per due ordini di ragioni: «In primo luogo, essa non trova fondamento nel tenore letterale delle disposizioni in esame, le quali comminano la nullità senza porre limitazioni alle conseguenze che, di norma, tale sanzione produce, tra le quali vanno annoverate la rilevabilità d’ufficio e ad istanza di chiunque vi abbia interesse. In secondo luogo, merita certamente di essere revisionata l’impostazione di fondo, probabilmente sottesa all’indirizzo accolto sul punto dalla giurisprudenza, secondo la quale si tratta di far valere un interesse particolare dello Stato-persona con la conseguenza che solo quest’ultimo potrà agire ex art. 135, t.u. Questa impostazione, forse condivisibile nel quadro normativo al quale risale la legge 1089/1939, non sembra affatto coerente con i valori e le finalità, già richiamati, che i princìpi costituzionali hanno affermato con riferimento ai beni culturali nell’interesse di tutta la comunità nazionale». Per l’Autore, inoltre, la tesi che ritiene che la norma in questione disponga l’inefficacia piuttosto che la nullità del negozio «non trova alcun conforto nella legge, che non commina l’inefficacia, ma la nullità, né fa alcun riferimento ad una conoscenza dell’atto, comunque acquisita, al fine di limitare temporalmente l’esercizio della prelazione nell’ipotesi in cui la comunicazione è mancata. Né può addursi in contrario il rilievo che la potestà di acquisto che sorge in capo alla p.a. troverebbe allora il suo fondamento in un negozio qualificato in termini di nullità, essendo noto che una fattispecie nulla non è del tutto irrilevante per l’ordinamento, ma può produrre taluni effetti più limitati». In senso contrario F. S. Marini, La prelazione «storico-artistica» tra illegittimità costituzionale e violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Giur. cost., 2000, 2, p. 1173 ss. per il quale «L’asserita nullità del negozio di alienazione sembra […] smentita da un’argomentazione di natura teleologica. Ad accogliere, infatti, la tesi della nullità, si rischia di frustrare la finalità dell’istituto della prelazione storico-artistica, che è quella di favorire l’appartenenza pubblica delle opere d’arte. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, all’ipotesi di alienazione a non domino (non denunciata). Se si configurasse la «sanzione» della nullità, in questa eventualità, lo Stato non avrebbe la facoltà di esercitare il diritto di prelazione, in quanto il bene dovrebbe ancora considerarsi nella sfera giuridica del proprietario originario che non ha manifestato alcuna intenzione di alienare. Ricorrendo, invece, alla figura della mera inefficacia relativa, il bene culturale sarebbe ormai entrato a far parte del patrimonio dell’acquirente a non domino e lo Stato, facendo valere il suo diritto di prelazione, potrebbe certamente esercitare la facoltà di sostituirsi a quest’ultimo. Può, dunque, concludersi che le irregolarità o l’omissione della denuncia privano l’atto soltanto di efficacia nei confronti della Pubblica Amministrazione. La compravendita, in altri termini, è da considerare valida ed efficace nei confronti dell’acquirente e dei terzi, mentre permane, a tempo indeterminato, il diritto di prelazione statale. Ne consegue che è l’acquirente, e non l’alienante, a godere della titolarità del diritto di proprietà sul bene culturale».
[20] Evidenzia la continuità delle norme A. Giuffrida, La prelazione culturale: profili giuspubblicistici, in federalismi.it, 2024, 1, p. 83 rilevando che «pare difficile sostenere che l’espresso richiamo alla nullità costituisca una sorta di refuso che, sbadatamente, si tramanda da oltre un secolo nella nostra legislazione: come si è già fatto osservare, si è passati dal «nullo di pieno diritto» dell’antica legge Rosadi, poi confermato dalla legge Bottai, ad un più blando, ma sempre ribadito, «sono nulli», sancito nel t.u. Melandri del 1999 e ora nel Codice Urbani e mai abbandonato, nonostante le reiterate modifiche di quest’ultimo. La conservazione di questa formula sembra perciò confermare una precisa “scelta di campo” del legislatore, in quanto la nullità, anche nel comune sentire, evoca maggiormente l’idea della sanzione, certamente assai più della previsione della mera inefficacia dell’atto». La previsione della nullità anche nel recente Codice dei beni culturali è stata, tuttavia, oggetto di critiche in dottrina. Per A. Fusaro, La circolazione giuridica dei beni immobili culturali nella prassi notarile: un inventario di questioni, tratto da https://elibrary.fondazionenotariato.it/articolo.asp?art=27/2703, infatti, «sarebbe stato auspicabile che il legislatore, anziché avanzare verso la nullità – neppure temperata dal carattere relativo -, fosse indietreggiato verso la più ragionevole soluzione dell’inefficacia. […]. L’abbandono della nullità avvantaggerebbe di certo la conservazione dei negozi; eviterebbe, inoltre, di drammatizzare le conseguenze di omissioni che in realtà il più delle volte sono indotte dall’ignoranza del vincolo». Analogamente per A. Pischetola, Circolazione dei beni culturali: normativa fiscale indiretta e prospettive di semplificazione e modifica legislativa, tratto da https://elibrary.fondazionenotariato.it/articolo.asp?art=27/2710, sarebbe opportuno modificare il dettato dell’art. 164 del D.lgs. n. 42/2004: «Risulterebbe infatti molto più coerente con gli esiti cui sono giunte dottrina e giurisprudenza – ormai pacifiche con riferimento ai filoni maggioritari – stabilire che la sanzione sia l’inefficacia (e non la nullità) dell’atto, pur restando incondizionata la facoltà degli enti prelazionari di esercitare la prelazione artistica ai sensi dell’articolo 61, comma 2». Al di là delle critiche suddette, è stato messo comunque in evidenza che la nullità prevista dal legislatore sarebbe “a-tecnica”; in questo senso A. Calogero, La prelazione artistica sui beni culturali di proprietà privata, in Innovazione e diritto, 2008, 6, p. 77, il quale sostiene che «per l’art. 164 gli atti di alienazione e il contratto di locazione sono nulli non perché non sono stati validamente posti in essere secondo le norme del Codice Civile, ma perché non sono stati regolarmente denunciati ai sensi dell’art. 59 del Codice. Si tratta quindi di una nullità a-tecnica in quanto costituisce una sanzione di natura civilistica e non indica un vizio genetico del negozio di alienazione (l’atto in sé è perfettamente valido, ma è viziato per legge, perché la denuncia è stata omessa in contrasto con le prescrizioni contenute nell’art. 59)». Per G. Magri, Beni culturali e acquisto a non domino, in Riv. dir. civ., 2013, 3, p. 757, «occorre approfondire il significato del termine nullo adottato dal citato art. 164. È quanto meno discutibile, infatti, che esso sia stato adottato nel significato suo proprio: la nullità prevista dalla norma non sembra corrispondere all’invalidità assoluta che il termine, nell’accezione usuale, designa».
[21] L’art. 30 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 disponeva che «Il proprietario e chiunque a qualsiasi titolo detenga una delle cose che abbiano formato oggetto di notifica a norma degli articoli precedenti è tenuto a denunziare al Ministro per l’educazione nazionale ogni atto, a titolo oneroso o gratuito, che ne trasmetta, in tutto o in parte, la proprietà o la detenzione». Il comma 1° dell’art. 58 del D. Lgs. 490/1999, invece, coincideva con l’attuale primo comma dell’art. 59 D. Lgs. 42/2004. La diversa formulazione di queste previsioni rispetto alla norma di cui all’art. 5 della legge n. 364/1909 potrebbe forse lasciare trasparire l’intento di ridimensionare la portata del divieto di trasferire la proprietà o il possesso in assenza della denuncia. In senso contrario, tuttavia, si veda M.R. Cozzuti Quadri, La prelazione artistica: gli orientamenti attuali, in NGCC, 1998, II, p. 164-165 per la quale l’art. 9 della Carta costituzionale «non solo attribuisce al bene «cultura» dignità costituzionale, ma, inserendo il suo riconoscimento tra i principi fondamentali della nostra Carta, gli assegna un livello di tutela prevalente rispetto a quello degli altri beni costituzionalmente garantiti. Ciò incide, evidentemente, sull’interpretazione delle norme preordinate alla protezione delle cose di interesse storico – artistico, nella quale dovrà tenersi conto del particolarmente elevato grado di tutela loro garantito, a fronte del quale gli interessi privati delle parti contraenti devono necessariamente cedere. Sembra, pertanto, più aderente all’attuale assetto costituzionale, ispirato alla tutela dei grandi valori morali e spirituali, un indirizzo ermeneutico che affermi la nullità assoluta degli atti negoziali non denunziati, ai quali, diversamente opinando, si finirebbe per assegnare un trattamento addirittura più favorevole di quello riservato agli atti rispettosi delle regole legislative».
[22] Sostiene trattarsi di condicio iuris, seppur in riferimento al d.lgs. n. 42/2004, G. Casu, Codice dei beni culturali. Prime riflessioni, in Studi e Materiali CNN, 2/2004, p. 686, tratto da https://elibrary.fondazionenotariato.it/approfondimento.asp?app=27/studicnn/5019%20gc&mn=3&tipo=3&qn=7, a cui avviso «il negozio traslativo del bene a titolo oneroso sarà sempre condizionato sospensivamente negli effetti fino al momento in cui lo Stato sia posto nella condizione di esercitare il diritto di prelazione. Effettuata la denuncia ed esaurito il termine senza che lo Stato abbia risposto (o anche in precedenza se lo Stato abbia risposto di non voler esercitare la prelazione) il contratto riacquista ex tunc pienezza di effetti sia fra le parti che nei confronti dei terzi, ivi incluso lo Stato». Ritiene, invece, P. Guida, Mancata osservanza delle formalità necessarie e ritrasferimento del bene culturale, cit., che «a) tra le parti: l’atto di trasferimento è efficace, per cui l’acquirente diviene proprietario del bene culturale. Tale efficacia può essere resa definitiva nel caso in cui, in seguito alla denuncia tardiva, il Ministero competente non eserciti il diritto di prelazione, ma è destinata ad essere inficiata e venir meno nel caso contrario. b) verso il Ministero per i beni e le attività culturali (e gli enti pubblici territoriali): l’atto di trasferimento è inefficace durante tutto il periodo in cui l’Autorità amministrativa non riceve la denuncia e per i sei mesi successivi alla ricezione della denuncia tardiva. Alla medesima conclusione, infatti, si giunge tanto che si ritenga l’atto viziato da nullità relativa, quanto nel caso si acceda alla tesi della semplice inopponibilità all’autorità amministrativa».
[23] Mutatis mutandis sembra potersi richiamare sul punto la giurisprudenza amministrativa in tema di acquisizione dell’immobile abusivo in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione. Si veda, a tal riguardo, la recente sentenza del Consiglio di Stato, Ad. Plen., 11 ottobre 2023, n. 16, in One Legale, ove si è ritenuto che, in caso di mancata demolizione dell’immobile abusivo, «l’acquisto del bene avviene ope legis, sicché l’atto di accertamento dell’inottemperanza ha natura dichiarativa». Analogamente Tar Lazio Roma, Sez. II quater, sentenza 8 settembre 2022, n. 11708, in One legale ha specificato che dalla lettura delle norme in materia si evince «che l’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione è configurato dalle stesse alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l’effetto (l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale) già verificatosi ex lege alla scadenza del termine assegnato con l’ingiunzione stessa; l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è, infatti, una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente, per espressa previsione di legge, all’inottemperanza all’ordine di demolizione».
[24] Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2022, n. 9171, in One legale.
Cass. civ., Sez. Unite, 26 gennaio 2024, n. 2481, rel. Scoditti, U.R.B.S. S.R.L. (Avv.ti A. Piazza, F. Federico, R. D’Ottavio); MINISTERO DELL’ISTRUZIONE E DEL MERITO, MINISTERO DELLA ECONOMIA E DELLE FINANZE, SENATO DELLA REPUBBLICA (Avvocatura Generale dello Stato)
Nullità – inefficacia – prelazione artistica – condizione di legittimità dell’esercizio del potere – dichiarazione – giurisdizione
Ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo rispetto a una domanda di accertamento del diritto di proprietà nei confronti della pubblica amministrazione se fatto estintivo di quello costitutivo del diritto fatto valere è un provvedimento amministrativo di esercizio della prelazione artistica, emanato sulla base di una norma attributiva del relativo potere e non in carenza assoluta di potere
La dichiarazione di nullità, di cui all’art. 29 della legge 20 giugno 1909 n. 364, delle alienazioni effettuate contro i divieti contenuti nella legge stessa è condizione di legittimità dell’esercizio del potere di prelazione previsto dall’art. 6 della medesima legge.
Provvedimento: (Omissis) URBS Srl propose ricorso innanzi al T.A.R. Lazio nei confronti di Senato della Repubblica Italiana, Ministero dell’Economia e delle Finanze e Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, domandando, in via principale, l’accertamento dell’occupazione abusiva di Palazzo Giustiniani in Roma alla via de.Do. n. 29 da parte del Senato della Repubblica Italiana (d’ora in avanti soltanto “Senato”) e la condanna del Senato alla restituzione dell’edificio in favore della società, oltre al risarcimento del danno per l’occupazione abusiva, ed in via subordinata l’accertamento dell’inadempimento della transazione, di data 14 novembre 1991, stipulata tra il Senato, il Ministero delle finanze (poi Ministero dell’Economia e delle Finanze) e la società ricorrente, con la condanna del Senato all’adempimento dell’obbligo scaturente dall’art. 5 della transazione ovvero a consentire l’uso di una limitata porzione dei locali per ospitare il museo storico della massoneria italiana. La ricorrente espose quanto segue.
Con atto di compravendita, rogato in data 16 febbraio 1911, la società ricorrente aveva acquistato, dai germani A.A. ed B.B., la proprietà dell’immobile di cui sopra, adibito fin dal 1901 a sede legale dell’associazione massonica del Grande Oriente d’Italia -Massoneria Universale (G.O.I.) -, senza che nell’ambito della predetta compravendita fosse stata dichiarata l’esistenza del vincolo storico-artistico gravante sul bene ai sensi dell’art. 6 della legge n. 364 del 20 giugno 1909. Il 5 novembre 1925 Palazzo Giustiniani era stato con violenza occupato da truppe squadriste armate. Con regio decreto-legge n. 2192 del 22 novembre 1925 era stata prevista la facoltà del Governo di dichiarare la nullità degli atti di compravendita degli immobili di valore storico e artistico nazionale oggetto di tutela ai sensi della legge n. 364 del 1909. Con il decreto del 20 gennaio 1926 del Ministro della Pubblica Istruzione (come previsto dall’art. 1 del citato regio decreto-legge) era stato esercitato il diritto di prelazione sull’immobile e con atto del 13 giugno 1927, intercorso fra il Ministero delle finanze, il Ministero della pubblica istruzione e la società ricorrente, erano stati transatti i due giudizi nel frattempo intrapresi innanzi al Consiglio di Stato e al Tribunale di Roma, per far dichiarare privo di efficacia il diritto di prelazione. Con atto di citazione del 26 settembre 1947, la società aveva instaurato un giudizio civile per far dichiarare nullo, per vizio di consenso a causa di violenza, l’atto di transazione e ottenere la restituzione del bene immobile. La Corte di Cassazione, adita con il ricorso preventivo di giurisdizione proposto dai ministeri convenuti (Ministero delle Finanze e Ministero della Pubblica Istruzione), aveva dichiarato, con sentenza a sezioni unite di data 6 giugno 1950, la sussistenza della giurisdizione ordinaria a conoscere delle questioni concernenti la validità della transazione del 13 giugno 1927 e la sussistenza della giurisdizione amministrativa a conoscere delle questioni di legittimità del decreto ministeriale del 20 gennaio 1926, dichiarando per l’effetto l’improponibilità innanzi al giudice ordinario della domanda di restituzione dell’immobile, fondata sia sull’occupazione violenta del 5 novembre 1925 che sull’illegittimità del decreto ministeriale del 20 gennaio 1926, della domanda di intervenuta usucapione dell’immobile oggetto della prelazione e, in subordine, di quella di risarcimento del danno per il caso di non consentita restituzione materiale dell’immobile.
Con sentenza irrevocabile del 9 aprile 1953, la Corte d’appello di Roma aveva rigettato la domanda proposta avverso la transazione del 13 giugno 1927, mentre il giudizio amministrativo proposto davanti al Consiglio di Stato sull’illegittimità del decreto ministeriale del 20 gennaio 1926 era stato dichiarato perento. In data 10 novembre 1961 era stato stipulato un atto con cui era stato riconosciuto l’uso ventennale di una porzione dell’edificio in favore della società e, con successivo atto del 1977, il Ministero delle Finanze aveva concesso l’uso di altri 25 locali, con scadenza coincidente con quella dell’atto del 1961. In data 1 luglio 1981 il Ministero delle Finanze aveva intimato alla società il rilascio dei locali e in data 14 novembre 1991 era stata stipulata un’ulteriore transazione.
Con riferimento alla domanda proposta in via principale, la ricorrente dedusse che l’atto di compravendita del 1911 in favore di URBS era esistente, valido ed efficace per due ragioni: il decreto-legge del 1925, quale normativa successiva all’atto del 1911, era privo di efficacia retroattiva, sicché non poteva porre nel nulla gli effetti della compravendita; in ogni caso, il “Governo del Re” non aveva mai dichiarato la nullità del predetto atto di trasferimento (“la nullità di pieno diritto comminata dall’art. 29 della legge 20 giugno 1909 n. 364, per le alienazioni effettuate contro i divieti contenuti nella legge stessa, è dichiarata dal Governo del Re in confronto dei privati tanto alienanti quanto acquirenti, quando intende esercitare il diritto di prelazione riservatogli dall’art. 6 della legge medesima”, prevede l’art. 1 del regio decreto-legge n. 2192 del 22 novembre 1925), con la conseguenza che, permanendo in vita l’atto di proprietà in capo alla società, il decreto di prelazione emesso dal Governo non poteva costituire atto di trasferimento in favore di quest’ultimo.
Quanto alla domanda proposta in via subordinata, la ricorrente osservò che l’atto di transazione del 1991, di carattere trilaterale, scaturiva dal rapporto concessorio avente ad oggetto l’immobile in questione, già in essere tra il Ministero delle Finanze e il Senato della Repubblica, e che tale atto era da inquadrare nella categoria degli accordi ex art. 11 della l. n. 241 del 1990. Precisò che l’art. 4 prevedeva quanto segue: “‘l’Amministrazione del Senato, che interviene al presente atto in quanto interessata alla consegna in uso a favore dei locali rilasciati dalla società U.R.B.S. all’Amministrazione delle finanze, prende atto di quanto sopra esposto ed in particolare della risoluzione al rilascio immediato da parte della società U.R.B.S. e della relativa condizione da questa voluta di ottenere la concessione dei locali già occupati dal Rito scozzese per la destinazione a museo storico”. In base all’art. 5, “l’Amministrazione delle Finanze prende atto della determinazione del Senato a consentire, con apposita convenzione, alla società U.R.B.S., l’uso di una limitata porzione dei locali dell’immobile rilasciati, ubicati al piano terreno ed al piano ammezzato, e relativi accessori e pertinenze con accesso da piazza de.Ro. nn. 10 e 11 e da via Gi. nn. 1 e 2 per destinarli a sede del Museo storico della Massoneria italiana, tenendo conto anche dell’interesse storico cui la finalità da realizzare si ispira, della complessità e della delicatezza della vicenda cui si pone fine con il presente atto, della compatibilità di tale utilizzazione delle esigenze del Senato e delle ragioni di pubblico interesse”. Allegò quindi che il Senato era rimasto inadempiente all’accordo, non avendo provveduto a stipulare la convenzione per la regolazione delle condizioni d’uso da parte di U.R.B.S. di una porzione limitata dei locali di Palazzo Giustiniani, e propose, a fronte di tale mancato adempimento, domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 cod. civ.
Il T.A.R. dichiarò inammissibile la domanda per difetto di giurisdizione. La società propose appello. Con sentenza n. 9171 di data 27 ottobre 2022 il Consiglio di Stato, sez. IV, rigettò l’appello.
Il giudice amministrativo di appello osservò che la società aveva agito in giudizio affermando la sussistenza del suo diritto di proprietà su Palazzo Giustiniani e disconoscendo qualsivoglia valore giuridico agli atti normativi, amministrativi e negoziali che, tra il 1925 e il 1927, ne avrebbero sancito – almeno, formalmente – il passaggio di proprietà allo Stato. Aggiunse che, nelle controversie aventi ad oggetto l’esercizio del diritto di prelazione da parte di un affittuario di un fondo agricolo a fronte del provvedimento di aggiudicazione del fondo a terzi emesso dalla mano pubblica, pur in presenza dell’impugnazione di atti amministrativi di aggiudicazione del fondo, il giudizio spettava alla cognizione del giudice ordinario (Cass. n. 11582 del 2019).
Passando alla domanda proposta in via subordinata, il Collegio rilevò l’insussistenza di qualsiasi procedimento al cui interno collocare, in funzione sostitutiva del provvedimento o integrativa del suo contenuto, così come richiesto dall’art. 11 legge n. 241/1990, l’accordo transattivo del 14 novembre 1991, il quale doveva essere qualificato come vera e propria transazione, stipulata dopo le questioni insorte inerenti la titolarità della proprietà e, successivamente, la concessione in uso di parte dell’edificio. Precisò che le clausole non perfezionavano l’insorgere di un rapporto concessorio riguardante l’uso dei locali da adibire a museo storico della massoneria, ma si limitavano a prevedere una sorta di dichiarazione d’intenti tra le parti del contratto di transazione da finalizzare, successivamente, con l’emanazione del provvedimento di concessione e la stipulazione del relativo accordo accessivo. Aggiunse che, anche ad accogliere la qualificazione in termini di art. 11 legge n. 241 del 1990, erano attribuite alla giurisdizione del giudice civile le controversie che, pur se correlate ad accordi pubblicistici, stipulati ai sensi dell’articolo 11 o 15 della legge n. 241/1990, avevano ad oggetto vicende meramente patrimoniali o questioni prettamente proprietarie (Cass. Sez. U. n. 21770 del 2021, n. 26921 del 2021, n. 21650 del 2021 e n. 8049 del 2018).
URBS Srl ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi e resistono con unico controricorso Senato della Repubblica Italiana, Ministero dell’Economia e delle Finanze e Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
È stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ. Il pubblico ministero ha depositato le conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
È stata presentata memoria.
Motivi della decisione
Considerato che:
con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 386 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. Con riferimento alla domanda proposta in via principale la parte ricorrente deduce che la decisione impugnata ha violato la statuizione sulla giurisdizione del giudice amministrativo di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite di data 6 giugno 1950. Aggiunge che la prelazione non si è perfezionata, per avere omesso il Governo di dichiarare la nullità della compravendita e che la giurisdizione è comunque del giudice amministrativo per essere la prelazione di cose d’interesse storico e artistico espressione di potestà autoritativa di carattere ablatorio, in grado di degradare le posizioni soggettive ad interessi legittimi.
Il motivo è fondato. Con riferimento al rapporto processuale fra la ricorrente, da una parte, ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dall’altra, vi è l’effetto vincolante della pronuncia sulla giurisdizione resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza di data 6 giugno 1950. Ricorre, con riferimento a tale rapporto processuale, l’identità del processo non solo sul piano soggettivo, ma anche oggettivo.
Le domande di condanna alla restituzione dell’immobile, avuto riguardo alla dedotta illegittimità del decreto ministeriale del 20 gennaio 1926, di accertamento di intervenuta usucapione dell’immobile oggetto della prelazione e di risarcimento del danno, per il caso di mancata restituzione dell’immobile, furono dichiarate improponibili, vigendo la giurisdizione del giudice amministrativo perché il diritto allegato dalla società U.R.B.S. era stato affievolito dal decreto ministeriale di prelazione di cui la stessa società negava la legittimità. L’odierno fatto costitutivo della domanda restitutoria e risarcitoria è la validità ed efficacia dell’atto di compravendita del 1911 in favore di URBS, sia perché il decreto-legge del 1925, quale disciplina successiva all’atto del 1911, sarebbe privo di efficacia retroattiva, sia perché il “Governo del Re” non avrebbe mai dichiarato la nullità del predetto atto di trasferimento, come previsto dalla norma, per cui, permanendo in vita l’atto di proprietà in capo alla società, il decreto di prelazione emesso dal Governo non poteva costituire atto di trasferimento in favore di quest’ultimo. La circostanza che nel ricorso di cui alla precedente pronuncia di queste Sezioni Unite fossero indicati, quali fatti costitutivi della domanda restitutoria, la illegittimità del decreto ministeriale con cui era stata esercitata la prelazione e l’usucapione non incide al livello dell’oggetto della domanda, che è identico a quello dell’odierno giudizio. Entrambi i giudizi hanno infatti ad oggetto l’accertamento del diritto di proprietà, il quale, avendo carattere autodeterminato, è individuato in base alla sola indicazione del suo contenuto – cioè del bene che ne costituisce l’oggetto -, per cui nelle azioni ad esso relative la deduzione del fatto costitutivo rileva ai fini non della sua individuazione, ma soltanto della prova del diritto (al punto che, qualora proposta una domanda di accertamento o di condanna, relativa al diritto di proprietà, sulla base di un determinato fatto costitutivo, questa venga rigettata per ragioni inerenti al fatto costitutivo dedotto, l’accertamento con efficacia di giudicato dell’inesistenza del diritto stesso preclude la possibilità di far valere “ex novo” il medesimo diritto sulla base di un diverso titolo di acquisto – fra le tante, da ultimo, Cass. n. 22591 del 2020). Secondo la pronuncia di queste Sezioni Unite di data 6 giugno 1950 quel diritto di proprietà soggiace ad un interesse legittimo oppositivo stante la presenza del decreto ministeriale di prelazione. Il mutamento del fatto costitutivo dedotto non cambia la pretesa sostanziale fatta valere, che è sempre la medesima, poiché si tratta di interesse oppositivo correlativo al diritto di proprietà, per il quale vale la regola dell’autodeterminazione.
Ricorrendo l’identità soggettiva ed oggettiva dei giudizi vi è il vincolo della precedente pronuncia sulla giurisdizione del giudice amministrativo, per cui è quest’ultimo il giudice cui va devoluto il processo.
Anche con riferimento al rapporto processuale fra la ricorrente ed il Senato deve essere statuita la giurisdizione del giudice amministrativo, la quale va accertata in modo indipendente dalla precedente statuizione, vigendo nell’ordinamento processuale, come è noto, il principio generale dell’inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione (fra le tante da ultimo Cass. Sez. U. n. 8475 del 2022).
L’atto di esercizio del diritto di prelazione artistica spettante alla pubblica amministrazione è un provvedimento amministrativo, in relazione al quale è configurabile la giurisdizione del giudice amministrativo ove si verta in una ipotesi di carenza di potere in concreto, in quanto attinente al quomodo della potestà pubblica, sicché la posizione fatta valere dalla parte privata acquirente che lo abbia subito è di interesse legittimo oppositivo, e non di diritto soggettivo (Cass. Sez. U. n. 7643 del 2020; n. 5097 del 2018). Nel caso di specie non si contesta la carenza di potere in astratto per l’assenza della norma attributiva del potere, ma quella in concreto perché non si nega la spettanza del potere, ma si afferma che il decreto di esercizio della prelazione, in mancanza della dichiarazione di nullità della compravendita, non è in grado di perfezionare l’acquisto in favore dell’autorità amministrativa.
Benché la domanda non sia indirizzata all’atto amministrativo, ma sia limitata all’accertamento della validità ed efficacia dell’atto di compravendita del 1911, per le ragioni della irretroattività della norma sulla prelazione e la mancata dichiarazione di nullità del predetto atto, la circostanza che fatto estintivo del fatto costitutivo allegato – il diritto di proprietà – sia un provvedimento amministrativo emanato sulla base di un potere attribuito della norma, ed in relazione al quale si può porre solo una questione di carenza di potere in concreto, comporta che la cognizione in via principale del giudice si intenda estesa anche al profilo della legittimità di un tale provvedimento. Si tratta di una piana applicazione della regola di riparto della giurisdizione informata al criterio del petitum sostanziale, in luogo di quello formale, il quale ha riguardo non alla causa petendi ma all’oggetto del dispositivo giurisdizionale che si invoca, mentre il petitumsostanziale concerne il rapporto dedotto in giudizio ed oggetto di accertamento giurisdizionale.
Poiché la controversia è sul diritto di proprietà, diritto autodeterminato come si è detto, e pertanto identificato sulla base del suo solo contenuto, il riconoscimento del diritto preclude l’esistenza di un contro-diritto di pari contenuto stante il nesso di incompatibilità giuridica. Affermare l’esistenza del diritto di proprietà di parte ricorrente comporta la negazione del diritto vantato dall’Amministrazione sulla base dell’esercitata prelazione. Secondo la regola sui limiti oggettivi del giudicato, l’accertamento di esistenza del fatto costitutivo comporta quello di inesistenza di tutti i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del fatto allegato dall’attore. Nella presente controversia la dichiarazione di esistenza del diritto di proprietà dell’attore implica l’accertamento dell’inesistenza della legittimità dell’acquisto in favore dell’Amministrazione mediante la prelazione. Poiché, però, quest’ultimo acquisto deriva da un provvedimento amministrativo, alla luce della richiamata regola sui limiti oggettivi del giudicato di accoglimento la cognizione del giudice si intende estesa anche alla illegittimità del provvedimento di
acquisizione. La questione del legittimo esercizio del potere attribuito dalla norma è perciò in grado, alla luce degli effetti di accertamento della dichiarazione di esistenza del diritto, di rientrare nel campo delle questioni pregiudiziali in senso logico, suscettibili di essere accertate con efficacia di giudicato e dunque principaliter.
Ciò che invero denuncia la parte ricorrente è proprio l’illegittimo esercizio del potere. Si deduce che il “Governo del Re” non ha mai dichiarato la nullità del predetto atto di trasferimento. Prevede l’art. 1 del regio decreto-legge n. 2192 del 22 novembre 1925 che “la nullità di pieno diritto comminata dall’art. 29 della legge 20 giugno 1909 n. 364, per le alienazioni effettuate contro i divieti contenuti nella legge stessa, è dichiarata dal Governo del Re in confronto dei privati tanto alienanti quanto acquirenti, quando intende esercitare il diritto di prelazione riservatogli dall’art. 6 della legge medesima”. La dichiarazione di nullità della compravendita non è un requisito di efficacia dell’acquisto rilevante sul piano del diritto privato ma è una modalità di esercizio del potere amministrativo perché, come prevede la disposizione, “quando intende esercitare il diritto di prelazione”, l’autorità amministrativa deve dichiarare la nullità del contratto. È il quomodo della potestà pubblica che viene in rilievo: la dichiarazione di nullità è condizione pregiudiziale dell’esercizio del potere, che altrimenti non può essere legittimamente esercitato. Denunciando quindi il mancato perfezionamento dell’acquisto per l’assenza della dichiarazione di nullità, la società ricorrente impugna le modalità di esercizio del potere amministrativo, sotto il profilo della violazione di legge per carenza del presupposto fissato dalla norma.
In termini analoghi, è stato affermato che nella compravendita di bene sottoposto a vincolo archeologico, l’eventuale inefficacia del vincolo, per inosservanza delle norme in tema di trascrizione e notificazione del relativo atto impositivo, non implica che il successivo esercizio della prelazione da parte della P.A. integri una fattispecie di carenza di potere in astratto – come tale determinante un’ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo per difetto assoluto di attribuzione – trattandosi, invero, di un’ipotesi di carenza di potere in concreto, in quanto attinente non all'”an” bensì al “quomodo” della potestà pubblica; ne consegue che la posizione fatta valere, sul presupposto di una tale inefficacia, dall’acquirente che abbia subito l’esercizio del diritto di prelazione, è di interesse legittimo oppositivo, e non di diritto soggettivo, ed in quanto tale devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo (Cass. Sez. U. n. 5097 del 2018).
L’efficacia del giudicato di accoglimento della domanda anche riguardo all’inesistenza della legittimità del provvedimento amministrativo comporta che la posizione soggettiva fatta valere dal privato sia di interesse legittimo. Deducendo in giudizio una fattispecie proprietaria fronteggiata sul punto del diritto di proprietà dall’atto amministrativo di prelazione, la società attrice allega una situazione di interesse legittimo oppositivo, coerentemente del resto a quanto queste Sezioni Unite dichiararono con la sentenza di data 6 giugno 1950. Il criterio del petitum sostanziale comporta che il rapporto giuridico dedotto in giudizio sia valutato nella sua integralità, indipendentemente dall’oggetto immediato della domanda, e dunque sia nei suoi elementi costitutivi, che in quelli impeditivi, modificativi o estintivi, allorquando tali elementi possano cadere, come nel caso della controversia in discorso, nel raggio del giudicato.
È appena il caso di aggiungere che non può farsi riferimento alla giurisprudenza richiamata dal Consiglio di Stato, relativa al diritto di prelazione da parte di un affittuario di un fondo agricolo a fronte del provvedimento di aggiudicazione del fondo a terzi emesso dalla pubblica amministrazione, ove ricorre la giurisdizione del giudice ordinario (così da ultimo Cass. Sez. U. n. 11582 del 2019), perché in tale ipotesi l’eventuale questione di legittimità dell’atto emesso dalla pubblica amministrazione ha natura di pregiudiziale in senso tecnico e non in senso logico, e dunque suscettibile di accertamento in via soltanto incidentale.
Vanno in conclusione enunciati i seguenti principio di diritto: “ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo rispetto ad una domanda di accertamento del diritto di proprietà nei confronti della pubblica amministrazione se fatto estintivo di quello costitutivo del diritto fatto valere è un provvedimento amministrativo di esercizio della prelazione artistica, emanato sulla base di una norma attributiva del relativo potere e non in carenza assoluta di potere”;
“la dichiarazione di nullità, di cui all’art. 29 della legge 20 giugno 1909 n. 364, delle alienazioni effettuate contro i divieti contenuti nella legge stessa è condizione di legittimità dell’esercizio del potere di prelazione previsto dall’art. 6 della medesima legge”.
Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 386 cod. proc. civ. e degli artt. 11 l. n. 241 del 1990 e 133, comma 1, lett. b) e comma 1, lett. a) n. 2 cod. proc. amm., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente, con riferimento alla domanda proposta in via subordinata, che vi è giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo costituendo la transazione del 14 novembre 1991 accordo, di carattere trilaterale, sostitutivo di provvedimento relativo a rapporto di concessione di bene pubblico avente natura demaniale, e cui il Senato è rimasto inadempiente, non avendo stipulato la convenzione mediante cui regolare le condizioni dell’uso di una porzione limitata dei locali dell’immobile.
Il motivo è infondato. Va premesso che deve essere accertata la giurisdizione anche con riferimento alla domanda subordinata. Nel caso di domande cumulate avvinte da nesso di subordinazione, il potere delle Sezioni Unite di regolare la giurisdizione va esercitato con riferimento a tutte le domande – attesa l’esigenza di risolvere la questione di giurisdizione una volta per tutte sull’intera controversia -ma senza sciogliere il nesso di subordinazione voluto dalla parte; ne consegue che il giudizio di legittimità avente ad oggetto la questione di giurisdizione va risolto rimettendo le parti innanzi al giudice munito di giurisdizione sulla domanda principale e dichiarando la giurisdizione, eventualmente diversa, sulla domanda subordinata, declaratoria, quest’ultima, rilevante solo condizionatamente alla definizione della domanda pregiudiziale (cfr. Cass. sez. U. n. 7822 del 2020; n. 16458 del 2020).
La prospettazione della ricorrente è che la transazione del 14 novembre 1991 sarebbe qualificabile come accordo sostitutivo di provvedimento amministrativo di cui all’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2 cod. proc. amm., soggetta quindi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Contenuto della transazione del 14 novembre 1991, per quanto qui rileva, è la presa d’atto da parte del Senato della volontà di U.R.B.S. di rilasciare i locali dell’immobile alla condizione di “ottenere la concessione dei locali già occupati dal Rito scozzese per la destinazione a museo storico” (art. 4), mentre, in base all’art. 5, “l’Amministrazione delle Finanze prende atto della determinazione del Senato a consentire, con apposita convenzione, alla società U.R.B.S., l’uso di una limitata porzione dei locali dell’immobile rilasciati”.
L’accordo è sostitutivo di provvedimento quando è esplicazione, in forma consensuale, del potere attribuito dalla norma all’Amministrazione. Come prevede l’art. 11 l. n. 241 del 1990, l’accordo viene concluso dall’Amministrazione “nel perseguimento del pubblico interesse”. Elemento definitorio dell’accordo è dunque l’interesse pubblico, che ne condiziona la qualifica pubblicistica. In quest’ottica la norma prescrive che la stipulazione dell’accordo sia preceduta da una determinazione dell’organo competente a emanare il provvedimento, al fine di giustificarne la rilevanza pubblicistica.
Il potere amministrativo in questione, secondo la prospettazione della ricorrente, sarebbe quello di concessione del bene pubblico costituito da alcuni locali di Palazzo Giustiniani in Roma alla via de.Do. n. 29. L’astratta indicazione del potere non è però sufficiente a connotare in termini pubblicistici l’accordo, essendo necessario che dal medesimo risulti il perseguimento dell’interesse pubblico. L’accordo allegato è limitato alla mera transazione, nell’ambito della quale viene posta, in termini che restano da definire nel corso del giudizio di merito quanto alla portata di vincolo giuridico, la questione della concessione in uso di alcuni locali dell’immobile. L’accordo, sul punto della concessione in uso, è muto quanto al perseguimento dell’interesse pubblico, ed in esso si fa riferimento solo alle nozioni di occupazione, canone e sublocazione (concessa dalla Massoneria Grande Oriente d’Italia, che “occupava” l’immobile, ad il Rito Scozzese). Dal punto di vista funzionale l’atto esprime quindi soltanto lo scopo propriamente transattivo del porre fine alla controversia mediante reciproche concessioni, senza che emerga l’ulteriore funzione del perseguimento dell’interesse pubblico. Sul punto va anche richiamato quanto affermato dal giudice amministrativo, e cioè l’insussistenza di qualsiasi procedimento al cui interno collocare, in funzione sostitutiva del provvedimento o integrativa del suo contenuto, l’accordo transattivo. Quest’ultimo è, in conclusione, inidoneo ad integrare la fattispecie dell’accordo sostitutivo di provvedimento amministrativo.
La statuizione sulla giurisdizione in relazione alla domanda subordinata, essendo rilevante – come si è detto – solo condizionatamente alla definizione della domanda pregiudiziale, viene pronunciata per l’ipotesi di scioglimento della subordinazione.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta il secondo motivo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia al T.A.R. Lazio in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità; statuendo sulla giurisdizione, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla domanda principale e la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda subordinata. (Omissis)