Maurizio Cinelli
Già prof. ord. di diritto del lavoro dell’Università degli Studi di Macerata
Il contributo si sofferma su particolari questioni giuridiche emergenti dal fenomeno della street art, quali la tutela giuridica dell’opera e il difficile rapporto con il diritto di proprietà.
The paper focuses on particular legal issues emerging from the street art phenomenon, such as the legal protection of the artwork and the difficult relationship with property rights.
Sommario: 1. Premessa. Law and art: un rapporto ‘difficile’. – 2. Il ‘peso’ del diritto di proprietà. – 3. Quando l’arte si impone al diritto. – 4. La rilevanza giuridica dell’‘arte di strada’: le condizioni … – 5 … e le problematiche. – 6. Il principio di libera espressione e il principio di tutela del lavoro in tutte le sue manifestazioni: quali implicazioni per l’‘arte di strada’? – 7. Quando l’arte di strada si confronta con le logiche di mercato. – 8. La street art tra esigenze di certificazione della qualità … – 9. … e tutela della paternità dell’opera. – 10. Diritto d’autore vs diritto di proprietà: alcuni casi esemplari di conflitto tra artista e proprietario. – 11. Per concludere. La ‘versatilità’ della street art: dalla ‘ribellione’ all’utilizzo per fini di pubblico interesse, e altro ancora.
1. Murales, graffiti, tags (le ‘firme’ fantasiosamente modulate), writing (scritte e disegni vari): un complesso di colori e forme, più o meno gradevoli e della più varia foggia, che, in maniera sempre più frequente e intensa, per mezzo delle tecniche più disparate, nelle nostre città ‘decora’ ormai ogni superficie che si presti allo scopo, dalle pareti di molti edifici, ai supporti più vari, come i sottopassaggi, le saracinesche, gli esterni dei vagoni ferroviari, e così via. Non diversamente, peraltro, da quanto avviene in tanti altri paesi del mondo.
Tale realtà fenomenologica sembrerebbe avere scarso titolo (o non averne alcuno) per essere considerata parte dell’insieme di beni e valori al quale l’ordinamento giuridico offre considerazione e tutela. Una valutazione, questa, che appare ancor più credibile, quando si consideri che tali forme espressive tendono ad autorappresentarsi come gesti di ribellione nei confronti non solo del modo in cui viene gestito il settore (gallerie, musei, mostre), ma anche nei confronti del mercato dell’arte. Tanto che spesso il fenomeno assume una connotazione di natura ideologica di sostanziale rifiuto di ogni interferenza da parte di norme e leggi.
Pienamente giustificabile, dunque, che, di fronte a tali caratteristiche, l’idea più immediata sia che il diritto abbia motivo di essere coinvolto soltanto nel suo aspetto repressivo: quell’aspetto che si manifesta attraverso le norme sanzionatrici di comportamenti o iniziative lesivi di beni o interessi protetti della collettività (nella specie, l’imbrattamento delle superfici prescelte: il cosiddetto ‘vandalismo grafico’), e pertanto da contrastare e reprimere.
In effetti, gli stessi autori di quelle che possono considerarsi le espressioni più raffinate di quel fenomeno, di origini spontaneistiche, che va sotto il nome di street art – cioè, sostanzialmente gli autori dei murales – hanno un atteggiamento del tutto peculiare nei confronti dell’opera frutto delle proprie pulsioni espressive e artistiche. Opera che, infatti: viene eseguita, in assenza di qualsiasi previa committenza o autorizzazione, su supporto materiale altrui; viene esposta alla pubblica e libera fruizione; lega il proprio ‘messaggio’, così come la sua stessa esistenza a detto supporto materiale, al luogo in cui questo si trova, alla sua ‘storia’; viene esposta senza protezione all’usura degli agenti atmosferici.
Tutte caratteristiche, le suddette, che appaiono significative di una scelta ben precisa: quella di dare per scontata sia la natura effimera dell’opera stessa, sia la volontà di abbandonarla (una volta completata) alla libera fruizione e disponibilità del pubblico. Con quanto implicitamente se ne può evincere in termini di disinteresse dell’artefice – quando non addirittura di ostilità – nei confronti di qualsiasi forma di tutela giuridica: in particolare, quella che si realizza tramite il copyright.
In realtà, ad un esame un po’ più approfondito si scopre che le cose non stanno proprio così. E non da ora.
È quanto si può evincere già da alcuni casi risalenti nel tempo, che, sebbene non pienamente sovrapponibili al fenomeno in questione, presentano caratteristiche che possono comunque fornire indicazioni assai utili per orientarsi nell’analisi della specifica, singolare materia. Vediamone alcuni.
2. Un suggestivo spunto per dare avvio alla riflessione sul tema può fornirlo un primo caso che ha la peculiarità di essere particolarmente risalente, riferendosi addirittura alla Roma del secondo secolo dopo Cristo.
L’autore-compilatore di quelle Institutiones che avrebbero avuto un’enorme fortuna nei secoli successivi, il giurista Gaio, prospetta un caso del tutto particolare: quello di un pittore, che, avendo realizzato la sua opera su tavola altrui senza chiedere il previo consenso del relativo proprietario, reclama tutela per il prodotto della sua vena artistica.
Si tratta, dunque, di risolvere il conflitto di interessi tra l’artista e il proprietario del supporto indebitamente utilizzato da questi. E il giurista elabora la regola da applicare: la tavola (la res) cede alla pittura, che dunque prevale sulla prima. Nel senso che la pictura viene considerata bene ‘principale’ rispetto alla tabula, e per questo merita di attrarre a sé quest’ultima: ne consegue che l’artefice (proprietario delle paste coloranti e, dunque, dell’opera pittorica risultante dalla loro utilizzazione)acquista la proprietà anche del bene mobile impiegato come supporto.
Ha vita, così, un caso di acquisto della proprietà per «accessione»: nella specie della «unione» di «più cose appartenenti a diversi proprietari», diremmo noi oggi, con le parole dell’art. 939 c.c. Tuttavia – e qui si rivela tutta la praticità del diritto romano classico – il pittore, se non si vuole rassegnare a perdere comunque l’opera, deve assoggettarsi a pagare il prezzo della res (il supporto materiale della pittura) al proprietario di quella.
Non vale, però, la stessa regola, ci avverte quel giurista, nel caso in cui qualcuno abbia scritto qualcosa, utilizzando papiro o pergamena altrui, anche in tale occasione senza il consenso del relativo proprietario. A differenza dell’altro caso, qui la scriptura (l’opus), in quanto non suscettibile di un’esistenza autonoma, cede alla pergamena (la res); pertanto, è il proprietario di quest’ultima che prevale, e, dunque, acquista anche la proprietà delle litterae.
La differenza di soluzione può stupire (e, d’altra parte, era già controversa all’epoca, come ci ricorda Massimo Brutti, in Il diritto privato nell’antica Roma, Torino, 2015). Non è, però, tale aspetto, né, tantomeno, l’indagine sulle ragioni di tale (vera o presunta) discrepanza, che qui devono catturare la nostra attenzione.
È necessario concentrarsi, piuttosto, sul fatto che, in entrambe quelle risalenti controversie, il conflitto tra creatività (pittorica o letteraria, che sia) e titolarità della materia di supporto, arbitrariamente utilizzata, viene risolto assumendo a riferimento il diritto di proprietà (e le relative regole di acquisizione, nella specie, a titolo originario) e, come discrimine, il raffronto del valore economico di ciascuno dei beni interessati.
Anche in tale occasione, dunque, manifesta tutto il suo peso quel diritto che, storicamente, è pilastro degli ordinamenti giuridici dell’Occidente; e, tuttavia, sul piano sociale produce effetti fortemente divisivi, tanto da meritare l’appellativo di «terribile» [1].
3. Un secondo caso emblematico, parimenti atto a fornire utili spunti per l’analisi, sia pur sommaria, appena intrapresa, si colloca, invece, in epoca molto più recente: precisamente, negli anni 20 dello scorso secolo.
Le cronache riferiscono dell’episodio del quale è stato protagonista un già affermato scultore francese, Constantin Brancusi. Questi, nel recarsi negli Stati Uniti accompagnato dall’amico, altrettanto famoso artista, Marcel Duchamp, per partecipare ad una rassegna internazionale d’arte con una sua opera, si vede fermato dai doganieri, i quali, esaminata la scultura, non riconoscono in essa, in ragione della sua struttura ‘astratta’ e della foggia poco accattivante, un’opera d’arte; vi ravvisano soltanto un bizzarro oggetto di metallo, di dubbia gradevolezza. La scultura, dunque, viene trattata e tassata dai doganieri come un qualsiasi altro manufatto metallico di uso comune: offendendo così, prima ancora che la tasca, l’amor proprio dell’artista.
Questi, pertanto, si oppone in sede giudiziaria al pagamento del balzello, dando vita ad un caso giudiziario che avrebbe subito acquisito grande risonanza mediatica, sia per la notorietà dei protagonisti (lo scultore ricorrente e il pittore che lo accompagna e sostiene), sia per il carattere intrigante della questione controversa: questione innegabilmente dai tratti molto singolari in sé, ma anche per l’impatto sulla mentalità dell’epoca e su quella del giovane Paese, in particolare.
Si può affermare che l’opera d’arte, una volta che sia stata riconosciuta come tale, acquista una sua specifica identità, un ‘valore’, per effetto dei quali ‘si impone’ al diritto, e reclama, dunque, un proprio statuto giuridico. Ed è proprio tale basilare questione – come definire un’‘opera d’arte’, e se tale possa effettivamente qualificarsi lo specifico oggetto fonte di controversia – che i giudici americani si trovano a dover decidere.
Inutile sottolineare che per quei giudici ciò significa dover dirimere una questione che, notoriamente, travaglia e inquieta da molti secoli tutti coloro che ad essa si sono interessati. Che cosa può veramente intendersi per arte? come definire un’opera d’arte? in base a quali criteri si può farlo? Domande ‘incendiarie’, alle quali, in effetti, hanno fatto riscontro nel tempo le risposte più disparate (e più o meno vaghe) di filosofi e pensatori, e che, invece, in quella particolare occasione, reclamavano una risposta tranchante; e, per di più, da parte di soggetti – i giudici doganali – professionalmente attrezzati per confrontarsi con ben altri concetti e dirimere ben altro tipo di vertenze.
D’altra parte, quel compito era tanto più difficile, in quanto l’opera in questione, pur essendo intitolata ad un essere vivente («Uccello nello spazio», ne era il titolo), consisteva in un pezzo di metallo dalla superficie lucida e liscia, quindi privo di qualsiasi, anche indiretto, richiamo alla natura: privo, cioè, di uno dei requisiti – la mimesi del vero – all’epoca ancora ritenuto essenziale dai più, perché un’opera d’arte potesse aspirare ad essere considerata tale.
In sostanza, quei giudici del Nuovo Mondo improvvisamente si sono trovati a dover giudicare sulla poetica di artisti della vecchia Europa, che, affrancatisi dall’incanto del classicismo, si facevano fautori della bellezza della materia e della mera forma, di per sé considerate
L’intera vicenda è raccontata, analizzata e discussa in un libro, edito (nella versione italiana) a Milano nel 2001, del giurista e filosofo francese, Bernard Edelman[2]. Per quanto interessa il presente tema, può essere sufficiente richiamare il passo centrale della valutazione che l’autore del libro esprime in merito al travaglio di quei giudici: «La Corte – egli dichiara – riconosceva che qualcosa si era definitivamente spezzato: una certa concezione dell’arte e della bellezza, un certo classicismo; riconosceva che lo sguardo era cambiato, che la percezione si era trasformata, che il bizzarro, il mostruoso, l’inaudito, avevano acquistato diritto di cittadinanza; constatava che un tempo nuovo era alle porte, l’era del tutto possibile, che si era entrati nel campo della sperimentazione illimitata, nell’epoca del trionfo della tecnica, e che tutte le barriere protettive erano crollate».
Altrettanto significative, seppur meno ‘letterarie’, sono le parole utilizzate dai giudici per motivare, al termine del travagliato processo, la propria decisione: «Ci sembra che l’oggetto sul quale siamo stati chiamati a deliberare abbia unicamente scopi decorativi, e che la sua finalità sia uguale a quella di qualsiasi scultura dei maestri antichi. È un bell’oggetto, di linee simmetriche, e nonostante sia difficile poterlo assimilare a un uccello, non risulta per questo meno gradito alla vista, e presenta un grande valore ornamentale. E considerando, sulla scorta delle testimonianze, che si tratta di un prodotto originale di un artista professionista, di una scultura, di un’opera d’arte, secondo gli esperti sopra menzionati, accogliamo la querela e giudichiamo che l’oggetto abbia titolo a entrare in franchigia».
Sia quelle dei giudici, sia quelle del commentatore sono parole che alludono al riconoscimento di un fatto nuovo e clamoroso: l’apertura di un varco nella comune concezione del gusto estetico. Esse lasciano intendere, cioè, che il giudizio complessivo su qualità e essenza dell’opera è giudizio ‘aperto’, correlato alla mutevolezza nel tempo di gusti e costumi.
Non si tratta, certo, di novità per un filosofo dell’estetica. È importante, tuttavia – anche per le implicazioni in merito al tema in esame –, rilevare come tale ufficiale presa d’atto provenisse, nell’occasione, dalla ‘filosofia pratica’, applicata, nello specifico, da un’autorità giudiziaria.
4. Che pertinenza hanno i due casi che ho appena ricordato, con l’argomento oggetto della presente riflessione?
Apparentemente nulla; ma solo apparentemente, appunto.
In realtà, quei casi mettono in evidenza, ciascuno per la sua parte, due snodi fondamentali, intorno ai quali di fatto ruota la complessa problematica, relativa alla regolamentazione giuridica dei prodotti di quella che oggi chiamiamo street art (della quale ci offre uno spaccato il libro di Allan Schwartzman [3], una delle prime opere in assoluto sulla materia). Si tratta del diritto di proprietà e delle sue regole, da un lato; e del concetto di arte e dei criteri per la sua individuazione e “certificazione” (beninteso, nei limiti di quanto possa rilevare ai fini della regolamentazione giuridica), dall’altro lato.
Il prodotto artistico di strada, in effetti, può considerarsi come ‘bene’ rilevante per l’ordinamento giuridico solo dopo che, nello specifico contesto, si sia visto riconoscere valenza artistico-culturale, e abbia quindi acquisito un ‘valore’ ben identificabile. Valore che – per dirla brutalmente – deve essere traducibile in termini economici, soltanto a tale condizione quel ‘prodotto’ potendo, concretamente, entrare a far parte della categoria dei beni suscettibili di commercio giuridico.
Quanto sopra non esclude, naturalmente, che quel valore non possa rilevare anche a fini diversi da quelli cui tendono le logiche mercantili dello scambio, e non necessariamente meno importanti. Esemplare, a quest’ultimo proposito, può essere considerata l’assoluzione dall’accusa di imbrattamento, pronunciata qualche anno fa dalla Suprema corte (Cass. pen., sez. IV, 5 aprile 2016, n. 16371) nei confronti dello street artist,denominato Manuinvisible, incriminato e, dunque, sottoposto a giudizio penale a causa di un suo intervento con bombolette spray su di un edificio di Milano. L’assoluzione è stata pronunciata in ragione non tanto del fatto che la facciata di detto edificio risultava già imbrattata all’epoca dei fatti, quanto della circostanza che l’intenzione dell’artista era quella di procedere ad un abbellimento dell’edificio stesso: un’intenzione, riconosciuta dalla Corte come pienamente credibile, considerato l’ampio riconoscimento delle doti artistiche del suddetto.
5. È proprio dall’interazione dei due suddetti, eterogenei punti nodali – ‘proprietà’ e ‘arte’ (rectius, prodotto di riconosciuta valenza artistica o culturale) – che si diparte tutta una serie di questioni di particolare rilievo e, non di rado, di problematica soluzione.
Se è incontestabile che gli assetti delle regole proprietarie, così come, su altro fronte, le regole di ordine pubblico relative al decoro urbano e alla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico, non possono non prevalere nei confronti di scritte o segni di scarso o nessun pregio (quelli, per intenderci, valutabili alla stessa stregua di una forma di imbrattamento, privati o pubblici, fatiscenti, o meno, che siano gli immobili interessati), non parrebbe giustificata analoga conclusione riguardo a interventi di analoga tipologia, ma qualitativamente più raffinati, di riconoscibile pregio artistico-culturale.
E, tuttavia, ecco già una prima questione da affrontare: come contenersi nei confronti di quelle opere espressione di artefici pur dotati, ma che ancora non abbiano conquistato agli occhi dell’opinione pubblica apprezzamento e rinomanza particolari? In sostanza, come si può tutelare l’artista nella fase ‘nascente’? Si pensi a Banksy o a Jean Michel Basquiat o a Keith Haring, nel momento del loro esordio, quando il loro nome nulla poteva dire al grande pubblico, nonostante che già i loro primi graffiti potessero considerarsi espressivi di quanto poi avrebbe reso famoso ciascuno di loro.
E, in successione, viene da chiedersi se diverso debba essere il piano delle tutele possibili, una volta che un murale (o analoga opera decorativa) venga riconosciuto, vox populi, come opera artistica o, comunque, di interesse artistico o culturale. Può considerarsi sufficiente, a detti fini qualificatori, la forza dell’opinione pubblica (dei media) o è indispensabile attendere una previa certificazione di soggetti qualificati o autorità deputate? Quali interventi, d’altra parte, può legittimamente assumere a tutela dei propri interessi il proprietario dell’immobile, specie quando il murale veicoli un “messaggio” incompatibile con i propri gusti o le proprie idee? Può influire sulle risposte da dare agli interrogativi di cui sopra il fatto che la struttura materiale assunta a supporto dell’opera grafica o pittorica sia di proprietà pubblica, anziché di proprietà privata? Quali criteri utilizzare, comunque, per dirimere il conflitto tra prerogative proprietarie e prerogative dell’artista? In tale vicenda conflittuale è applicabile, e, se sì, a quali condizioni, la vigente normativa di tutela del diritto di autore? E ancora: può il murale di buona fattura accreditarsi, in un diverso contesto, come forma di intervento di riqualificazione urbana (sotto il profilo estetico), specie se apposto a manufatti abbandonati, in rovina o fatiscenti?
6. Perché problematiche del genere di quelle suaccennate possano essere correttamente inquadrate nella prospettiva del ‘diritto’, non si può prescindere, a ben considerare, da un ulteriore punto nodale. Precisamente, occorre tener conto del ruolo che, nell’ordinamento generale, ricopre la tutela della personalità e delle espressioni attraverso le quali quella si realizza: tutela della quale non vi è ragione perché l’artista ‘di strada’ debba esserne privato.
Rileva, dunque, per prima cosa, l’art. 21, comma 1, Cost., ai sensi del quale «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Tale diritto di libertà, che idealmente si raccorda al principio di tutela della personalità, consacrato negli artt. 2 e 3, comma 2 (non per nulla collocati, in apertura della Carta costituzionale, tra i «principi fondamentali»), non può non riferirsi anche a quelle «manifestazioni del pensiero», comunque riconoscibili nelle ‘opere di strada’.
Non appaiono esservi qualificate ragioni, inoltre, perché quelle manifestazioni della street art che abbiano raggiunto (nella considerazione generale, o, in ipotesi, per «certificazione») il livello di opere di rilevanza artistico– culturale debbano considerarsi escluse a priori dalla tutela di quella norma altrettanto fondamentale, l’art. 9, comma 2, Cost., che solennemente dichiara che «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione».
Da quegli stessi fondamentali principi, tuttavia – è bene sottolinearlo subito – si evincono, per contrapposto, limiti ben precisi anche per le espressioni figurative e grafiche che qui si considerano. Innanzitutto, la libertà di espressione trova un limite invalicabile nel divieto che riguarda in generale tutte le manifestazioni contrarie al buon costume. Lo stesso principio a termini del quale la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione è compito della Repubblica, inoltre, implicitamente esclude da ogni tutela (anzi, disconosce e persegue) quelle espressioni grafiche o pittoriche ‘di strada’, che, in ragione delle caratteristiche che presentano in concreto, risultino suscettibili di pregiudicare o sminuire (anziché valorizzare o accrescere) il valore di quel patrimonio.
Il complesso delle garanzie fondamentali astrattamente riferibili alla materia in esame, comunque, non necessariamente si esaurisce qui. È quanto agevolmente si riscontra non appena il focus venga spostato dall’opus direttamente sul relativo artefice.
Adottato tale diverso angolo visuale, invero, l’attenzione non può non essere attratta da quanto l’ordinamento giuridico predispone per l’ipotesi in cui si faccia questione della tutela di chi, avendo deciso di dedicarsi ad un’attività produttiva, necessariamente impegna, insieme alle proprie energie psichiche e fisiche, la sua stessa persona: la rete, cioè, delle misure predisposte a tutela del lavoro «in tutte le sue manifestazioni», come garantisce l’art. 35 Cost.
Tuttavia, non ci vuol molto per rendersi conto che il complesso delle tutele del lavoro non può che restare nettamente al margine dello specifico tema in esame.
Quelle tutele, infatti, mal si possono attagliare (per inidoneità, si potrebbe dire, dell’oggetto) al fenomeno artistico ‘di strada’, propriamente detto. Esse possono riguardare, piuttosto, i casi in cui l’artista abbia programmaticamente e professionalmente impresso finalità lucrative alla propria attività. Situazione, quest’ultima, che può configurarsi, in particolare, quando l’artista svolga la sua attività in adempimento di specifiche committenze, oppure realizzi le proprie opere in funzione della loro commercializzazione.
Nel primo dei suddetti casi, può assumersi che l’artista si presenti nella veste di un prestatore d’opera (la cui attività, dunque, trova riferimento negli artt. 2222 ss. c.c.).
Nel secondo caso, invece, nel rivolgersi direttamente al mercato, quella stessa attività appare destinata ad assumere una qualificazione giuridica diversa, a seconda di come l’artista abbia scelto di strutturare la propria attività. Egli, quindi, a seconda di come organizzato, potrà qualificarsi come imprenditore (ex art. 2083 c.c.) o, in alternativa, come libero professionista (ovviamente, di una categoria libero professionale non protetta, trattandosi di attività per l’esercizio della quale non è necessaria l’iscrizione ad albi od elenchi).
Siffatta casistica non si attaglia, come è evidente, all’essenza del fenomeno qui in esame.
E tanto meno ad essa si potrebbero attagliare situazioni in cui la realizzazione di murales o di decorazioni di singoli oggetti (serrande, stipiti, ingressi di stabilimenti, e così via) avvenga in esecuzione, o comunque nell’ambito, di un contratto di lavoro subordinato. In tal caso – fermo, naturalmente, l’inalienabile diritto al riconoscimento della paternità dell’opera – non potrebbe trovare applicazione altro che la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Salvo ipotizzare che, a determinate condizioni, in quello stesso ambito possa trovare applicazione (in via analogica) la disciplina delle «opere dell’ingegno» del lavoratore; e quanto potrebbe avvenire, ad esempio, quando la specifica attività pittorica o decorativa richiesta non faccia parte delle mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto, e, inoltre, a cose fatte, l’opera figurativa realizzata manifesti quel «carattere creativo», che comporta a favore dell’autore i diritti di cui agli artt. 2575 ss. c. c. e alle leggi speciali: con le implicazioni pratiche (che potrebbero essere anche di non indifferente rilievo), quando la inattesa «invenzione» si riveli, in ipotesi, fonte di inaspettati richiamo e ricadute economiche e di immagine per l’impresa datrice di lavoro.
Va, comunque, tenuto conto del fatto che, nonostante la sostanziale, inequivocabile estraneità delle situazioni appena considerate rispetto al fenomeno in esame, anche all’interno del contesto ‘proprio’ della street art sono riscontrabili non infrequenti situazioni che, nate in un certo modo, evolvendo finiscono per discostarsi dalle connotazioni tipiche, fino a dar vita a fattispecie diverse o, per così dire, ‘ibride’. Anche su queste può essere opportuno soffermarsi brevemente.
7. Individuati i punti cardinali del tema, si può passare a considerare quanto, in punto di diritto, può ritenersi riferibile a quei prodotti della street art che abbiano acquisito, per effetto del pubblico apprezzamento, quelle caratteristiche di rilevanza artistico culturale e, dunque, di valenza economica, che, a pieno titolo, le rendono giuridicamente rilevanti.
La rilevanza giuridica degli interessi economici, così, viene a fare da pendent alla rilevanza giuridica di quella stessa opera, in quanto espressione tutelata della personalità del relativo artefice.
Anche in tal caso può aiutare a meglio inquadrare lo specifico aspetto il riferimento ad un caso concreto: un caso che ha interessato quell’inglese di Bristol le cui generalità restano tuttora sconosciute, ma ormai a tutti noto con lo pseudonimo di Banksy, che attualmente risulta uno dei più famosi street artist e writer viventi.
Si tratta della vertenza della quale nel 2018 è stato investito il Tribunale di Milano, avente ad oggetto i diritti commerciali per lo sfruttamento delle opere per le quali detto artista, in epoca risalente, ha incaricato una determinata società inglese. Poiché in occasione di una mostra delle opere del predetto, svoltasi, appunto, a Milano, la società organizzatrice aveva commercializzato cataloghi, manifesti e altro materiale promozionale, riproducente le opere dell’artista o il nome «Banksy» (ormai equivalente ad un marchio), la società inglese, ritenendosi lesa nelle proprie prerogative, lo conveniva in giudizio davanti al suddetto Tribunale, al fine di ottenere tutela non solo per i diritti di carattere morale, ma anche per quelli di carattere patrimoniale (sia pure limitatamente ai diritti di marchio e concorrenziali).
In giudizio si è fatta questione, in sostanza, della normativa che nel nostro ordinamento di civil law, tutela il diritto d’autore nelle sue varie espressioni: in primis, i diritti che possono comportare vantaggi economici, e, cioè, i diritti di pubblicazione, riproduzione, trascrizione, rappresentazioni in pubblico, elaborazione e modificazioni dell’opera, noleggi e prestiti, merchandising, e così via.
Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 15 gennaio 2019, ha ritenuto che, nella specie, la riproduzione non autorizzata delle opere in catalogo, operata dalla società organizzatrice della mostra, non ha costituito concorrenza sleale, e che, d’altra parte, le prerogative commerciali della società inglese ricorrente non potevano considerarsi lese, in causa la stessa non avendo provato di aver ottenuto «alcun concorrente diritto di riproduzione delle medesime immagini che possa ritenersi effettivamente pregiudicato dall’attività della resistente».
Non è tanto il tenore della decisione, però, che qui deve interessare, quanto la definizione che il Tribunale ha ritenuto di poter dare al concetto di street art. A suo dire, questa si identificherebbe nell’essere «caratterizzata dalla realizzazione in luogo pubblico di un’opera che implicherebbe in sé, per un verso, la pubblica e libera esposizione della stessa in rinuncia delle prerogative proprie della tutela autoriale, e, sotto altro profilo, la natura effimera dell’opera stessa, in un contesto ideologico di diretta contestazione del diritto d’autore e dei circuiti commerciali propri di tale settore».
Quanto siffatta definizione possa, a buona ragione, risultare controvertibile lo si può riscontrare non appena la si confronti con gli svolgimenti di un’altra recentissima (e ancor più delicata) vicenda, sicuramente comparabile, anche se soggetta a ordinamento giuridico di common law: precisamente,la vicenda di una vecchia palazzina di un quartiere di New York, denominata «5 Pointz», che la proprietà, da epoca risalente, aveva messo integralmente a disposizione degli street artists.
Nel tempo le pareti di detto edificio erano divenute come una sorta di grande tela, un’opera d’arte ad accrescimento progressivo, un’autentica attrazione urbana, tanto che, per assicurare ad essa tutela e adeguata gestione, un noto writer di quella città, Jonathan Cohen (conosciuto con lo pseudonimo di Meres One), se ne è fatto curatore. Essendosi prospettata la possibilità di una prossima demolizione dell’edificio, gli artisti interessati, capitanati dal predetto, si sono subito rivolti alla giustizia, chiedendo l’applicazione, in via d’urgenza, della legge del 1990 che negli Stati Uniti disciplina la materia: il Visual artists right act.
Va detto subito che tale legge, per l’ipotesi di opere (murales o graffiti, appunto) incorporate in edifici, stabilisce che, se l’incorporazione è irreversibile, il proprietario dell’edificio può distruggere l’opera solo con il consenso dell’artista. Se, invece, l’opera può essere distaccata, prima della demolizione dell’edificio quel proprietario deve concedere all’artista un termine per la relativa rimozione a sue spese.
Poiché l’amministrazione di New York non ha concesso al manufatto, pur così “arricchito”, il riconoscimento di area di interesse culturale, il suddetto ricorso non ha avuto successo. Sono prevalsi, dunque, gli interessi del business immobiliare, tanto che le facciate ricoperte di graffiti e murales sono state imbiancate e, qualche mese dopo, l’edificio è stato abbattuto: con la ovvia, definitiva distruzione di tutte le opere pittoriche che su di esso erano presenti.
La vicenda, però, non si è fermata qui. Il gruppo di artisti (sempre capitanati da Cohen) non si è arreso, e – facendo valere il fatto che le opere in questione erano state realizzate nella piena consapevolezza del proprietario dell’edificio, e senza sua opposizione – ha promosso ricorso giudiziario per il risarcimento dei danni. E nel 2019 il relativo giudizio si è concluso questa volta a favore degli artisti: precisamente, con la condanna del proprietario della palazzina demolita al pagamento, a titolo di risarcimento, di quasi 7 milioni di dollari.
Resta comunque il fatto – ed è anche questo aspetto che merita di essere sottolineato – che l’esito di detto giudizio è stato sostanzialmente condizionato dalla certificazione della qualità artistica delle opere, richiesta in corso di causa alla Corte: certificazione rilasciata, ai sensi della legislazione americana (da noi, probabilmente, sarebbe stato necessario seguire una più complessa procedura), da una commissione di critici appositamente nominati.
8. A questo punto del discorso potrebbe dirsi raggiunto il nocciolo delle problematiche che investono quanto forma oggetto del tema in discussione.
In effetti, i casi ai quali da ultimo si è fatto cenno prospettano due questioni entrambe di carattere fondamentale, e solo apparentemente scollegate l’una dall’altra: la questione di come ottenere il riconoscimento che l’opera ha valore artistico-culturale, da un lato; la questione di come risolvere il conflitto tra il diritto di proprietà e il diritto di autore (per quanto rileva sia a fini morali, sia a fini meramente patrimoniali), dall’altro lato.
La prima questione condiziona, in qualche modo, la stessa possibilità di accesso alle tutele dell’ordinamento giuridico alle quali i prodotti della street art astrattamente potrebbero ambire. E, infatti (e lo si è già sottolineato), è la qualità artistico-culturale del singolo ‘prodotto’ (e, conseguentemente, il valore venale che, per l’effetto, lo stesso abbia in qualche modo acquisito nel mercato dell’arte) che concretamente rende quel prodotto ‘visibile’ all’ordinamento giuridico e, dunque, destinatario effettivo delle relative tutele. Al proposito, può considerarsi emblematica, nel nostro ordinamento, nell’ambito delle disposizioni che regolano le modalità di acquisto della proprietà a titolo originario, l’art. 939 c.c., il quale, per risolvere il contrasto tra le parti contendenti, assume come criterio dirimente, quello della prevalenza del valore economico proprio di ciascuno dei beni posti a raffronto.
Ma come ‘certificare’ l’arte? Nel nostro ordinamento tale compito compete, in via di principio, alle istituzioni della pubblica amministrazione preposte alla tutela del patrimonio paesaggistico, culturale e artistico nazionale. Ma non è certo questa, come già osservato, la via elettiva – già di per sé molto ‘laboriosa’ –, percorrendo la quale lo street artist possa immaginare (o avere interesse) di ottenere la tutela cui ambisca.
Per altro verso, a fronte della imprevedibile evoluzione dei modi di espressione dell’arte contemporanea, si avverte una certa inadeguatezza delle categorie giuridiche cui far riferimento: categorie calibrate, infatti, su un’arte fatta di quadri, statue, sculture, monumenti, ma non altrettanto idonee a fronteggiare le nuove, imprevedibili forme di espressione artistica, non sempre agevolmente riconoscibili come tali, o valutabili con immediatezza.
In sostanza, l’ordinamento giuridico, per sua natura, più che con l’‘arte’ in sé, ha dimestichezza con la valenza patrimoniale riconoscibile alle opere che legittimamente possano dirsene espressione. E le vie attraverso le quali lo street artist può far acquisire valore venale alla sua opera normalmente non passano per l’‘ufficialità’; esse passano, piuttosto, attraverso il gusto del pubblico: un ‘gusto’ che merita, dunque, di essere sapientemente alimentato e indirizzato dall’artista stesso (o da chi a tal fine lo coadiuvi) per mezzo delle più sottili, accattivanti tecniche promozionali e pubblicitarie.
Anche a tale proposito, può essere istruttivo richiamarsi, ancora una volta, a Banksy, riconosciuto maestro nella promozione delle proprie opere. Sarà difficile dimenticare, anche perché finita nei notiziari di tutto il mondo, la clamorosa autodistruzione del dipinto «Ragazza col palloncino», avvenuta nel 2018 durante un’asta, quando, tra lo sconcerto dei presenti, il dipinto, che risultava appena venduto per una cifra astronomica, ha cominciato a scivolare attraverso un meccanismo tritacarte controllato a distanza; e ancor più sorprendente e paradossale è il fatto che l’opera, così ‘trattata’, attualmente venga considerata (a quanto risulta) ancora più preziosa, proprio per effetto della ‘genialità’ di quel gesto.
Ecco: promozione del ‘valore’ dell’opera; genialità nella scelta delle tecniche pubblicitarie finalizzate a tale promozione. Più che arte, capacità promozionale di Banksy, come alcuni autorevoli critici, con una certa malizia, non si sono fatti scrupolo di sottolineare.
E, tuttavia, lasciando da parte le valutazioni dei critici, riterrei che meriti di essere sottolineato come, almeno in questo caso, l’espressione artistica, il murale, possa considerarsi, non tanto come il frutto di una scelta libertaria o contestata aria (quale, solitamente, è o viene vantata dagli stessi interessati), quanto come il frutto di un calcolo lungimirante, finalizzato a futuri sviluppi: tutti interni, però, inevitabilmente, alle logiche del mercato (dell’arte).
9. L’episodio appena ricordato ci consente di entrare nel vivo degli aspetti più sensibili e concreti del tema, e, quindi, nel vivo delle ragioni di più immediato interessamento del diritto e dei criteri del relativo intervento.
Le opere di street art hanno ormai acquisito – la circostanza è nota – un notevole valore nel mercato dell’arte; un valore notevolmente superiore, in genere, a quello che potrebbe ricavarsi da opere riprodotte in più copie. È anche per questo motivo che sono divenute frequenti le operazioni di distacco (ove possibile) dei murales dal relativo supporto.
E, tuttavia, come il supporto può non essere di proprietà dell’artista (e, normalmente, infatti, non lo è), così non è detto che il proprietario del supporto possa incondizionatamente disporre dell’opera figurativa del predetto, e, quindi, procedere, se del caso, al suo distacco.
Ecco, allora, una prima serie di problemi giuridici di contenuto essenzialmente patrimoniale, che idealmente richiamano il ‘caso’ che ha offerto lo spunto per avviare le presenti riflessioni.
Peraltro, la ‘regola’ sulla base della quale quel risalente ‘caso’ è stato risolto – la «prevalenza» competere al bene ‘principale’, e come tale qualificando quello di maggior valore economico –, se riferita ai murales ha implicazioni fattuali diverse. Infatti, non si tratta più di «materia» apposta a bene mobile (rispettivamente, pictura e tabula, come già in quel caso), ma del rapporto tra la pictura e un bene ‘di per sé’ prevalente (o, comunque, convenzionalmente considerato tale dal legislatore), quale è l’immobile, edificio o fondo prediale che sia; che è, poi, lo stesso criterio che, nel nostro ordinamento, ispira la disciplina configurata dagli artt. 934-947 c.c.
E, tuttavia, può ragionevolmente l’opera d’arte (o l’opera di valore artistico-culturale) essere valutata come mera ‘materia’? Essere valutata, cioè, quasi che ad aver rilevanza possano essere soltanto le sostanze coloranti con le quali quell’opera pittorica è stata composta (per tornare ancora una volta al caso prospettato dal giureconsulto dell’antica Roma), sicché al proprietario dell’edificio, cui quell’opera acceda, possa indiscriminatamente riconoscersi la facoltà di disporre liberamente e incondizionatamente di essa.
Domande che è pienamente giustificato porsi, atteso che detto proprietario potrebbe aver interesse anche alla distruzione dell’opera pittorica così acquisita, ove da lui non gradita: il che potrebbe avvenire, in via generale, per ragioni di gusto, ma, se del caso – e la questione a questo punto diverrebbe ancor più seria –, per incompatibilità ideologica con il ‘messaggio’ dalla stessa (in ipotesi) veicolato. Viceversa, ove intendesse valorizzarla, quel proprietario potrebbe avere interesse ad impedire la realizzazione di copie dell’opera da parte del suo stesso autore (ma, eventualmente, anche di altri), o a regolarne a suo favore la concreta fruibilità. Così come potrebbe capitalizzare il valore del murale, staccandolo, appunto, dalla parete dell’edificio che gli appartiene, per poi immetterlo nel mercato dell’arte; oppure, a fini di conservazione del ‘bene’, procedere, autonomamente e a propria discrezione, a modificazioni o, quanto meno, a forme di restauro dell’opera stessa, nel caso di incipiente o intervenuto suo deterioramento.
Bastino questi pochi accenni per evidenziare come la materia sia fertile terreno di confronto – o, meglio e più realisticamente, di scontro – tra il diritto di proprietà e il diritto di autore. Un contrasto di interessi che già a prima vista si rivela di non agevole composizione.
Come è noto, il diritto di autore nel nostro ordinamento è regolato da una legge risalente ad epoca in cui murales, graffiti e cose del genere non erano ancora ‘di moda’: la legge n. 633 del 1941, espressamente destinata a proteggere «Le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione» (art. 1).
Ed è proprio quest’ultima proposizione – «qualunque ne sia il modo o la forma di espressione» (cristallizzata anche nell’art. 2575 c.c.) – che conforta nel ritenere che anche le «opere di strada» possano ambire alla tutela offerta da detta legge.
Non è nelle finalità della presente analisi insistere nei dettagli o effettuare quegli approfondimenti che sarebbero indispensabili, se l’obiettivo fosse, viceversa, quello di indagare in merito alla corretta soluzione delle questioni già indicate (così come delle ulteriori che da quelle potrebbero essere enucleate).
Tanto doverosamente puntualizzato, sarebbe ingiusto, tuttavia, non dar conto almeno del fatto che sono proprio alcuni tra i più caratteristici tratti della produzione artistica in questione a rappresentare altrettanti potenziali ostacoli ad una lineare applicazione della legge appena ricordata: tra questi, in primis, proprio modalità e circostanze di confezione del murale e correlati criteri di gestione.
In effetti, la scelta di utilizzare arbitrariamente, per la realizzazione dell’opera (al di fuori di qualsiasi previo accordo in merito), supporto materiale di proprietà altrui, e il fatto che a quella scelta normalmente si accompagna la circostanza che, non appena ultimata, quell’opera viene di fatto abbandonata alla libera fruizione del pubblico, rappresentano circostanze che inducono alcuni (e, tra questi, come si è potuto constatare, il Tribunale di Milano) a ritenere che il murale costituisca un prodotto effimero, e, comunque, intenzionalmente destinato a divenire di pubblico dominio. Circostanze concordanti, che, in sostanza, possono dare valido alimento – lo si deve riconoscere – alla tesi secondo la quale l’opera rappresenterebbe una sorta di res derelicta, a disposizione di chiunque, un’opera che sconta a priori il rischio di venire distrutta in qualsiasi momento, senza alcuna possibilità di reazione da parte dell’autore.
Per altro verso, però, non può sfuggire come vi siano circostanze o aspetti della complessiva situazione, che – come altri fanno notare, fermamente contrapponendosi ai sostenitori di detta tesi – amplificano e rafforzano, innanzitutto, l’ambito in cui il diritto di autore può aver motivo di essere invocato, e, in tale ambito, esprimere potenzialità anche inedite.
Invero, quasi sempre l’opera di strada è programmaticamente collegata ad uno spazio, a un luogo, a un supporto specifici, intenzionalmente scelti dall’artista per dare all’opera stessa un significato preciso: magari, legato a particolari vicende del momento storico o che in epoca risalente hanno in qualche modo caratterizzato e reso ‘riconoscibile’ quel luogo, e, dunque, anche con possibili implicazioni di valenza ‘politica’. Quel che conta, comunque, è il fatto che quella scelta, tutta interna alla logica dell’artista, viene a far parte integrante dell’atto creativo, del quale specifica o esalta il ‘messaggio’. Il che ovviamente significa che anche tale aspetto reclama, per coerenza, la protezione garantita dalla legge sul diritto d’autore.
A questo punto, volendo porre la suddetta situazione a confronto con il diritto di proprietà (sull’edificio interessato), va innanzitutto considerato che proprio il ‘messaggio’ veicolato dal murale può maggiormente giustificare la reazione del proprietario, il quale non si riconosca in quel messaggio, ma anzi da esso voglia espressamente prendere le distanze. D’altra parte, però, la eventuale iniziativa del predetto diretta al distacco del murale dal suo supporto al fine di una sua diversa collocazione e destinazione, proprio per le ragioni già esposte non potrebbe essere apprezzata che come violazione del diritto di autore: con tutti i conseguenti effetti del caso non solo di carattere patrimoniale, ma anche di carattere morale, considerata la lesione di un aspetto rilevante della scelta creativa dell’artista.
Alla luce di tali considerazioni si possono meglio comprendere quegli episodi, non infrequenti, in cui l’artista, pur di impedire che la sua opera, previo distacco, possa essere destinata a diversa – da lui non gradita – utilizzazione, preferisce distruggerla o renderla inutilizzabile, magari passandoci sopra della vernice. È proprio questo che, ad esempio, è concretamente avvenuto qualche anno fa a Bologna ad opera di un noto street artist di quella città, denominato Blu. Un comportamento ‘distruttivo’, dunque, da considerare anch’esso legittima espressione del diritto di autore.
Per altro verso, va preso atto che l’affidamento dell’opera alla pubblica, libera fruizione, da un lato, e, dall’altro lato, l’utilizzo indebito (perché non autorizzato) del supporto sono circostanze che, a ben vedere, non implicano necessariamente la rinuncia dell’artista a sfruttare economicamente la propria opera.
E, in effetti, se si condivide la tesi che esclude che la realizzazione in un luogo pubblico e su supporto altrui debba necessariamente rappresentare circostanza significativa di abbandono o dismissione dell’opera finita, si deve anche ammettere che l’artista, nel mantenere il diritto ad esserne riconosciuto l’autore, non possa non mantenere anche il ruolo decisionale sulla relativa gestione: dunque, anche sul suo utilizzo economico. In fondo, è lo stesso affidamento alla pubblica fruizione a essere anch’esso manifestazione di una ben precisa ‘scelta’ dell’autore; e, come la paternità di quella scelta, e non di un’altra, non può non essere rispettata e tutelata ai sensi della legge sul diritto di autore, così è da ritenere che, per lo stesso motivo, abbia titolo ad essere rispettata anche la suddetta, successiva manifestazione di volontà.
C’è da aggiungere, ancora, per meglio precisare il quadro, che non infrequente è il caso in cui, nel programma che l’artista si è fatto, il murale non sia altro che un ‘passaggio intermedio’ (per quanto importante), l’obbiettivo finale essendo la riproduzione fotografica o filmica dell’opera figurativa realizzata: l’unica destinata a restare, tale riproduzione, e, quindi l’unica idonea a testimoniare nel tempo la creatività dell’artista (quale che sia la successiva sorte del murale stesso). È un po’ quello che perseguono i performers della body art, o ciò che avviene – per richiamarsi a vicende di grande notorietà – per effetto dei clamorosi, vistosi ed effimeri interventi su monumenti o località paesaggistiche di particolare richiamo, ad opera dei coniugi Christo, oggi forse i più noti esponenti della land art.
Tornando alla legge sul diritto di autore, va sottolineato come sia espressamente stabilito (art. 109) che neppure la cessione di esemplari dell’opera comporta, salvo patto contrario, la cessione dei relativi diritti di utilizzazione economica; così come sia espressamente attribuito all’autore (combinato degli artt. 12 e 13) il diritto esclusivo di riproduzione dell’opera. E poter «riprodurre» concettualmente significa anche poter sfruttare economicamente l’opera; e, anzi (come si è già accennato), i murales e i graffiti, almeno per un certo periodo della vita dell’artista, possono essere concepiti e funzionare da occasione di promozione e pubblicità; quando addirittura non rappresentino (e lo si è appena considerato) una «fase» o «passaggio» rispetto all’obiettivo finale, rappresentato dalla riproduzione su pellicola o altro supporto: riproduzione destinata a restare, dunque, l’unica testimonianza finale e duratura della creatività e della produzione dell’artista.
In definitiva, una volta che l’artista abbia portato a termine il suo disegno, anche attraverso la suddetta ‘documentazione’, o abbia comunque raggiunto (per effetto di tale tramite, o di altro) il giusto livello di notorietà, sono le copie o le opere nuove, anche di tipo tradizionale (cioè, su supporto trasportabile, di proprietà dell’artista) quelle che acquistano rilevanza ai fini dello sfruttamento economico delle personali capacità e qualità creative (e imprenditoriali).
È bene precisare, a questo punto, che per l’artista il murale può anche essere ab origine un genere di espressione artistica tra i tanti possibili o, comunque, da lui praticati, e, dunque, essere inteso e gestito alla stessa stregua di qualsiasi altra opera ‘tradizionale’: rispetto alla quale, in sostanza, egli possa presentarsi (come già accennato), a seconda dei casi, in veste di prestatore d’opera, di imprenditore o di libero professionista.
Al proposito, a titolo di esempio può essere ricordato, tra gli artisti contemporanei più significativi, Jean Michel Folon, i cui murales, frutto di specifiche committenze ottenute proprio in quanto artista già affermato, figurano nelle principali città di mezza Europa. E, volendo far riferimento al Nuovo Mondo, potrebbe essere ricordata la grande triade dei muralistas messicani, Orozco, Rivera e Siqueiros (seppure artisti operanti su uno specifico e caratterizzato fronte di un ben preciso impegno politico).
È chiaro che in siffatti casi, pur trattandosi sostanzialmente della medesima tipologia di espressione artistica, il murale non ha nulla a che vedere con il fenomeno che qui si considera, e, dunque, neppure con la specifica problematica giuridica che qui si considera. E altrettanto si potrebbe dire, poi, mettendosi dal lato del «committente» (generalmente, un’autorità statale), dei tanti casi, vecchi e nuovi, nei quali i murales risultino programmati per fini ‘di regime’ o, più in generale, di propaganda.
10. È tenendo conto dei parametri ai quali si è fatto sin qui riferimento – per tirare le fila del discorso – che vanno affrontate le questioni sulle quali più frequentemente si determina un aperto conflitto tra diritto d’autore e diritto proprietario. Vediamone velocemente alcune.
Il distacco del murale dal suo supporto (cioè, la sua ‘decontestualizzazione’) implica, materialmente e concettualmente, una modificazione dell’opera. Il che fa di questa un’‘opera riprodotta’; in sostanza, un’opera ‘nuova’.
Come già accennato, ciò significa che, se tale operazione viene assunta dal proprietario dell’edificio al quale l’opera accede, senza il previo consenso dell’artefice di essa, si determina una patente violazione del diritto esclusivo di quest’ultimo. E nell’esposizione non autorizzata dell’opera in musei o gallerie d’arte, che eventualmente venga fatta seguire a quell’operazione di distacco, è ravvisabile una violazione aggiuntiva rispetto alla lesione del diritto allo sfruttamento economico dell’opera; trattandosi di iniziativa che si pone in contrasto con una ben precisa ed inequivocabile manifestazione di volontà dell’artista (non rileva se frutto, o meno, di opzione di tipo ideologico), quale è quella di rifiutare intermediari tradizionali, a favore della pubblica e libera fruizione dell’opera stessa, può ritenersi configurabile anche una ipotesi di lesione dell’onore e della reputazione dell’artista stesso.
Anche a tal proposito soccorrono i dettami della legge sul diritto d’autore, là dove questa statuisce (art. 20) che «Indipendentemente dal diritto di esclusiva utilizzazione economica dell’opera (…), ed anche dopo la cessione dei diritti stessi, l’autore conserva il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione, e ad ogni atto a danno dell’opera stessa che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione».
Il medesimo principio può considerarsi applicabile anche al caso in cui l’immobile benefici, all’atto della vendita, di un incremento di valore proprio in virtù del ‘bene’ di valenza artistica o culturale in esso incorporato. E poiché si tratta di situazione che implica gli stessi effetti dello sfruttamento economico, ne consegue, in via di principio, il diritto dell’artista a vedersi riconosciuto dal proprietario alienante un adeguato compenso (il cosiddetto «diritto di seguito», come questo viene comunemente denominato).
Questioni del tutto particolari solleva, invece, la materiale distruzione dell’opera, tanto se determinata dall’abbattimento dell’edificio che la incorpora, quanto se dovuta ad una specifica iniziativa del proprietario che non gradisca l’opera stessa: un non gradimento tanto più marcato e (in via di principio) giustificabile e meritevole di considerazione, quando ricorra l’esigenza di evitare che il messaggio, non condiviso, veicolato dal murale possa tradursi in una pregiudizievole ‘stigmatizzazione’ dell’edificio interessato, e, per traslato, del relativo proprietario.
Chi sostiene la tesi che, trattandosi di opera di natura effimera, la relativa distruzione non configura lesione del diritto di autore, fa notare come la «distruzione» sia cosa diversa da quella «deformazione, mutilazione od altra modificazione», che, ai sensi del succitato art. 20 della legge sul diritto d’autore, incorre nello specifico divieto. Altri, però, sostengono la tesi opposta. Un contrasto netto di opinioni, dunque, obiettivamente non facile da dirimere.
Il fatto è che non esiste nel nostro ordinamento una regolamentazione come quella statunitense, la quale, nel farsi carico di disciplinare il caso in cui si prospetti la possibile distruzione del murale, stabilisce regole dirette a creare un «contatto» tra proprietario e autore: a creare, cioè, l’occasione perché si instauri un «rapporto» tra le parti, funzionale al conseguimento di una soluzione concordata, caratterizzata da un ragionevole contemperamento dei rispettivi, contrapposti interessi.
Da noi, invece, le condizioni per una analoga soluzione della specifica questione appaiono tutte ancora da costruire.
A dire il vero, trattandosi di «opera fatta da un terzo con suoi materiali», teoricamente alla fattispecie dovrebbe applicarsi, stando alla lettera, l’art. 936 c.c. Non può sfuggire, però, il carattere fortemente insoddisfacente di tale soluzione, stante la sua radicale incongruenza con la situazione che qui si considera: la pretesa di applicare ad un’opera di valenza artistica o culturale una disciplina palesemente dettata per regolare unicamente una situazione di tutto altro genere e natura, perché prettamente ‘materialistica’, quale è quella che attiene alla sorte di piantagioni o di costruzioni indebitamente effettuate da terzo su fondo prediale altrui.
È singolare che proprio nel nostro ordinamento di fatto permanga tale lacuna. In fondo, i giureconsulti dell’antica Roma avevano già trovato il modo per ottenere un ragionevole ‘bilanciamento’ tra le prerogative dell’artista e le prerogative proprietarie.
Tanto è attestato – oltre che dal caso ricordato in apertura della presente esposizione – da ciò che, al medesimo proposito (e con pari risultato), ha stabilito, ben quattrocento anni dopo, l’imperatore d’Oriente, Giustiniano, al quale si deve (con l’apporto dell’insigne giureconsulto Triboniano) quella monumentale opera di sistemazione legislativa, nota con il nome di Corpus iuris civilis, che ha avuto il pregio di rappresentare «la trama e l’ordito» – per usare l’espressione utilizzata al proposito da Riccardo Orestano(nella sua famosa Introduzione allo studio del diritto romano[4]) – dei sistemi giuridici continentali fin quasi alle soglie del diciannovesimo secolo.
Come attestano le relative Istitutiones (per specifica volontà imperiale aventi anche esse forza di legge), ha trovato conferma la soluzione elaborata già nel secondo secolo: rispetto al diritto del proprietario del supporto arbitrariamente utilizzato da terzo per la sua opera pittorica, viene considerato «prevalente» l’interesse dell’artefice dell’opera stessa; e tale attributo (la prevalenza) viene riconosciuto in ragione del «valore» riconoscibile a quest’ultima.
Un riconoscimento all’impegno di energie fisiche e creative profuse dall’artista, e al loro pregio, sicuramente: e, in effetti, sembra che nella specie, l’opera figurativa fosse di particolare pregio artistico. Ma, forse, anche la manifestazione di una embrionale, vaga intuizione: e, cioè, che situazioni del genere non investono soltanto rapporti di ‘dare e avere’, ma qualcosa di diverso, che attiene all’‘essere’ stesso dell’artefice dell’opus. Forse una prima, seppur non espressamente dichiarata, presa d’atto del ‘valore’ che distingue e antepone, rispetto ad altri beni, la dignità del lavoro e della creatività che tramite esso si esprime.
11. Quanto sin qui esposto dovrebbe risultare sufficiente (nonostante le evidenti semplificazioni e le scontate omissioni) a dar conto di come il rapporto tra street art e diritto attualmente presenti casistica e problematicità assai più articolate e interessanti di quanto non potrebbe apparire ad un primo sguardo.
Fonte concorrente di questioni problematiche può considerarsi (come accennato) già la stessa strumentazione giuridica disponibile, non sempre adeguata a governare le ‘specificità’ che caratterizzano la effervescente materia.
La mutevolezza del contesto, d’altra parte, così come dell’approccio degli artisti nei confronti della stessa scelta di dar forma alla propria creatività attraverso una ‘opera di strada’, aggiunge una sua quota di problematicità al contesto. E, in effetti, come si è cercato di evidenziare, la stessa ‘cifra’ del murale non sempre risulta essere la contestazione ‘libertaria’ delle regole: in alcuni casi quella stessa tipologia di espressione artistica risulta pienamente e volutamente conformata alle regole correnti; in altri casi ancora la ‘contestazione’, alla verifica dei fatti, si rivela ‘temporanea’ o, addirittura, ‘strumentale’, come avviene tutte le volte in cui l’opera di strada viene concepita dall’artista più come un temporaneo espediente o un tramite per acquisire notorietà e pregio sul mercato, che non reale espressione ‘ideologica’ di vera e propria ribellione o contestazione.
Si tratta di ‘sfaccettature’ che, come è evidente, non possono non avere ricadute sul piano della relativa regolamentazione giuridica.
Per altro verso, il processo evolutivo delle modalità espressive dell’arte contemporanea sforna, pressoché a getto continuo, forme nuove (dall’‘arte concettuale’ all’‘arte ibrida’, all’‘arte effimera’, e tanto altro ancora): il che fa sì che non manchino le occasioni per l’esibizione delle più eterogenee, fantasmagoriche creazioni. E poiché tutte dette forme espressive, nella sostanza, ambiscono al rango di ‘opera d’arte’, trova conferma la pregnanza della problematica relativa alla “certificazione” di natura e qualità artistica dell’opera (‘di strada’ e non), alla quale si è già accennato.
Negli Stati Uniti la legge più volte menzionata distingue gli «atti vandalici» dalle «opere tutelate» (o recognized stature), le quali, per il fatto di essere rispettose di standard prefissati, vengono riconosciute meritevoli di tutela. Nel nostro ordinamento soltanto la Sopraintendenza, previa dichiarazione di interesse artistico-culturale dell’opera, potrebbe intervenire per certificare il valore dell’opera stessa; ma allo stato la situazione può essere definita, per quanto riguarda il presente tema, ancora incerta e ‘fluida’.
La versatilità della street art (presupposto, come è scontato, per approcci con la realtà giuridica che non possono non differire, almeno in parte, da quelli fin qui considerati) si rivela con nettezza in alcune situazioni ulteriori rispetto a quelle fin qui considerate. E anche ad alcune di queste, in chiusura delle presenti note, appare opportuno accennare brevemente.
Nella prassi più recente, invero, è dato riscontrare presso le pubbliche amministrazioni – ma anche alcune imprese – una particolare, sempre meno inconsueta attenzione nei confronti delle ‘opere di strada’: al punto che varie sono ormai quelle che hanno già impostato programmi di promozione e valorizzazione della particolare modalità di espressione figurativa.
E tale orientamento ‘di favore’ non si ferma qui. In non poche situazioni la street art viene presa in considerazione anche a fini operativi negli ambiti della gestione della cosa pubblica. Sempre più frequenti, infatti, sono i casi, in cui le amministrazioni delle città di maggiori dimensioni si orientano per l’inserimento delle ‘opere di strada’ (prevalentemente proprio i murales) tra gli strumenti destinati al recupero, anche estetico, di aree urbane, più o meno periferiche e degradate, ma anche per ‘valorizzare’ alcuni punti nevralgici (come, ad esempio, i sottopassaggi pedonali) dell’ambito urbano.
E la ‘metamorfosi’ non si arresta a questo stadio. Invero, non sono pochi ormai i casi in cui il murale (ammesso che sia corretto continuare ad usare detto termine anche a tale proposito) programmaticamente fa parte delle componenti “strutturali” di edifici di architettura postmoderna:dove il colore, le particolarità e originalità decorative, le profondità e l’illusione ottica proprie dell’ornato pittorico, rappresentato dal murale, sempre più spesso assumono carattere essenziale all’interno della complessiva opera architettonica, di questo, dunque, venendo a far parte integrante.
Per quanto non sempre facile da decifrare e sondare, tale articolata, evolutiva realtà lascia comunque trasparire, nel suo complesso, quanto risulti vivace il processo di cambiamento di gusti e orientamenti estetici all’interno di una società, a sua volta, in forte mutamento.
In tale realtà può cogliersi, tuttavia, come mi sembra, anche altro. E, cioè, una inequivoca presa d’atto, attraverso comportamenti concludenti, che l’opera d’arte (o, comunque, di valenza culturale) è, in sé, un’opera ‘aperta’: tale nelle mutevoli potenzialità di fruizione estetico-culturale, sia individuale che collettiva, come è scontato; ma tale anche, più semplicemente, nelle potenzialità di impiego pratico o di pubblico interesse. Con quanto inevitabilmente ne può conseguire – nella prospettiva che la presente analisi ha inteso privilegiare – in termini di esigenze di correlata, idonea modulazione della relativa regolamentazione giuridica[5].
[1] Così, infatti, S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, 1981.
[2] B. Edelman, Addio alle arti. 1926: l’“affaire” Brancusi, Bologna, 2001
[3] A. Schwartzman, Street art, Dial press, New York, 1985.
[4] R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, 1987, 458.
[5] Riferimenti in L’arte e la dimensione giuridica, a cura di O. Roselli, Bologna, 2020.