Profili giuridici della contraffazione di opere artistiche

Giulia Ferraro

Specializzanda – Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali delle Università di Macerata e Camerino

Il presente contributo, ripercorrendo la disciplina dei delitti di falso contenuta nel codice penale, analizza specificatamente la contraffazione di opere d’arte a cui segue l’applicazione della confisca speciale prevista all’art. 178 del codice dei beni culturali, alla luce dei correttivi giurisprudenziali intervenuti in materia. Il fenomeno della circolazione dei falsi d’arte viene poi esaminato in rapporto alla regola del “possesso vale titolo”, interrogandosi sui risvolti di una applicazione estensiva del dogma su tutti i beni, inclusi i beni di interesse artistico-culturale.

This paper, by reviewing the regulations on forgery contained in the penal code, specifically analyzes the counterfeiting of works of art which is followed by the application of the special confiscation provided for in article 178 of the code of cultural assets, in the light of the corrective jurisprudence on the subject. The phenomenon of the circulation of art forgeries is then examined in relation to the rule of “possesso vale titolo”, questioning the implications of an extensive application of the dogma on all goods, including goods of artistic and cultural interest.

Sommario: 1. Premessa. – 2. La contraffazione nel Codice penale e nel Codice dei beni culturali. – 3. La confisca ex art. 178 Codice dei beni culturali ed ex art. 240 Codice penale. – 4. La giurisprudenza in tema di confisca ex art. 178 D.lgs. 42/2004 e ex art. 240 c.p. – 5. Acquisti a non domino e beni di provenienza illecita. – 6. Conclusioni.

1. Con il presente contributo si intende analizzare la disciplina relativa alla contraffazione delle opere artistiche, considerato che la pratica della falsificazione, assume sembianze sempre più eclettiche e gravose.

Al pari di quanto accaduto nella maggior parte dei Paesi europei, anche l’Italia, depositaria di un patrimonio senza eguali, ha risposto al fenomeno del “falso d’arte” dotandosi di plurimi strumenti sanzionatori (di natura amministrativa e penale previsti agli artt. 160-181), unitariamente inseriti all’interno del Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42). Tale normativa, infatti, oltre a rappresentare un unicum legislativo senza precedenti del nostro sistema ordinamentale, rappresenta la materializzazione del binomio “protezione-promozione”, in conformità con quanto siglato dalle Convenzioni internazionali[1] e l’essenza più nobile del principio costituzionale racchiuso nell’articolo 9 della Carta fondamentale.

In tema, rilievo centrale assume la confisca, quale istituto tra i più controversi della disciplina penale di parte generale. Nello specifico, si pone l’attenzione sul carattere sanzionatorio attuale, per estendere l’esame ai correttivi giurisprudenziali intervenuti di recente[2] per mitigare l’inclinazione afflittiva che connota la confisca.

In tema di contraffazione, ulteriore rilievo assume la disciplina dell’acquisto a non domino ex art. 1153 c.c. avente ad oggetto beni artistico-culturali lato sensu considerati. Le perplessità inerenti la tematica in oggetto, vengono affrontate comparando la tutela di cui beneficia il possessore in buona fede nel nostro ordinamento, rispetto a quanto previsto negli altri sistemi giuridici internazionali, in cui si esclude la configurabilità di acquisti a titolo originario per riconoscere, provata la buona fede e restituito il bene, solo il diritto ad essere equamente indennizzati

2. Il Titolo VII del Libro II del Codice penale tratta Dei delitti contro la fede pubblica disponendo al suo interno di quattro distinti Capi che, partitamente, interessano: 1) la falsità in moneta, carte di pubblico credito e valori di bollo (artt. 453 – 466-bis); 2) la falsità in sigilli o strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento (artt. 467 – 475); 3) la falsità in atti (artt. 476 – 493-bis); 4)la falsità personale (artt. 494 – 498).

Ictu oculi non può che apparire manifesta l’eterogenia degli oggetti che tipizzano i singoli precetti penali.

Difatti, mentre i primi Capi trattano di entità materiali verosimilmente appartenenti ad un unico genus, il IV Capo, di contro, sembra addirittura prescindere dalla definizione di elementi oggettivi caratterizzanti il fatto tipico, sostanziandosi in false dichiarazioni (per natura astratte) sull’identità e/o qualità personali del soggetto agente idonee ad indurre in errore l’Autorità o la collettività[3].

Tuttavia, è possibile individuare il comune denominatore tra le plurime fattispecie che interessano in reato in esame, con il bene giuridico dalle stesse tutelato: la fede pubblica.

Tale bene, riferito originariamente solo al modello delle falsità documentali, nel tempo, ha assunto un significato più ampio, definibile quale «fiducia del pubblico in determinati oggetti o simboli, sulla cui genuinità o autenticità deve potersi fare assegnamento»[4] al fine di rendere certo e sollecito lo svolgimento dei traffici giuridico-economici.

Dunque, è possibile affermare che la condotta di chi falsifica attenta alla lesione di un bene giuridico collettivo, non solo individuale, che si sostanzia nel corretto significato che viene attribuito a specifici beni, valori o simboli[5]

In sostanza, ciò che acquista rilievo penale, data la pacifica esclusione della punibilità delle condotte sì false ma inoffensive[6] rispetto all’interesse tutelato, è «la falsa rappresentazione della realtà veicolata attraverso quegli strumenti posti a tutela dell’affidamento della comunità sul regolare svolgimento dei rapporti giuridici»[7].

La prova del binomio fede pubblica-traffici giuridici trova conferma, come premesso, nella Relazione ministeriale di accompagnamento al progetto definitivo del Codice penale, in cui la fede pubblica è definita quale «fiducia che la società ripone negli oggetti, segni, forme esteriori (monete, emblemi, documenti), ai quali l’ordinamento giuridico attribuisce un valore importante»[8]. Ne deriva che l’elemento che accomuna le diverse manifestazioni di falso, secondo il legislatore, è rappresentato dalla propensione a ledere il medesimo bene giuridico ovvero quell’affidamento che i consociati ripongono in specifici oggetti e simboli, sulla cui autenticità non dovrebbe contrapporsi eccezione alcuna, considerate le necessarie istanze di certezza e stabilità dei traffici giuridici[9]. Risulta evidente, dunque, che l’innovata interpretazione consente di estendere la tutela della fede pubblica oltre il perimetro della falsità documentale, la quale, per diverso tempo, ha contrassegnato il settore dei delitti in esame.

Per comprendere tutto ciò che ruota attorno al tema della contraffazione, inoltre, è necessario muovere da un assunto: «la falsità non è mai fine a se stessa»[10].

Invero, partendo dalla mera ricostruzione etimologica del verbo fallare (ingannare) si evince che si tratta di un predicato strumentale e, come tale, funzionale al perseguimento di un risultato diverso ed ulteriore alla falsificazione in sé.

I delitti di falso, infatti, vengono tradizionalmente ascritti alla categoria dei reati plurioffensivi sulla scorta del contributo interpretativo di Antolisei. In particolare, secondo l’autore, alla lesione di un bene giuridico cd. fisso, la fede pubblica (intesa quale fiducia e sicurezza del traffico giuridico), si sommerebbe un ulteriore danno cd. variabile, consistente nell’interesse che trova specifica tutela all’interno di ogni singola fattispecie incriminatrice[11]. Così, se la tutela del falso è volta a proteggere l’affidabilità e la celerità dei rapporti giuridici, trovano spiegazione le istanze sottese all’estensione dell’intervento penale nelle fasi prodromiche al perfezionamento dei reati in oggetto[12]; portandosi dietro, però, tutte le criticità che connotano le eccessive anticipazioni di tutela penale dei reati di pericolo.

Ciò posto, è doveroso precisare che le ostilità che si incontrano nello studio dei falsi non sono circoscritte all’individuazione esatta del bene giuridico protetto o all’incertezza dei confini tra i fatti meritevoli di pena e non, sommandosi a queste anche la vexata quaestio dell’eccessiva parcellizzazione della fattispecie presente nel codice.

Difatti, malgrado il Carrara avesse già posto in guardia contro i pericoli che si celano dietro ad un ricorso eccessivo alla disciplina penale[13], il codice, in materia di falso, appare di contro sovraccaricato da una serie di distinzioni, sottocategorie e varianti che lo rendono rigido e incapace di rispondere alle sollecitazioni di protezione contemporanee.

La tendenza alla moltiplicazione smodata delle fattispecie, infatti, se per un verso ha tentato di reprimere ogni possibile forma di falsità in atti , per altro verso non è stata in grado di soddisfare le nuove esigenze di tutela reclamate dall’incalzante sviluppo tecnologico e culturale della società attuale.

In particolare, alla frammentazione delle fattispecie criminose declinate minuziosamente all’interno del codice (si ripete riferite per lo più alle falsità documentali), ha fatto da contro altare l’emersione di nuove forme di falso la cui repressione ha tardato a realizzarsi[14]. Ne è una prova il fatto che, dall’entrata in vigore del codice penale del 1930 alla costituzione in essere della prima disciplina rivolta alla contraffazione di opere d’interesse artistico avvenuta nel 1971, siano passati più di quattro decenni[15].

Com’è noto, all’interno dei primi dodici articoli della Costituzione italiana sono racchiusi i “principi fondamentali”, in quanto tali immodificabili anche attraverso il procedimento di revisione costituzionale, la cui collocazione (affatto casuale) risponde al preciso intento dei Costituenti di evidenziarne la focale rilevanza. Nel novero dei suddetti principi figura l’articolo 9 che recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»[16].

Nonostante la chiarezza del dettato costituzionale, però, le lacune normative in materia di repressione di falsi d’arte fecero da sfondo alla consumazione di “casi di falso” che passarono alla storia[17].

È in questo clima di necessitata tutela, dunque, che viene promulgata la legge 20 novembre 1971, n. 1062, rubricata Norme penali sulla contraffazione od alterazione di opere d’arte preceduta, non a caso, dall’istituzione dell’UNESCO il 4 novembre 1945 a Parigi; Organizzazione, quest’ultima, nata dall’esigenza di promuovere la protezione e la salvaguardia di siti ed opere di eccezionale valore, iscritti nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Ulteriore intervento in materia si è avuto, poi, con l’emanazione del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, nel cui articolo 127 Contraffazione di opere d’arte con un’attenta opera di abrogatio sine abolitio, vengono integralmente riportati gli articoli 3, 4, 5, 6 e 7 della precedente legge n. 1062/1971. Il Testo unico, infatti, ha avuto il merito di riordinare la precedente disomogenea normativa avente ad oggetto la tutela del patrimonio, ampliandone notevolmente l’ambito di applicazione.

Da ultimo, l’attuale assetto normativo è rappresentato dal «Codice dei beni culturali e del paesaggio», adottato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, a cui viene riconosciuto il pregio d’aver tracciato un quadro organico della materia e nel quale le istanze di valorizzazione e tutela paiono aver raggiunto la simbiosi da tempo auspicata.

Eppure l’esordio non è stato dei più agevoli.

Difatti, l’articolo 178 Contraffazione di opere d’arte, nella sua formulazione originaria non contemplava la configurabilità della contraffazione nel caso si trattasse di autori viventi o la cui realizzazione d’arte non superasse i cinquant’anni. Si deve all’intervento chiarificatore della Consulta[18] l’estensione della disciplina a tutte le ipotesi di contraffazione, ivi comprese quelle di autori viventi o la cui esecuzione risalga a meno di cinquant’anni, nonché il rafforzamento della tutela volta a contrastare condotte lesive del patrimonio artistico[19].

Allo stato attuale, l’art. 178, contenuto nel Capo I del Titolo II Sanzioni penali del decreto legislativo n. 42 del 2004, punisce, con la reclusione da tre mesi fino a quattro anni e con la multa da euro 103 a euro 3.099, partitamente:

  1. chiunque, al fine di trarne profitto, contraffà, altera o riproduce un’opera di pittura, scultura o grafica, ovvero un oggetto di antichità o di interesse storico od archeologico;

b) chiunque, anche senza aver concorso nella contraffazione, alterazione o riproduzione, pone in commercio, o detiene per farne commercio, o introduce a questo fine nel territorio dello Stato, o comunque pone in circolazione, come autentici, esemplari contraffatti, alterati o riprodotti di opere di pittura, scultura, grafica o altri oggetti di antichità, o di oggetti di interesse storico od archeologico;

c) chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti, indicati nelle lettere a) e b), contraffatti, alterati o riprodotti;

d) chiunque mediante altre dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, apposizione di timbri od etichette o con qualsiasi altro mezzo accredita o contribuisce ad accreditare, conoscendone la falsità, come autentici opere od oggetti indicati nelle lettere a) e b) contraffatti, alterati o riprodotti.

Innanzitutto, va ribadito che l’articolo 178 del Codice dei beni culturali e del paesaggio estende la sua applicabilità ad ogni ipotesi di contraffazione avente ad oggetto sia beni culturali che opere d’arte[20].

Si tratta di reato plurioffensivo posto a tutela della fede pubblica, al pari dei delitti contro la fede pubblica contenuti nel Codice penale; di conseguenza, la falsità deve essere giuridicamente rilevante[21], cioè idonea non solo a trarre in inganno, bensì a ledere tutti gli interessi specifici che ruotano attorno alla genuinità dell’oggetto. Ne deriva che, al pari della disciplina penale, l’alterazione o la contraffazione grossolana – tale è la falsità eseguita in modo tanto approssimativo da non trovar credito alcuno – non è punibile[22].

Il delitto in esame è, inoltre, un reato comune. Ciò è suggerito dall’esordio testuale della norma, «Chiunque», oltreché dall’assenza di richiami espliciti ed impliciti riferiti a soggetti qualificati; tant’è che, qualora le condotte tipiche vengano commesse nell’esercizio di un’attività commerciale è prevista, ai sensi del secondo comma dell’articolo 178, la configurazione di una circostanza aggravante e la pena accessoria dell’interdizione ex art. 30 c.p. Diversamente il legislatore avrebbe parlato di decadenza dall’esercizio di specifica attività professionale.

Quanto all’elemento materiale, la disciplina non opera alcuna distinzione in ordine alla tipologia dell’opera su cui ricade la condotta illecita, ben potendosi trattare di scultura, pittura, grafica, o alla tecnica adoperata per la sua realizzazione; va da sé che potrà essere considerata la quantità delle opere contraffatte ai fini della valutazione dell’unico disegno criminoso, quale conditio necessaria per l’applicazione della continuazione del reato.

Per quanto attiene l’elemento soggettivo, invece, è richiesto il dolo specifico, ossia «la presenza di uno scopo ulteriore, verso cui deve tendere la volontà del soggetto, ma che non occorre sia effettivamente conseguito»[23]. In questa ipotesi, infatti, l’articolo 178 prevede che il soggetto sia consapevole della non autenticità dell’opera contraffatta, alterata o riprodotta[24].

Nell’alveo delle condotte penalmente rilevanti, inoltre, la norma elenca rispettivamente: la contraffazione e l’alterazione, le quali, pur non beneficiando di alcuna descrizione all’interno della disposizione, hanno trovato significato contenutistico grazie alla giurisprudenza; e la riproduzione, la cui definizione è stata mutuata dalla normativa sulla protezione del diritto d’autore.

Più specificamente, secondo la Corte di legittimità, per la configurazione della contraffazione «non è necessario che l’opera sia qualificata come autentica, ma è sufficiente che manchi la dichiarazione espressa di non autenticità, atteso che la punibilità del fatto è esclusa, ai sensi dell’articolo 179 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in caso di dichiarazione espressa di non autenticità all’atto dell’esposizione o della vendita, mediante annotazione scritta sull’opera o sull’oggetto ovvero, quando ciò non sia possibile per la natura o le dimensioni della copia o dell’imitazione, con dichiarazione rilasciata all’atto dell’esposizione o della vendita»[25].

L’alterazione, invece, « suppone la modifica di un’opera originale, in modo che nella stessa vengano inserite caratteristiche che non aveva al momento dell’intervento»[26].

Da ultimo, il diritto a riprodurre «ha per oggetto la moltiplicazione in copie diretta o indiretta, temporanea o permanente, in tutto o in parte dell’opera, in qualunque modo o forma, come la copiatura a mano, la stampa, la litografia, l’incisione, la fotografia, la fonografia, la cinematografia ed ogni altro procedimento di riproduzione»[27].

L’ultimo comma dell’articolo 178 prevede, infine, la confisca obbligatoria «degli esemplari contraffatti, alterati o riprodotti delle opere o degli oggetti indicati nel comma 1, salvo che si tratti di cose appartenenti a persone estranee al reato. Delle cose confiscate è vietata, senza limiti di tempo, la vendita nelle aste dei corpi di reato».

In ragione delle considerazioni fin qui esposte, è possibile sostenere che il Codice dei beni culturali e del paesaggio (con i suoi 184 articoli), nella sua triplice declinazione volta alla protezione, conservazione e valorizzazione delle opere di interesse artistico – culturale che contraddistinguono il nostro Paese, rappresenti un approdo normativo non di poco rilievo.

L’esigenza di un riconoscimento valoriale riferito ai singoli beni artistici, da una parte, e il bisogno di definire paradigmi chiari al “penalmente rilevante”, dall’altra, infatti, hanno rappresentato le fondamenta su cui è stato elevato il complesso normativo che disciplina le falsità artistiche, sì da consentire alla Repubblica, ai sensi dell’art. 9 Cost., l’adempimento della tutela “del patrimonio storico e artistico della Nazione” nella sua forma più concreta.

3. Prima di procedere all’analisi di alcune recenti pronunce in tema confisca di opere d’arte contraffatte, occorre preliminarmente soffermarsi sull’istituto ablatorio, in ragione della complessità delle sue articolazioni e della propagazione extra codicem registrata negli ultimi tempi.

Difatti, al permanere di un nomen unicum si contrappone lo sviluppo di un mosaico di ipotesi speciali che ha condizionato quantità e funzioni dell’istituto in esame, tanto che oggi si suole parlare di “confische” e non più di confisca, quale prova della crescente proliferazione dell’istituto[28]. Ciò che rimane, tuttavia, a dispetto dello stravolgimento dei connotati identitari originari, è la singolarità dell’effetto che la confisca è in grado di determinare, consistente in una ablazione patrimoniale a favore dello Stato, totale o parziale, destinata a punire l’autore di condotte illecite o comunque pericolose.

Come evidenziato da parte della dottrina, la confisca rappresenta «una tenace costante del fenomeno punitivo»[29] evoluto nei secoli, seppur con fisionomie ogni volta differenti, assurgendo quasi a prolungamento naturale della pena.

Nel dettaglio, già nella tradizione giuridica romana alla confisca veniva attribuita (pacificamente) funzione sanzionatoria accessoria; dapprima nell’ambito della repressione dei reati politici, per poi estendersi a tutti i delitti puniti con la pena capitale o l’esilio[30].

Con il contributo riformatore illuministico[31], invece, si diffuse un’opinione negativa dell’istituto, considerato ingiusto ed iniquo, indipendentemente dalla connotazione di pena, misura di sicurezza o provvedimento amministrativo assimilabile all’espropriazione. Incisiva, sul punto, la condanna del giurista italiano Cesare Beccaria, secondo il quale «le confische mettono un prezzo sulle teste dei deboli, fanno soffrire all’innocente la pena del reo e pongono gl’innocenti medesimi nella disperata necessità di commettere delitti»[32].

Successivamente, l’avvento delle garanzie costituzionali, «il principio personalistico e la responsabilità circoscritta alla realizzazione di un fatto tipizzato dall’ordinamento come illecito penale»[33], rappresentarono fattori che contribuirono a ridimensionare perimetro ed efficacia dell’istituto.

Nella concezione moderna del diritto penale, infatti, la confisca (abbandonata la sua vocazione estensiva) si caratterizza per la pertinenzialità che deve sussistere tra il bene da sottrarre ed il reato realizzato.

Così, tracciato sinteticamente il percorso storico attraversato dalla confisca, risulta necessario procedere alla definizione della natura giuridica dell’istituto de quo distinguendo, però, tra la fattispecie obbligatoria contenuta nel codice penale ex art. 240 e le singole ipotesi disseminate nelle varie legislazioni speciali.

Sarà l’analisi comparata, infatti, più che la reductio ad unum, il criterio migliore da seguire per tentare di evidenziare le ambiguità strutturali che tipizzano la moltitudine di confische presenti nel nostro ordinamento, il cui unico elemento di raccordo si sostanzia nell’esistenza di un obbligo dispositivo rivolto al giudice.

Come accennato, il tramonto della confisca “indiscriminata” ha determinato lo speculare consolidamento della confisca “del fatto” afferente non più l’intero patrimonio del reo, bensì singole cose a vario titolo collegate con la consumazione del reato, o comunque considerate pericolose. Nel dettaglio, con la nuova formulazione dell’art. 240 c.p. ad opera del legislatore del 1930[34] si è definito un modello di confisca “oggettivamente” limitato perché circoscritto a specifici elementi correlati alla commissione dell’illecito penale. Ci si riferisce alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, a quelle che ne costituiscono il profitto, prodotto o il prezzo nonché a quelle considerate obiettivamente illecite (la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce in re ipsa reato). Ancora, si precisa che accanto alla confisca ex art. 240 il Codice penale prevede anche delle ipotesi ablatorie particolari, disciplinate in singoli articoli di parte speciale. Si allude, ad esempio, alla confisca del denaro esposto nel giuoco o degli arnesi od oggetti ad esso destinati (art. 722 c.p.) oppure alla confisca della cosa deteriorata o comunque danneggiata di valore archeologico, storico o artistico nazionale (art. 733 c.p.); ipotesi, quest’ultime, comunque marginali rispetto al nodale art. 240.

Infine, per quanto attiene la collocazione sistematica, a differenza della confisca originaria considerata quale pena in senso stretto in ragione dei suoi effetti marcatamente repressivi, la confisca di cui all’art. 240 trova collocazione nell’alveo delle misure di sicurezza patrimoniali; e ciò quasi a volerne enfatizzare la funzione special-preventiva in luogo di quella sanzionatoria. In questa direzione depone anche la Relazione al progetto definitivo dell’attuale codice, secondo cui la confisca, in quanto misura di sicurezza, tende a prevenire la reiterazione dei reati attraverso l’acquisizione da parte dello Stato di cose che «provenendo da fatti illeciti penali o in altra guisa collegandosi alla loro esecuzione, manterrebbero viva l’idea attrattiva del reato»[35].

Alla luce di queste considerazioni, però, sembra opportuno interrogarsi sulle cause che hanno reso la fisionomia della confisca “proteiforme”[36] a dispetto di una qualificazione apparentemente inequivoca ed evidente. In sostanza, è necessario comprendere quali siano state le ragioni che hanno contribuito a determinare l’insorgenza di confische “speciali”, connotate da regimi giuridici spesso differenti se non del tutto divergenti rispetto alla disciplina originaria.

A tal fine, è necessario soffermarsi sulla ratio dell’istituto e sull’evoluzione normativa dell’istituto.

Difatti, la comparazione tra la confisca del Codice Zanardelli, collocata nel Titolo III del Libro I Degli effetti e della esecuzione delle condanne penali, e quella del Codice Rocco, inclusa nel Capo II del Titolo VIII del Libro I rubricato Delle misure di sicurezza patrimoniali, evidenzia l’attraversamento di un percorso, in termini di afflittività sanzionatoria, sempre più à rebours.

Più specificamente, alcuni elementi, quali la facoltatività contenuta al primo comma dell’art. 240, l’accertamento della pericolosità della cosa, la prova necessaria del nesso di derivazione tra res e reato e la previa condanna, se fino a ieri tratteggiavano il paradigma della confisca tradizionale, oggi, per converso, rappresentano le ragioni giustificative della moltiplicazione delle confische speciali.

Non è un caso, infatti, che legislazione degli ultimi decenni (anche in forza delle sollecitazioni di matrice europea) si sia mossa su un doppio binario: l’applicazione della confisca oltre il perimetro codicistico e il rovesciamento dell’antecedente rapporto genus a species tra ipotesi facoltative ed obbligatorie.

Il proliferare di confische moderne, dunque, si connota per la previsione pressoché generale dell’obbligatorietà dell’istituto e per l’applicazione della stessa a beni che non sarebbero rientrati nella formulazione codicistica; virata interpretativa, quella appena tratteggiata, necessaria per fronteggiare esigenze di politica criminale sempre più gravose.

Se sia stata, poi, una soluzione ottimale quella operata dal nostro legislatore di optare per un intervento più estensivo-repressivo nella scelta delle politiche criminali da adottare, ad opinione di chi scrive, qualche dubbio lo solleva. L’ipertrofia del diritto penale, denunciata già dal Carrara[37], continua a rappresentare una costante (negativa) anche dei moderni sistemi penali ragionevolmente imputabile a due macro fattori ossia, la pressione sociale che invoca l’assolutizzazione della funzione retributiva della pena e una redazione legislativa eccessiva; fattori, questi, che riflettono «un diritto penale “reale” che non è più neppure pallida eco del diritto penale iscritto nei principi e nella legge»[38].

Ebbene, nel solco della moltiplicazione legislativa speciale e nell’eterogenia di altre disposizioni che prevedono l’applicazione dell’istituto ablatorio[39], è sorta la confisca disciplinata dall’articolo 178 del codice dei beni culturali.

Il quarto comma del sopra citato articolo dispone che «è sempre ordinata la confisca degli esemplari contraffatti, alterati o riprodotti delle opere o degli oggetti indicati nel comma 1, salvo che si tratti di cose appartenenti a persone estranee al reato. Della cosa è vietata, senza limiti di tempo, la vendita nelle aste dei corpi di reato».

Di primo acchito, la norma sembra possedere un contenuto dispositivo analogo alla disciplina generale in materia di confisca c.d. obbligatoria di cui all’art. 240, comma 2, n. 2, c.p., concernente le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione ed alienazione costituisce reato. Ed in effetti, le opere di pittura, scultura, grafica e di antichità, interesse storico od archeologico contraffatte, alterate o riprodotte vengono considerate cose la cui realizzazione, detenzione e commercio costituisce, di per sé, reato. Ne consegue che, così come «la confisca ex art. 240 comma 2 n. 2 c.p. deve essere applicata “sempre”, ossia senza che occorra una valutazione sulla pericolosità, laonde è ritenuta “obbligatoria”, parimenti l’ipotesi speciale di confisca in materia d’arte può definirsi “obbligatoria”»[40].

Tuttavia, mentre la disciplina contenuta all’art. 240 c.p., con riferimento alle cose di cui al comma 2, n. 2, precisa che «è sempre ordinata la confisca […] anche se non è stata pronunciata condanna», l’art. 178 si limita, invece, a rilevare, al comma 4, che la confisca «è sempre ordinata» non specificando, però, se l’esistenza della previa condanna assurga, o meno, a presupposto necessario.

La questione, lungi dall’essere mera vicenda stilistica, si dirama in due possibili soluzioni interpretative.

La locuzione “sempre”, non accompagnata da altro, infatti, ben può essere interpretata nel senso di un’inconfiscabilità dei falsi appartenenti al reo assolto nel merito; così come lascia intendere che la confisca ex art. 178, dovendo essere ordinata sempre, possa non conseguire necessariamente alla pronuncia di una sentenza di condanna.

4. Sull’esegesi dell’art. 178 contenuto nel codice dei beni culturali, nelle sentenze che si segnalano, la Cassazione penale si pronuncia, al termine di vicende aventi ad oggetto la contraffazione di opere d’arte, sul necessario accertamento della responsabilità dell’imputato prosciolto per prescrizione e sulla verifica del nesso pertinenziale (oggetto-reato), al fine di ordinare la confisca ex art. 178; e sull’accertamento del fatto reato, ossia la non autenticità dell’opera, costituente l’irrinunciabile presupposto della confisca in esame.

Nella sentenza n. 4954/2015[41], la Corte, nel solco della giurisprudenza più recente[42], ha affermato, da un lato, che l’estinzione del reato per prescrizione non preclude la confisca delle cose che ne costituiscono il prezzo, nei casi in cui vi sia comunque stato un accertamento incidentale, equivalente a quello contenuto in una sentenza di condanna, della responsabilità dell’imputato e del nesso pertinenziale fra oggetto della confisca e reato, dall’altro, che in caso di estinzione del reato, il giudice dispone di poteri di accertamento sul fatto-reato onde ordinare la confisca non solo delle cose oggettivamente criminose per loro intrinseca natura (art. 240, comma 2, n. 2, c.p.), ma anche di quelle che sono considerate tali dal legislatore per il loro collegamento con uno specifico fatto-reato[43].

In tal senso, dunque, pur potendosi ritenere ammissibile il ricorso alla confisca ex art. 178 D. lgs. n.42/2004 anche in caso di reato estinto per prescrizione, occorre pur sempre che il giudice abbia «accertato il fatto reato», non potendosi trarre argomenti a favore da quella giurisprudenza, pure esistente con riferimento alla disciplina in materia di beni culturali, la quale ritiene, ad esempio, che la confisca prevista all’art. 174 D.lgs. n. 42/2004 va disposta, oltre che in caso di pronuncia di condanna, anche in ipotesi di proscioglimento per cause che non riguardino la materialità del fatto e non interrompano il rapporto tra “res” ed il reato[44].

Nella pronuncia si afferma, dunque, che deve ritenersi necessario per il giudice, nel caso in cui prosciolga l’imputato per prescrizione, al fine di ordinare la confisca ex art. 178, D.lgs. n. 42/2004, svolgere, secondo la più recente giurisprudenza, un accertamento incidentale, equivalente a quello contenuto in una sentenza di condanna, della responsabilità dell’imputato e del nesso pertinenziale fra oggetto della confisca e reato.

In un più recente arresto, la Cassazione[45], ridelineando i tratti salienti dell’istituto della confisca e puntualizzando le peculiarità che interessano, rispettivamente, quella prevista all’art. 240 c.p. e quella inclusa all’art. 178 D.lgs. n. 42/2004, si focalizza sull’attitudine criminosa che possiedono le cose oggetto della prima, differenziando l’applicabilità del secondo istituto al previo accertamento (in contraddittorio fra le parti) del suo presupposto ovvero, ancora una volta, il fatto di reato sottostante.

Nella vicenda in esame il GIP aveva disposto l’archiviazione per carenza dell’elemento soggettivo in capo agli imputati, ma era stata disposta comunque la confisca dell’opera assertivamente contraffatta, in quanto ritenuta sempre obbligatoria.

Con sentenza n. 30687, depositata in 5 agosto 2021, la Corte si sofferma innanzitutto sull’interpretazione dell’obbligatorietà insita all’art. 178, comma 4, D. lgs. n. 42/2004.

Invero, secondo i giudici di legittimità il reato che impone la confiscabilità dell’opera non è già la sua contraffazione, alterazione o riproduzione, ipotesi queste previste dal D.lgs. n. 42/2004, art. 178, lett. a), ma il fatto di aver posto in commercio un’opera contraffatta, ancorché la contraffazione sia ascrivibile a soggetto diverso dall’alienante (lett. b). Conclusione, questa, «che si fonda sulla stessa littera legis, prevedendosi che la confisca cada sulle opere contraffatte, a meno che non appartengano a soggetti diversi dagli autori del reato di cui al comma 1, dove per reato non si intende solo la fattispecie prevista dalla lett. a) del comma 1, ovverosia la condotta di chi abbia posto in essere la contraffazione, alterazione o riproduzione, ma chiunque abbia realizzato una delle condotte previste dal comma 1, tra le quali è compresa la messa in commercio o la detenzione per la vendita. Nella stessa direzione converge anche la ratio sottesa alla misura di sicurezza che è quella, come si ricava dalla matrice comune alle singole condotte criminose contemplate nel comma 1 della norma in esame e della pubblicità prevista dal comma 3 che accompagna alla sentenza di condanna, di impedire la circolazione sul mercato di opere d’autore spacciate come autentiche».

Pertanto, non vi è dubbio che la fattispecie criminosa contestata consentisse in astratto di disporre la confisca essendo stato accertato che la condotta posta in essere dai ricorrenti, che pure non avevano concorso nella falsificazione, era consistita nella detenzione per la vendita del quadro che il GIP ha reputato falsamente attribuito all’artista spagnolo, senza che tuttavia la loro buona fede consentisse di ritenere il reato presupposto perfezionato, ragione per la quale è stato pronunciato nei loro confronti decreto di archiviazione.

Ciò chiarito, la Corte puntualizza che se ben poteva ritenersi superfluo, ai fini dell’archiviazione, l’accertamento della falsità dell’opera (essendo già stata accertata la mancanza di dolo in capo ai ricorrenti), altrettanto non può dirsi per la confisca.

Occorre, infatti, stabilire se la suddetta misura, seppur obbligatoria, abbia la stessa portata applicativa della confisca di cui all’art. 240, comma 2, n. 2, c.p. A riguardo non può prescindersi dal rilievo riconosciuto dalla giurisprudenza che la norma del codice penale non esaurisce le ipotesi di confisca obbligatoria né contempla una regolamentazione di ordine generale[46].

Difatti, alle diverse ipotesi previste dall’art. 240, comma 2, c.p. si aggiungono molteplici figure di confisca che non solo non hanno alcuna attitudine criminosa intrinseca, ben potendo il vincolo cadere persino su beni non manifestanti il minimo collegamento con il singolo fatto di reato.

La Corte precisa che è proprio muovendo da tale approdo che balza evidente la differenza che corre tra la disposizione codicistica e la norma speciale: mentre nella prima l’obbligatorietà trova giustificazione nella circostanza che la misura concerne cose intrinsecamente pericolose, in quanto la detenzione o l’uso di esse assume di per sé carattere criminoso[47]; per contro, la confisca di un’opera d’arte contraffatta assolve, ad una funzione punitivo-repressiva che prescinde dalla pericolosità intrinseca della cosa, dipendendo la sua confiscabilità dall’accertamento dell’esistenza di un’attività vietata. Se, quindi, la previsione di cui all’art. 240, comma 2, n. 2 c.p., è essenzialmente focalizzata sulle caratteristiche dei beni da confiscare, i quali, possedendo un’attitudine criminosa in re ipsa, non richiedono accertamenti anomali ai fini dell’applicabilità della misura, altrettanto non può dirsi per la confisca di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 178.

Nello specifico, trattandosi formalmente di una sanzione amministrativa, diversa dalla confisca “tipica”, ma che, sostanzialmente, ha natura penale ed è dunque soggetta all’apparato di garanzie predisposto specificamente in subjecta materia, la Corte ritiene che non possa, ai fini della sua applicabilità, prescindersi, proprio perché non ricadente su un bene intrinsecamente pericoloso, dall’accertamento del suo presupposto, ovverosia del fatto di reato sottostante, accertamento questo che a sua volta deve avvenire nel necessario contraddittorio fra le parti. Come infatti già affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza De Maio[48] a proposito della confisca, sia pur riferita all’immediata declaratoria di estinzione del reato, la circostanza che il giudice possa procedere ad accertamenti ai fini dell’applicabilità della misura non può affatto considerarsi anomala.

Giurisprudenza più recente ha poi evidenziato come gli ampi poteri di verifica di cui dispone il giudice gli consentono di procedere ad un accertamento incidentale, analogo a quello contenuto in una sentenza di condanna, della responsabilità dell’imputato e del nesso pertinenziale fra l’oggetto della confisca ed il reato[49].

Nella pronuncia in oggetto, la Corte ha pertanto statuito che l’accertamento del fatto di reato, e dunque la non autenticità del quadro di proprietà degli istanti, quand’anche potesse essere superfluo ai fini del proscioglimento stante la ritenuta mancanza di dolo da parte di costoro, è necessario ai fini della confisca. Infatti, a fronte di due contrapposte consulenze, integranti entrambe un accertamento di parte, quali l’attestazione prodotta dalla difesa in ordine all’autenticità del dipinto e la relazione predisposta dall’ausiliario incaricato dalla Polizia Giudiziaria che ha ritenuto trattarsi invece di un falso, non può ritenersi accertata, in assenza di una perizia disposta nel contraddittorio fra le parti – che gli istanti non avevano altro modo di richiedere se non in sede esecutiva, non beneficiando costoro di alcuna forma di impugnazione del decreto di archiviazione pronunciato nei loro confronti all’infuori dell’opposizione all’esecuzione – la non autenticità dell’opera, costituente l’indefettibile presupposto della disposta confisca.

in conclusione, dunque, la confisca di opere d’arte prevista dall’art. 178, seppur obbligatoria, non è assimilabile alla confisca obbligatoria tipica disciplinata dall’art. 240, comma 2, n. 2, c.p., in quanto non ricade su beni di natura intrinsecamente criminosa, presupponendo perciò, ove disposta in assenza di una pronuncia di condanna, un accertamento incidentale del fatto reato e, pertanto, della falsità, o meglio della contraffazione dell’opera.

Quanto emerge dalle considerazioni fin qui svolte può essere così sintetizzato: oggi la confisca possiede il colore del vetro. Negli ultimi decenni, infatti, all’anacronismo del legislatore rispetto al contrasto dei fenomeni di criminalità (specie di quella più grave) si è risposto con un utilizzo ipertrofico di istituti che, nel tempo, hanno perso la loro identità per diventare degli ibridi, tra tutti, la confisca. Attraverso l’uso della legislazione extra-penale sono state inserite nel nostro sistema ordinamentale plurime forme di confisca totalmente svincolate delle garanzie penali e costituzionali, pur possedendo indici di afflittività maggiori rispetto alla confisca codicistica.

Se questo è il quadro, allora, il dubbio di quanti s’interrogano sulla liceità della compressione di diritti fondamentali, avallata da normative penali di contrasto “efficienti”, non potrà che essere condiviso, almeno fin tanto che il contributo del legislatore non decida d’oltrepassare “il velo di Maya”.

5. Alla luce di quanto fin qui argomentato, si espone in questa sede una breve considerazione sulla circolazione delle opere di interesse artistico alla luce dell’istituto che disciplina l’acquisto a non domino, ragionando su una possibile estromissione dal precetto contenuto all’art. 1153 cc. dei beni culturali, quale categoria unitaria, «avente un particolare statuto e richiedente una attenzione del tutto peculiare da parte del legislatore per una circolazione attenta e limitata alle negoziazioni lecite e regolari»[50].

La controversa questione dell’acquisto a non domino di beni mobili provenienti da condotte illecite obbliga ad una previa disamina dell’istituto disciplinato all’art. 1153 del codice civile, da cui derivare, successivamente, le peculiarità di un fenomeno tutto italiano rispetto allo sfondo euro-unitario ed internazionale.

Per spiegare il fenomeno dell’acquisto a non domino occorre risalire ad una formula apparentemente inequivoca secondo la quale «nessuno dà quel che non ha»[51], per capire che l’istituto in oggetto, invece, ne rappresenta la speculare eccezione.

Dalla lettura dell’art. 1553 c.c. emerge, infatti, la regola del “possesso vale titolo”, la quale consente all’ordinamento di proteggere l’acquirente – preferendolo al precedente proprietario – se sussistono tre elementi indefettibili: la buona fede dell’acquirente, il trasferimento del possesso della res e la presenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento[52]. In presenza di tutti i requisiti sopraelencati, l’acquisto a non domino è, dunque, riconducibile a modo di acquisto della proprietà a titolo originario, configurando in questi termini una deroga al principio “nemo dat quod non habet[53].

Il motivo che giustifica la scelta operata dall’ordinamento di propendere per la salvaguardia delle ragioni dell’acquirente in buona fede trova spiegazione nella necessità di tutelare la speditezza ed il buon funzionamento del mercato. Difatti, se ogni acquirente dovesse sempre verificare la sicura provenienza del bene acquistato, tutte le transazioni subirebbero un significativo rallentamento con conseguenze pregiudizievoli per l’efficienza dei traffici giuridici.

Tuttavia, se questo è il quadro, occorre chiedersi se la regola del “possesso vale titolo” sia estendibile indistintamente a tutti i beni, compresi quelli culturali, e se l’acquisto a non domino non rischi di assurgere ad escamotage per alienare beni mobili di provenienza illecita, considerato che il nostro ordinamento non contempla eccezioni rispetto ai beni rubati o smarriti; condizione, quest’ultima, che ci pone in controtendenza rispetto agli standards previsti negli altri ordinamenti europei.

In riferimento al primo quesito, come evidenziato da autorevole dottrina[54], sarebbe opportuno escludere l’estendibilità indiscriminata della regola contenuta all’art. 1153 c.c.

I beni culturali, secondo quanto previsto dagli artt. 10 e 11 del D.lgs. n. 42/2004, non possono, infatti, circolare in modo “tradizionale” all’interno del mercato, non essendo equiparati a merci (art. 64-bis Codice dei beni culturali). Ne deriva che occorre rivedere il perimetro d’estensione dell’art. 1153 c.c. «sia per ricondurre la sua applicazione entro i limiti che il legislatore ha inteso attribuirgli, sia per evitare che la norma legittimante la circolazione della cosa rubata da eccezionale diventi generale e valida per tutti i beni mobili, compresi quelli non destinati a circolare»[55], tutt’al più, mantenendo sotto l’egida regolatrice del 1153 c.c. solo beni culturali non aventi alto valore identitario.

Ciò posto, la rilevanza di quanto affermato dalla dottrina trova riscontro nella nozione di bene culturale, in base alla quale «la res si fa funzione e dunque diventa oggetto di determinati interessi»[56]. Solo così, infatti, può comprendersi il perché della devoluzione al bene culturale di una disciplina propria, o meglio «altra e diversa rispetto a quella tradizionale»[57]. Se poi a ciò si aggiunge che la nuova nozione di bene culturale, oggi più di ieri, rende contemporanea l’intuizione “pluralistica della proprietà” del Pugliatti[58], si comprende perché la disposizione del bene culturale «risulta sagomata dal legislatore in via del tutto specifica» [59], lontana dalla disciplina proprietaria tradizionale. Difatti, se è vero che il regime di proprietà si distingue in base al bene che ne è oggetto ed in base al soggetto che ne è titolare, data l’indubbia funzione sociale del bene culturale e la fruibilità dello stesso da parte di una categoria massiva di destinatari, allora la materia dei beni culturali non potrà più soddisfare solo esigenze patrimoniali-proprietarie ma sarà chiamata a tutelare istanze sociali-universali[60]. Tale ricostruzione, inoltre, è condivisa dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui lo scopo di alcuni beni si sostanzia proprio nell’attuazione dei diritti inviolabili dell’uomo, con la consapevolezza che disquisire in termini di sola dicotomia beni pubblici (o demaniali) – privati significa, in modo parziale, limitarsi alla mera individuazione della titolarità dei beni, tralasciando l’ineludibile dato della classificazione degli stessi in virtù della relativa funzione e dei relativi interessi a tali beni collegati[61].

Va, peraltro, evidenziato il valore “universale-identitario” dei beni in esame, richiamando la disciplina euro-unitaria che regolamenta la circolazione dei beni di alto valore artistico e culturale. Invero, il combinato disposto degli artt. 345 TFUE, quale espressione del principio di neutralità dei Trattati in relazione ai regimi di proprietà degli Stati membri[62], e 17 CDFUE, che sancisce la regolazione dei beni nei limiti imposti dall’interesse generale[63], fa sì che a determinati beni venga riconosciuta una funzione valoriale che, ponendosi oltre la materialità dell’oggetto, realizza finalità universali che dalla ricchezza culturale si estendono fino al progresso dell’intera umanità e la cui protezione impegna tutti gli ordinamenti sovranazionali.

In merito al secondo interrogativo, invece, occorre partire da un assunto già espresso: il Codice civile italiano, riconosce una tutela molto ampia alla parte che acquista in forza di un titolo astrattamente valido, riceve il possesso del bene ed è in buona fede; non operando alcun distinguo rispetto alla provenienza illecita del bene. Viceversa, gli altri ordinamenti europei, in merito alla tutela dell’acquirente in buona fede anche nel caso di beni rubati, sostanzialmente, si dividono tra chi limita la tutela ai beni non oggetto di furto e chi la esclude del tutto.[64]

Cosi, nel 1995, l’Unidroit, su espressa sollecitazione dell’UNESCO, fu chiamato a siglare la Convenzione di Roma sui beni culturali rubati o esportati illecitamente[65], avente lo scopo precipuo di omogeneizzare, per quanto possibile, le diverse discipline, inducendo gli Stati di civil law ad attenuare la protezione degli acquirenti a non domino di beni culturali. La portata innovativa della Convenzione Unidroit fu rappresentata dall’adozione di correttivi volti ad attenuare la tutela dell’acquirente in buona fede, per rafforzare la protezione del bene artistico-culturale.

Stando alla lettera di tale disciplina, il possessore di un bene culturale rubato, ancorché in buona fede, in nessun caso assurge alla proprietà del predetto bene, potendo ottenere – solo se in buona fede – la corresponsione dell’indennizzo in presenza di specifiche condizioni. La deliberata scelta di penalizzare l’acquirente a non domino trova concreto riscontro all’art. 4 della Convenzione, nella parte in cui subordina il diritto all’indennizzo alla prova (a carico del possessore del bene) della due diligence[66], con ciò segnando la distanza rispetto agli ordinamenti giuridici, come il nostro, in cui vige il principio della presunzione della buona fede[67].

Ora, se questo è il tenore della Convenzione, rimane da valutare se la legge 213/1999, Ratifica ed esecuzione dell’Atto finale della Conferenza diplomatica per l’adozione del progetto di Convenzione dell’Unidroit sul ritorno internazionale dei beni culturali rubati o illecitamente esportati nonché l’art. 87 del Codice dei beni culturali, rubricato Convenzione dell’Unidroit[68], siano in linea rispetto all’indirizzo dettato dalla Convenzione.

La risposta pare essere negativa soprattutto se si volge l’attenzione alla parte in cui si riformula il regime della buona fede (sostituendolo alla due diligence) ed il relativo indennizzo, di fatto recependo solo parzialmente i dettami convenzionali.

Invero, l’art. 4 della legge in esame, disponendo che «il tribunale, nel disporre la restituzione o il ritorno del bene culturale, può liquidare, a domanda del possessore che si sia costituito in giudizio, un indennizzo determinato anche in base a criteri equitativi» per ottenere il quale «il soggetto interessato deve provare di aver acquisito il possesso del bene in buona fede» e che «il mancato pagamento dell’indennizzo determina a favore del possessore il diritto di ritenzione di cui all’articolo 1152 del codice civile», lascia intendere che il legislatore italiano non abbia voluto derogare alla disciplina degli acquisti a non domino nel delicato settore dei beni artistico-culturali.

Più precisamente, il ritorno della buona fede e l’inserimento del diritto di ritenzione del bene nei confronti del possessore in buona fede che non abbia beneficiato della corresponsione dell’indennizzo, costituiscono fattori che generano, nel nostro Paese, conseguenze non di poco conto rispetto alla repressione delle circolazioni illecite di beni.

Difatti, ben può accadere che un bene culturale rubato in uno Stato estero, rivenduto in Italia (in cui è presente il baluardo costituito dall’art. 1153 cc.) e poi nuovamente ritrasferito nello Stato d’origine, «non potrà più essere rivendicato dal vecchio proprietario neppure invocando direttive o convenzioni, le quali hanno efficacia ed impongono obblighi restitutori solo e fintanto che i beni si trovano all’estero»[69].

Risulta evidente, dunque, che questo escamotage rischia di rendere l’Italia «un mercato particolarmente appetibile per i beni culturali rubati»[70].

In assenza di un intervento normativo chiarificatore, i giudici nazionali hanno provato a mitigare il favor contenuto agli artt. 1153 c.c. e 4 della l. 213/1999, applicando l’art. 1147, comma 2 c.c., in forza del quale la buona fede «non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave»[71]. Viene così meno la presunzione della buona fede in tutte le ipotesi in cui l’acquirente tralascia di eseguire quelle verifiche che una persona di media diligenza avrebbe invece compiuto.

Sul punto, è opportuno richiamare la nota decisione della Cassazione (Cass., sez. II, 14 settembre 1999, n. 9782) sull’acquisto di un quadro rubato di De Chirico, dal titolo Natura morta con pesci, da parte di un mercante d’arte[72]. Ebbene, secondo la Corte la buona fede non equivale alla mera ignoranza della lesione dell’altrui diritto, ma occorre che tale ignoranza non sia dipesa da colpa grave, data dall’omissione, da parte dell’acquirente, di quel minimo di diligenza che gli avrebbe permesso di percepire l’esistenza di una problematica[73].

Pertanto, come osservato dalla dottrina, malgrado quanto previsto nel D.lgs. n. 42/2004, l’art. 1153 c.c. «rischia di rendere l’Italia una sorta di paradiso per i ricettatori dei beni rubati»[74], contribuendo a «rendere legittima la circolazione di beni che, nel resto d’Europa, non potrebbero circolare legittimamente»[75].

Si è, infatti, affermato che «ogniqualvolta il bene culturale sia stato oggetto di acquisto a non domino mentre si trovava nel territorio di uno Stato che prevede la regola del «possesso vale titolo», siffatto acquisto a non domino, essendo a titolo originario, finisce per liberare il bene stesso da ogni precedente vincolo determinando non solo la caducazione dei precedenti diritti di proprietà, ma sottraendo alla collettività la contemplazione di beni “dal valore universale»[76].

6. Sulla base delle suesposte considerazioni e tracciando le fila conclusive dell’analisi proposta, l’esigenza di agevolare la celerità dei traffici giuridici, quale ratio dell’art. 1153 cc., pare generare molteplici punti di frizione quando oggetto dei negozi sono i beni culturali. Appare ragionevole pensare che, in riferimento a questi beni, l’interesse pubblico da tutelare non sia «certo quello di garantire il commercio, quanto piuttosto quello di provvedere ad una loro adeguata conservazione e tutela»[77]

È noto che l’Italia disponga di un immenso patrimonio materiale ed immateriale che viene troppo spesso dato per scontato.

Se, da un lato, gli obiettivi di protezione e valorizzazione sostenuti dalla legge delega 137/2002 poi concretizzati nel Codice dei beni culturali (D.lgs. n. 42/2004), e la sottoscrizione di Convenzioni e l’adesione a Trattati internazionali hanno colmato il vuoto normativo in materia di tutela dei beni culturali; dall’altro, bisogna constatare che il nostro Paese, ancora oggi, fatica a trasformare l’arte in potenziale economico. E si badi, non solo per generare ricchezza, ma per rilanciare sviluppo culturale, recuperare competitività ed innalzare il prestigio internazionale.

Occorre fare ancora dei passi avanti per cementare nella comunità il senso di unicità “universale” che possiedono i beni culturali e artistici nel nostro Paese, così che, più che il timore della sanzione, sarà la coscienza individuale a proteggere e conservare in maniera adeguata il patrimonio artistico, al fine di scongiurare il più possibile la contemplazione dei falsi d’arte.

  1. Convenzione dell’Aia, 1954; Convezione UNESCO, 1970; Convenzione per la Protezione del Patrimonio Mondiale culturale e naturale, 1972; Convenzione dell’UNIDROIT, 1995; Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo; Convenzione di Nicosia, 2017.

  2. Cass., 3 febbraio 2015, n. 4954.; Cass., 5 agosto 2021, n. 30687, in Il Quotidiano Giuridico, 2021, con nota di A. Scarcella, La non autenticità dell’opera è sempre presupposto della confisca obbligatoria.

  3. Sul punto, C.F Grosso, T. Padovani – A. Pagliaro, Trattato di diritto penale, parte speciale, Milano, 2012, p. 4 ss., ove, con riferimento alla disomogeneità della categoria dei reati di falso, si parla di «Classe – come accennato – ampiamente (rectius, eccessivamente) comprensiva, dal momento che, già dalla lettura della rubrica dei diversi capi, appare in modo chiaro l’eterogeneità degli oggetti materiali delle varie condotte illecite: le monete, nazionali o straniere, aventi corso legale ed i valori pubblici, genericamente intesi, ad esse equiparati; i cd. contrassegni d’identità, pubblici o privati, simboli suscettivi di attestare la provenienza, in una lata accezione del termine, di una cosa determinata; il documento ovvero, in via di approssimazione, l’atto scritto che presenta un contenuto di pensiero narrativo (di scienza) o dichiarativo (di volontà); gli elementi di identificazione della persona ovvero le sue qualità rilevanti per la legge o nella comunità di consociati».

  4. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale parte speciale, Bologna, 2016, p.551.

  5. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, cit., p. 551 «La vita di relazione non solo sarebbe gravemente ostacolata, ma finirebbe con l’essere del tutto inibita se ciascuno, al momento di compiere un’operazione economica o stipulare un negozio giuridico, dovesse sempre verificare di persona la genuinità dei mezzi di scambio, dei documenti e degli altri mezzi simbolici di volta in volta utilizzati».

  6. Per comprendere i presupposti che escludono la punibilità del falso grossolano, innocuo, inutile si vedano i contributi giurisprudenziali più recenti, Cass., 13 maggio 2021, n. 30539; Cass., 18 febbraio 2020, n. 23900; Cass., 11 ottobre 2019, n. 16952; App., 18 gennaio 2019, n. 283.

  7. M. Catenacci, Criteri “ontologici” e criteri “normativi” nella distinzione fra falso materiale e falso ideologico, in, Le falsità documentali, a cura di F. Ramacci, Padova, 2001, p. 212 ss.

  8. Cfr. Relazione al progetto definito del codice penale, I lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, II, Roma, 1929, p. 242.

  9. G. Pioletti, La disciplina del falso artistico, profili generali, in Riv. polizia, 1988, p. 509, nella parte in cui si invita «(…) a individuare altrove il bene protetto dalla disciplina de qua, precisamente nella trasparenza e correttezza del mercato dell’arte, ergo nel cd. ordine economico».

  10. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, Relazione e Regio Decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, p. 4490.

  11. F. Antolisei, Sull’essenza dei delitti contro la fede pubblica, in AA.VV., Studi in memoria di A. Rocco, I, Milano, 1952, p.103 ss. Nello stesso senso, ID., Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, Milano, 2003, p.105 ss.

  12. M. Cecchi, Note in tema di falsificazione di opere d’arte, in Dir. autore, 1998, p. 319, che richiama V. Conti, Economia pubblica, industria e commercio (delitti contro), in Dig. disc. pen., Torino, 1999, p. 199; F. Taormina, La tutela del patrimonio artistico italiano, Torino, 2001, p. 251, «In effetti, la necessità che ogni vendita sia accompagnata da un attestato di autenticità e provenienza dell’opera (art. 64 CBC), la riconducibilità dell’esonero da pena alla allegazione di una declaratoria di non autenticità dell’opera (art. 179 CBC), la previsione di un aumento di pena nel caso in cui il reato sia posto in essere nell’esercizio di un’attività commerciale (art. 178 CBC) confermano che l’interesse tutelato afferisce alla regolarità nella fase dello scambio o delle fasi prodromiche affinché comportamenti criminali non alterino le regole che disciplinano i mercati e con esse i valori dei beni compravenduti, con pregiudizio per gli acquirenti e ingiustificato profitto dei venditori».

  13. F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Lucca, 1867, p. 17 «L’interno confine del giure penale riducesi alla più semplice ed alla più esatta espressione con questa formula. Il giure penale deve accorrere ovunque è necessario per tutelare il diritto: il giure penale non può accorrere dove il diritto non è violato o posto ad imminente pericolo. Esso è difettoso se manca il primo canone: è esorbitante ed ingiusto se eccede il secondo, sebbene contro atto immorale o intrinsecamente malvagio».

  14. Sull’abuso del metodo analitico da parte dei compilatori in materia di falso si veda, S. Fiore, Ratio della tutela e oggetto dell’aggressione nella sistematica dei reati di falso, Napoli, 2000.

  15. Legge 20 novembre 1971, n. 1062, Norme penali sulla contraffazione od alterazione di opere d’arte.

  16. Senato della Repubblica, XVIII Legislatura, n. 799, Disposizioni in materia di apertura gratuita al pubblico dei musei nazionali ogni prima domenica del mese, pag.2, «Furono gli onorevoli Concetto Marchesi e Aldo Moro, padri nobili dell’intero periodo costituente, i principali artefici dell’articolo 9 della Costituzione. Diffondere la consapevolezza dello straordinario patrimonio culturale di cui siamo eredi, favorire la conoscenza delle nostre bellezze, aprirle allo stupore del mondo intero, alla curiosità dei nostri concittadini, preservarle al fine di consegnarle inalterate alle generazioni future dovrebbe costituire un impegno pieno a prescindere dal colore politico. La superiorità del valore della cultura, rispetto alle fisiologiche e legittime divisioni politiche, era ben noto ai Costituenti. L’inserimento dell’articolo 9 tra i principi fondamentali della Costituzione rappresenta un unicum che non ha eguali nel panorama comparato. La stessa connessione tra i due commi dell’articolo 9 è un tratto peculiare della Carta costituzionale italiana: sviluppo, ricerca, cultura e patrimonio formano un tutto inscindibile».

  17. In questo senso, Cass., 4 maggio 1982, n. 2765. Per maggiori approfondimenti si veda, E. Damiani, Questioni in tema di diritto della circolazione di opere d’arte: i casi de Chirico, in Rivista di diritto delle arti e dello spettacolo, fasc.2/2020.

  18. Corte Costituzionale, sentenza 10 maggio 2002, n. 173, in giurcost.org, «La necessità di aderire ad una interpretazione logico-sistematica degli artt. 2, comma 6, e 127 del decreto legislativo, suggerita dalle rispettive sfere di applicazione delle due leggi n. 1089 del 1939 e 1062 del 1971, quali erano state individuate prima della trasfusione nel Titolo primo del testo unico, trova infine conferma nell’espressa esclusione dall’abrogazione dell’art.9, comma 2, della legge del 1971: non avrebbe infatti alcuna ragione continuare a prevedere che il giudice debba assumere come testimone l’autore a cui è attribuita l’opera d’arte contraffatta se le fattispecie incriminatrici contenute nell’art. 127 non si riferissero anche alle opere di autori viventi. Si deve pertanto concludere che le norme incriminatrici relative alla contraffazione, al commercio e alla autenticazione di opere d’arte contraffatte o alterate, contenute nella legge n.1062 del 1971 e trasfuse nell’art. 127 del decreto legislativo n.490 del 1999, continuano ad applicarsi anche alle opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquanta anni. Ne consegue che la questione di legittimità costituzionale, essendo stata sollevata sulla base di un’erronea interpretazione della norma censurata, deve essere dichiarata infondata».

  19. P. Cipolla, La falsificazione di opere d’arte, in Giur. merito, 2013, p. 2032, «Tra l’altro non è richiesto neppure che l’opera contraffatta sia attribuita ad un artista italiano: sul punto si è pronunciata in senso conforme anche la Suprema Corte (Cassazione penale, sez. III, 6 luglio 2007 (ud. 13 marzo 2007), n.26072), che ha evidenziato come la legge non distingua tra opere “nazionali” o “straniere” o tra le nazionalità degli autori e come anzi il CBC, nel definire il patrimonio culturale, abbia abbandonato l’equivoco riferimento al carattere nazionale».

  20. Per la distinzione tra beni culturali e opere d’arte v. artt. 10 e 11 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.

  21. G. Cocco, Il falso bene giuridico della fede pubblica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 68, «De iure condendo muove un autonomo passo verso il principio di offensività il progetto Pagliaro, che, pur mantenendo in materia di falso documentale il bene giuridico tutelato dai reati al livello della efficacia probatoria del documento, all’art. 93 penultimo comma, prevede la esclusione della punibilità del falso «quando il falso non offende l’interesse salvaguardato in concreto dalla funzione probatoria dello specifico documento»”. Ancora, in questo senso, F.C. Palazzo, Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione, in Aa. Vv., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1997, p.77, in cui si richiede il requisito dell’offesa «non già rispetto all’unitario bene giuridico di natura strumentale ed intermedia, costituito dall’idoneità probatoria del documento, bensì in rapporto all’interesse finale e sostanziale salvaguardato in concreto dalla stessa funzione probatoria del documento. Col che, in definitiva, il legislatore – nel particolare settore dei reati di falso – opera una sorta di sostituzione e di spostamento dal bene giuridico interno alla fattispecie ad un bene giuridico variabile ed esterno, rispetto al quale la fede pubblica ha un ruolo appunto strumentale».

  22. In tali casi, la giurisprudenza ricorre alla figura del reato impossibile di cui all’art. 49, comma 2, c.p., per l’inidoneità dell’azione. In questo senso: Cass. pen., 03 aprile 2000, n. 16821; Cass. pen., 6 dicembre 2012, n. 5687; Cass. pen., 15 maggio 2013, n. 36631; Cass. pen., 13 giugno 2013, n. 32769; Cass. pen., 24 gennaio 2019, n. 16952; Cass. pen., 18 febbraio 2020, n. 15122.

  23. T. Padovani, Diritto penale, Milano, 2008, p. 105.

  24. T. Padovani, cit., p. 106, «Il dolo specifico fonda una tutela autonoma, nel senso che senza di esso il fatto non potrebbe dirsi penalmente rilevante. Così, ad es., il delitto di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) postula che tre o più persone si associno «allo scopo di commettere più delitti»: senza questa particolare finalità, il mero fatto di associarsi costituisce di per sé l’espressione di un diritto costituzionale; nel delitto di aggiotaggio (art. 501 c.p.), la divulgazione di notizie «false, esagerate e tendenziose» deve essere diretta «al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci», in difetto del quale la condotta può risultare di per sé del tutto irrilevante (a meno che essa non acquisti una diversa tipicità in forza di elementi ulteriori: se, ad es., la notizia falsa risulta diffamatoria per la società cui si riferisce)».

  25. Cass. pen., 22 gennaio 2014, n.13966, in dejure-it.ianus.unimc.it.

  26. Cass. pen., 2 dicembre 2004, n. 5407, in dejure-it.ianus.unimc.it.

  27. Art. 13, legge 22 aprile 1941, n. 633, Sulla protezione del diritto d’autore.

  28. E. Nicosia, La confisca, le confische. Funzioni politico-criminali, natura giuridica e problemi ricostruttivo-applicativi, Torino, 2012, p.2, «La generalità dei contributi dottrinali e giurisprudenziali più recenti tende infatti a sottolineare unitamente (e giustamente) come oggi, più che di confisca, debba ormai parlarsi nel contesto italiano (e non solo) di “confische” al plurale: e ciò in quanto l’istituto si è ormai sfaccettato in molteplici figure che hanno in comune il solo fatto di consistere in un atto di sottrazione coattiva di beni al titolare (con contestuale attribuzione definitiva degli stessi allo Stato) in conseguenza della commissione di un reato o comunque dello svolgimento di attività illecita o pericolosa, ma che per altro sarebbero assai diverse le une dalle altre per natura giuridica, funzioni, presupposti, modalità di applicazione, destinatari, oggetto, ambito di applicazione temporale e spaziale».

  29. A. Alessandri, Confisca nel diritto penale, in Dig. disc. pen., Torino, 1989, p. 42 «il provvedimento ablativo dei beni del condannato costituisce una tenace costante del fenomeno punitivo; senza affatto negare la multiforme articolazione che via via essa presenta, risaltano una continuità di fondo ed il collegamento, più o meno immediatamente visibile, con esperienze antitetiche».

  30. Sul punto, R. Isotton, La confisca tra passato e futuro, in Jus, fasc. 3, 2017, p. 208 ss.

  31. Tra gli autori che realizzarono una profonda razionalizzazione del diritto nel XVIII secolo si ricordano Charles-Louise De Secondat, barone di Montesquieu (noto solamente come Montesquieu), Jean-Jacques Rousseau, François-Marie Arouet (noto con lo pseudonimo di Voltaire), Denis Diderot e John Locke.

  32. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, 1987, cap. XXV, Bando e confische. Si veda anche R. ISOTTON, cit., p. 209 ss. «D’altra parte l’idea che la pena non potesse estendersi oltre la persona del colpevole era presente già nella compilazione giustinianea ed era ben conosciuta in seno alla scienza giuridica medievale. I Glossatori ne avevano tenuto conto ed avevano individuato, all’interno del corpus iuris, numerose altre manifestazioni di essa, così come è chiaramente attestato dalla Glossa accursiana. Tuttavia, secondo la nota tendenza all’armonica composizione dei contraria propria della scuola, essi non avevano riscontrato, nella pena della confisca, una contraddizione rispetto a tale principio generale: vi avevano piuttosto ravvisato una fallentia, o più precisamente uno ius speciale derogatorio rispetto alla regula della responsabilità individuale».

  33. A. Macchia, Le diverse forme di confisca: personaggi (ancora) in cerca di autore, in Cassazione penale, 2016, p. 2719.

  34. Previa abrogazione dell’art. 36 contenuto nel codice Zanardelli del 1889.

  35. Cfr. Relazione al progetto definitivo del codice penale, I lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, Roma, 1929, p. 245. Sempre a proposito della qualificazione giuridica della confisca quale misura di sicurezza, si veda M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario sistemico del codice penale, Milano, 2011, p. 607, in cui si ricorda che la confisca sarebbe volta ad impedire che il possesso di cose a vario titolo collegate a un illecito penale “costituisca una scintilla capace di suscitare la pericolosità del reo o, in altre parole, che «dalle cose la pericolosità passi al reo»; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, parte speciale, Bologna, 2001, p. 815 ed anche D. Pulitanò, Diritto penale, Torino, 2011, p. 563, secondo i quali «la confisca ex art. 240 c.p. ha natura di misura di sicurezza».

  36. Cass., sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654, in www.penale.it, secondo cui «Sulla base della tracciata evoluzione normativa, appare assai arduo, oggi, catalogare l’istituto della confisca nel rigido schema della misura di sicurezza, essendo agevole per esempio riconoscere, in quella di valore, i tratti distintivi di una vera e propria sanzione e, in quella “speciale”, una natura ambigua, sospesa tra funzione special-preventiva e vero e proprio intento punitivo. Con il termine “confisca”, in sostanza, aldilà del mero aspetto nominalistico, si identificano misure ablative di natura diversa, a seconda del contesto normativo in cui lo stesso termine viene utilizzato. D’altra parte la stessa Corte Costituzionale, sin dagli anni sessanta (cfr. sentenza 25/5/1961 n. 29 e 4/6/1964 n. 46), avvertiva che “la confisca può presentarsi nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica” e che “il suo contenuto è sempre la privazione di beni economici, ma questa può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varie finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa”, con l’effetto che viene in rilievo non una astratta e generica figura di confisca, ma, in concreto, la confisca così come risulta da una determinata legge».

  37. F. Carrara, Un nuovo delitto, in Opuscoli di diritto criminale, Prato, 1889, vol. IV, p. 522 «Ho già deprecato nei miei scritti quella che io chiamo la nomorrea penale, anatemizzata fin dai tempi di Seneca come pernice della Repubblica. Questa malattia si fece gigante in Francia, ove sotto Napoleone III accrebbe di parecchie centinaia il numero dei fatti a delitto; e in tal guisa familiarizzando il popolo con la giustizia criminale lo demoralizzò ed aiutò i comunardi. Questa malattia minaccia di divenire contagiosa in Italia per lo zelo di alcuni ufficiali ai quali occorre che ai fatti si imponga la veste di delitti per condurli sotto la propria signoria».

  38. A. Martini, Essere pericolosi, giudizi soggettivi e misure personali, Torino, 2017, p.1. Per un approfondimento, si vedano F. Palazzo, Per una razionalizzazione della legislazione complementare, in Cassazione penale, 2003, p.321 ss.; T. Padovani, L’utopia punitiva: il problema delle alternative alla detenzione nella sua dimensione storia, in santannapisa.it, p. 45 ss., p.51 ss., p. 255 ss.; Id., Il crepuscolo della legalità nel processo penale. Riflessioni antistoriche sulle dimensioni processuali della legalità penale, in Ind. Pen., 1999, p. 531 ss.

  39. In merito, si veda E. Nicosia, op.cit., p. 32 ss.

  40. P. Cipolla, Limiti soggettivi alla confiscabilità, in Cassazione penale, 2005, p. 570.

  41. Cass., sez. III, 3 febbraio 2015, n. 4954, in altalex.com.

  42. Cass., sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 31957, in Riv. 255596.

  43. Ad esempio, nei casi di cui agli artt. 240, secondo comma, n. 1, c.p. e 12-sexies l. 356/1992: Cass., sez. II, 25 maggio 2010, n. 32273, in Riv. 248409.

  44. Cass., 4 novembre 2009, n. 49438, in lexambiente.it.

  45. Cass., 5 agosto 2021, n. 30687, in quotidianogiuridico.it.

  46. Sul punto, Cass., sez. V, 15 ottobre 2020, n. 52, in sistemapenale.it «Infatti, nella prospettiva della Corte l’istituto della confisca non può essere ricondotto ad una dimensione unitaria, se non sotto il profilo dell’effetto concreto che la sua applicazione produce, vale a dire la privazione della proprietà di alcuni beni precedentemente parte del patrimonio del reo. Al contrario, i presupposti applicativi e le finalità di volta in volta perseguite dipendono necessariamente dalla disciplina legislativa predisposta per le singole ipotesi di confisca, che possono quindi assumere -alternativamente- natura e funzione di pena, misura di sicurezza, misura giuridica civile o amministrativa. Con la conseguenza, in definitiva, che l’unico principio davvero trasversale alle singole ipotesi in cui si sostanzia lo strumento ablativo può essere individuato nella loro necessaria previsione legislativa».

  47. Cass., sez. un., 30 maggio 2019, n. 40847, in Riv. 276690.

  48. Cass., sez. un., 10 luglio 2008, n. 38834, in sistemapenale.it.

  49. Cass., 25 gennaio 2013, n. 31957; Cass., 13 luglio 2017, n. 53692.

  50. Sul punto M. Comporti, Per una diversa lettura dell’art. 1153 cod. civ. a tutela dei beni culturali, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995, p. 418.

  51. Il brocardo Nemo plus iuris in alium transferre potest, quam ipse habet (spesso espresso con la locuzione Nemo dat quod non habet), esprime il principio di diritto civile secondo cui non si può trasferire ad altri un diritto che non si ha o un diritto più ampio di quello che si ha. La frase risale al giurista romano Domizio ULPIANO e si legge in un brano dei libri Ad edictum, inserito dai compilatori giustinianei nell’ultimo libro del Digesto, dedicato alle regulae iuris (D. 50.17.54).

  52. L. Mengoni, Gli acquisti a non domino, Milano, 1994, p. 379 ss. L’autore, dopo aver svolto la sua attenta analisi, giunge ad affermare l’impossibilità della configurazione di una categoria generale riferita agli acquisti a non domino fondati sulla base dell’unico requisito della buona fede. Egli puntualizza, infatti, che «L’indagine, che qui si conclude, ci ha persuasi che una trattazione unitaria è possibile e utile a patto che non aspiri alla dignità di teoria generale […] La differenza tra gli acquisti immediatamente collegati all’atto negoziale e gli acquisti collegati al possesso resiste ad ogni tentativo (o svalutazione) perché incide profondamente sulla portata e sulla natura stessa della tutela del terzo. I primi prendono regola e misura da un preesistente rapporto di alienazione (viziato) tra dominus e non dominus, oppure (nel caso dell’art. 534) dall’appartenenza di diritto di cui è investito l’alienante: sono soggetti cioè, in linea di massima, ai principi dell’acquisto derivativo, salvo soltanto che l’acquirente, appunto in virtù della tutela della buona fede, non risente gli effetti della vicenda (dichiarazione di simulazione, annullamento) che colpisce, distruggendolo, il titolo del suo autore. I secondi prendono regola e misura esclusivamente dal rapporto di alienazione costituito tra il non dominus e il terzo in base al quale il terzo riceve il possesso, mentre la posizione dell’alienante viene in considerazione soltanto come punto di riferimento per la determinazione dell’oggetto della buona fede: tali acquisti, pur essendo qualificati da un’alienazione, si accostano alla categoria dei modi originari di acquisto».

  53. M.Cenini, Gli acquisti a non domino, Milano, 2009, p.15 ss. “È evidente come l’ammissibilità di un trasferimento di diritti da parte di chi non ne sia titolare contraddice diversi principi cardine del nostro ordinamento. Non solo quello che vede nella circolazione dei diritti un meccanismo di successione lineare in cui un soggetto subentra ad un altro soggetto nella titolarità di un diritto che rimane invariato nella sua consistenza; ma anche con la garanzia costituzionale dettata dall’art. 42 della nostra Suprema Carta, che stabilisce il principio secondo cui la proprietà privata può essere sottratta al suo titolare senza il suo consenso esclusivamente per motivi di interesse generale e solo nei casi previsti dalla legge, e sempre e solo salva la corresponsione di un equo indennizzo. La regola degli acquisti a non domino, al contrario, consente che la titolarità di un diritto passi ad un soggetto terzo senza che vi sia alcuna forma di consenso da parte dell’originario proprietario e senza che vi sia, è inutile dirlo, alcuna causa di pubblica utilità”.

  54. L. Mengoni, op. cit., p. 88. Secondo l’autore l’applicazione dell’art. 1153 cc. «si giustifica con la tutela di un interesse collettivo alla sicurezza ed alla celerità della circolazione soltanto delle cose che, per loro natura, sono destinate a circolare, cosa che si può dubitare valga anche nel caso dei beni culturali. Con riferimento ad essi l’unico interesse destinato a prevalere ci pare essere quello alla protezione del patrimonio culturale».

  55. Per un maggior inquadramento si veda, G. Magri, Beni culturali e acquisto a non domino, in Riv. dir. civ., 2013, pag. 766; F. Squillante, La tutela dell’acquirente a non domino di beni culturali rubati secondo la Convenzione Unidroit, in Riv. dir. int. priv. proc., 1999, p. 120 ss. Altresì, M. Comporti, Per una diversa lettura dell’art. 1153 cod. civ. a tutela dei beni culturali, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995, p. 148 precisa che “è venuto il momento di distinguere, nell’ambito dei beni mobili, i beni culturali che si presentano quale categoria unitaria, avente un particolare statuto e richiedente una attenzione del tutto peculiare da parte del legislatore per una circolazione attenta e limitata alle negoziazioni lecite e regolari.”

  56. Sul punto, si veda P. Perlingieri e P. Femia, Nozioni introduttive e principi fondamentali del diritto civile, 2ª ed., con la collaborazione di L. Tullio, Napoli, 2004. Sempre secondo il Perlingieri, inoltre, lo studio della teoria dei beni “non si deve esaurire nella teoria dei diritti reali né in quella della proprietà. Non è condivisibile l’orientamento che identifica le caratteristiche di ogni bene possibile con quelle dei beni oggetto del diritto di proprietà, sì che le utilità non idonee a costituire oggetto di situazioni proprietarie (o comunque reali), non connotate quindi dall’esclusività, non potrebbero essere beni.”

  57. S. Rodotà , Lo statuto giuridico del bene culturale, in Annali dell’associazione Bianchi Bandinelli, Roma, 1994, p. 15, in cui l’autore identifica i beni culturali come tertium genus rispetto ai beni mobili e immobili.

  58. S. Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964, passim. Secondo l’autore non esiste un’unica proprietà, ma tante proprietà ed eterogenee discipline proprietarie.

  59. F. Longobucco, Beni culturali e conformazione dei rapporti tra privati: quando la proprietà obbliga, in Rivista giuridica dell’edilizia, 2016, p. 529.

  60. F. Longobucco, op.cit., pag. 532 “in vero la riconduzione del bene culturale alla teoria generale dei beni, segnatamente al modello proprietario classico, non può essere assolutizzata. Certamente il bene culturale va studiato dal civilista attraverso gli strumenti tradizionali classici del diritto patrimoniale dei beni (l’appartenenza, il godimento, la disposizione, il controllo), ma occorre parallelamente non perdere di vista che la proprietà – tanto più la proprietà del bene culturale – presenta la funzione ultima di servire alla persona umana e alla società.”

  61. Cass. civ., sez. un., 18 febbraio 2011, n. 3939, in Foro.it.

  62. L’art. 345 TFUE così dispone: «I Trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri».

  63. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 17: «Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale (…).»

  64. G. Magri, Beni culturali e acquisti a non domino, in Riv. dir. civ, 2013, p. 765 ss. «Esempi del primo modello sono il § 935 del BGB o l’art. 2276 del Code Civile, che, dopo aver enunciato al primo alinéa il principio per cui “En fait de meubles, la possession vaut titre”, si affretta a precisare che: “ néanmoins, celui qui a perdu ou auquel il a été volé une chose peut la revendiquer pendant trois ans à compter du jour de la perte ou du vol, contre celui dans les mains duquel il la trouve ». Esempio di un modello che, invece, esclude la tutela dell’acquirente in buona fede è quello inglese ove, in forza della regola del nemo dat quod non habet, il proprietario spossessato prevale sull’acquirente in buona fede. La scelta di eliminare ogni tutela per l’acquirente in buona fede risale al Sale of Goods (Amendment) Act 1994, che al Chapter 32 ha abolito il market overt. La regola del market overt prevedeva che chi avesse acquistato un bene mobile, in buona fede, in un mercato aperto al pubblico e in condizioni di normalità commerciale, poteva far salvo l’acquisto, anche se l’alienante non era dominus e anche se il bene era di provenienza furtiva».

  65. La Convenzione Unidroit sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, è stata firmata a Roma il 24 giugno 1995, ratificata dall’Italia con legge 7 giugno 1999, n. 213 ed è entrata in vigore il 1° luglio 1998.

  66. Convenzione dell’Unidroit sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, art. 4 «1) Il possessore di un bene culturale rubato, che deve restituirlo, ha diritto, al momento della restituzione, al pagamento di un equo indennizzo a condizione che non abbia saputo né avrebbe dovuto ragionevolmente sapere che il bene era stato rubato e che possa provare che ha agito con la dovuta diligenza in occasione dell’acquisto. 2) Fatto salvo il diritto del possessore all’indennizzo di cui al paragrafo precedente, sarà fatto ogni ragionevole sforzo affinché la persona che ha ceduto il bene culturale al possessore o ogni altro cedente anteriore, paghi l’indennizzo quando ciò sia conforme alla legge dello Stato dove la richiesta è presentata. 3) Il pagamento dell’indennizzo al possessore da parte del richiedente, quando richiesto, non pregiudica il diritto del richiedente di rivalersi su ogni altra persona per il rimborso. 4) Al fine di determinare se il possessore abbia agito con la dovuta diligenza, si terranno in conto le circostanze dell’acquisto ed in particolare: la qualità delle parti, il prezzo pagato, la consultazione da parte del possessore di ogni registro ragionevolmente accessibile di beni culturali rubati ed ogni altra informazione e documentazione pertinenti che esso avrebbe ragionevolmente potuto ottenere, nonché la consultazione di organismi ai quali poteva avere accesso o ogni altro passo che una persona ragionevole avrebbe effettuato nelle stesse circostanze. 5) Il possessore non può godere di uno stato più favorevole di quello della persona dalla quale esso ha ricevuto il bene culturale a titolo ereditario, o altrimenti a titolo gratuito.»

  67. F. Squillante, op. cit., p. 122 In merito a siffatta scelta terminologica della Convenzione UNIDROIT, ciò che potrebbe discutersi è l’aver optato per un istituto (la due diligence) che, se ha una definizione ben precisa in alcuni sistemi giuridici, è estranea ad altri ordinamenti. Una terminologia per così dire più “neutra” avrebbe forse meglio messo in evidenza che la Convenzione adotta criteri propri e non desunti dagli ordinamenti degli Stati di common law; ciò avrebbe forse favorito un’adesione senza riserve ai dettami convenzionali da parte dei Paesi di civil law».

  68. Art. 87, Codice dei beni culturali e del paesaggio: «Resta ferma la disciplina dettata dalla Convenzione dell’UNIDROIT sul ritorno internazionale dei beni culturali rubati o illecitamente esportati, adottata a Roma il 24 giugno 1995, e delle relative norme di ratifica ed esecuzione, con riferimento ai beni indicati nell’annesso alla Convenzione medesima».

  69. G. MAGRI, op. cit., p.751.

  70. R. SACCO- R. CATERINA, Il possesso, Milano, 2000, p.480.

  71. Cassazione civile, sez. II, 14 settembre 1999, n. 9782, in Giust. Civ. Mass., 1999, p. 1968

  72. Sul punto, G. Magri, L’acquisto a non domino tra diritto privato italiano e tendenze europee, in Cultura giuridica e diritto vivente, 2020, p. 20 ss.

  73. G. Magri, op. cit., p. 22 «(…) secondo la sentenza il mercante doveva essere considerato in malafede perché il furto del quadro aveva avuto vasta eco sulla stampa e era quindi ragionevole ritenere che la notizia dovesse essere giunta a chiunque si occupasse professionalmente di commercio di opere d’arte».

  74. G. Magri, op. cit., p. 741.

  75. G. Magri, op. cit., p. 17.

  76. Z. Crespi Reghizzi, La tutela dei beni culturali nell’ordinamento internazionale e dell’Unione europea, Convegno di Studi, Macerata, 2018, p. 172.

  77. G. Magri, op. cit., p. 764.

Condividi