Il difetto di autenticità nella vendita di beni di antiquariato: errore o inadempimento

Luca Antonio Caloiaro

Ricercatore di diritto privato dell’Università di Roma Unitelma Sapienza, Ph.D.

Il contributo analizza la questione del difetto di autenticità dei beni d’antiquariato, soffermandosi sui rimedi percorribili.

The paper analyzes the issue of defective authenticity of antiques, focusing on the possibile remedies.

Sommario: 1. Il difetto di autenticità: le norme penali. – 2. Riconoscibilità dell’errore ed affidamento. – 3. La distinzione dell’errore bilaterale dall’errore comune. – 4. Errore ed interesse rilevante. – 5. Errore o inadempimento: la pregiudizialità logica dell’interpretazione del contratto. – 6. Inadempimento: colpa e impossibilità. Aliud pro alio e garanzia per mancanza di qualità.

1. Nella compravendita di beni di antiquariato, l’autenticità della datazione del bene, nella misura in cui giustifica il corrispettivo convenuto, assume sicura rilevanza giuridica, ponendo all’interprete gravi dubbi qualificatori in ordine alla scelta dei rimedi contrattuali invocabili in caso di difetto di autenticità.

Deve preliminarmente segnalarsi che il difetto di autenticità è penalmente sanzionato, potendo configurare il reato di detenzione ai fini di commercio di oggetti di antichità non autentici di cui all’art. 518-quaterdecies, comma 1, n. 2 cod. pen. (reato già previsto dall’abrogato art. 178, comma 1, lett. b), D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), che sanziona la condotta di chi, al fine di farne commercio come autentico, detiene o pone in circolazione l’esemplare contraffatto, alterato o riprodotto dell’opera d’arte, dell’oggetto di antichità o dell’oggetto di interesse storico o archeologico. La condotta penalmente rilevante non richiede che il bene sia oggetto di trasferimento o che sia uscito dalla sfera di disponibilità del titolare [1]. Per tale ragione, occorre subito sgombrare il campo di indagine dallo spettro della nullità. Per un verso, infatti, deve certamente escludersi che la compravendita abbia un oggetto illecito: l’illiceità non può predicarsi con riferimento alla cosa trasferita in sé, ma solo con riferimento ad un’azione umana, qual è – ad esempio – l’atto traslativo di un bene dichiarato incommerciabile per espressa disposizione di una norma imperativa [2]. In secondo luogo, la compravendita di beni di antiquariato non autentici neppure risulta affetta da nullità virtuale per contrarietà a norme imperative (art. 1418, comma 1, c.c.): al riguardo, rileva la nota distinzione [3] tra i cd. «contratti-reato», nulli perché integrano la condotta tipica vietata dalla norma penale [4], ed i cd. «reati in contratto», in relazione ai quali la nullità del contratto è esclusa, non ravvisandosi la diretta collisione con la norma imperativa penale, nella misura in cui quest’ultima vieta e punisce non l’atto negoziale in sé, ma le condotte che hanno portato alla sua stipulazione (ad es., la truffa, art. 640 cod. pen.) [5].

Tuttavia, nei casi descritti, che postulano tutti la consapevolezza della non autenticità del bene da parte del venditore, il mendacio di quest’ultimo sull’autenticità del bene, ove tragga in inganno il compratore, è normalmente idoneo a viziare in maniera determinante il consenso di quest’ultimo, con conseguente annullabilità del contratto per dolo (art. 1439 c.c.).

Nel presente saggio, ci occuperemo, invece, delle ipotesi (maggiormente problematiche) in cui le parti ignoravano il difetto di autenticità del bene, venduto come autentico, scoprendo solo successivamente l’errore o l’incertezza sulla datazione del bene. 

2. I problemi suscitati dall’errore vanno calati nella realtà giuridica in cui li si osserva. L’errore, quale falsa rappresentazione della realtà che ha condotto un contraente a determinarsi alla stipula di un contratto non voluto, implica il sacrificio, la lesione dell’interesse individuale della parte in errore. Ciò fa sorgere un conflitto di tale interesse con quello della controparte: la prima è interessata a caducare il contratto erroneo, la seconda a conservarlo. E così, per quanto l’ordinamento non possa disinteressarsi della fenomenologia dell’errore, costituendo quest’ultimo la più naturale espressione della fallibilità umana, è pur vero che un ordinamento giuridico moderno deve tendere alla stabilità e alla certezza dei rapporti. 

Il legislatore attribuisce, come noto, rilevanza invalidante solo all’errore essenziale e riconoscibile dall’altro contraente (art. 1428, cod. civ.). 

Nell’essenzialità si scorge quale preminente, ma non esclusivo, oggetto di valutazione l’interesse dell’errante. Il giudizio di essenzialità si snoda lungo due direttive: la realtà su cui cade l’errore e la sua efficienza determinante del consenso. Con riferimento all’errore relativo all’autenticità della datazione di un bene di antiquariato, non sussistono dubbi in merito all’essenzialità di tale errore, trattandosi senz’altro di qualità dell’oggetto determinante del consenso dell’errante (art. 1429, n. 2, cod. civ.).

Nella riconoscibilità dell’errore, da valutare alla stregua di una persona di normale diligenza [6] (art. 1431 cod. civ.), emerge, invece, la tutela dell’affidamento dell’altro contraente, destinatario di una dichiarazione erronea. La questione si complica, come a breve vedremo, in caso di errore sull’autenticità, trattandosi normalmente di un errore bilaterale, nel quale, cioè, cadono entrambi i contraenti, convinti dell’autenticità del bene, facendo sorgere l’interrogativo circa la meritevolezza di tutela dell’affidamento di chi sia caduto nel medesimo errore invocato dalla parte interessata all’annullamento.

Il legame indissolubile tra affidamento e requisito della riconoscibilità è, infatti, pacifico; a prima vista, parrebbe allora una conclusione solida ritenere che al mancare del primo possa farsi a meno dell’altro.

Così, è stato autorevolmente sostenuto che, qualora manchi l’affidamento perché in concreto l’errore sia stato riconosciuto dal destinatario della dichiarazione, non sia richiesto il requisito della riconoscibilità dell’errore ai fini dell’annullamento del contratto [7].

E parimenti si è ritenuto, qualora entrambi i contraenti partecipino dello stesso errore (cd. errore bilaterale), che venga meno quell’esigenza di protezione dell’affidamento, alla quale la previsione del requisito della riconoscibilità si ispira, in quanto ciascun contraente dichiara per effetto del proprio errore e non di quello altrui [8] (ampliusinfra).

La questione, in dottrina, non è affatto pacifica come potrebbe sembrare da questi rapidi cenni. Il principio di fondo che ispira gli orientamenti descritti è la tutela del cd. affidamento in concreto, che assume quale punto di osservazione la particolare posizione dello specifico contraente che ha stipulato il contratto [9], da valutare alla stregua della diligenza concretamente richiesta al contraente.

In senso opposto, si è però evidenziato che il legislatore, prescrivendo la riconoscibilità, non intende affatto tutelare l’affidamento che in concreto la dichiarazione dell’errante generi in quel determinato contraente, bensì intende tutelare l’affidamento che la dichiarazione stessa possa generare in un tipo astratto di contraente di normale diligenza, non legato a situazioni soggettive concrete e specifiche di conoscenza o di errore [10]. I principali corollari di quest’ultimo orientamento possono essere individuati, da un lato, nell’irrilevanza di un errore effettivamente riconosciuto ma non riconoscibile in astratto e, dall’altro, nell’affermazione della necessità di valutare l’astratta riconoscibilità dell’errore anche in caso di errore bilaterale, che, a prescindere dalla circostanza che vi siano cadute entrambe le parti, potrebbe (in astratto) considerarsi riconoscibile.

In realtà, per quanto si riveli necessaria la guida dei principi ispiratori della materia, sembra che a meritare prevalente attenzione non sia tanto l’oggetto della tutela legislativa (l’affidamento in concreto o in astratto), quanto il modo della tutela, che è definito con sufficiente chiarezza dal legislatore [11]. A tal fine, la legge richiede un giudizio di riconoscibilità dell’errore (art. 1431 cod. civ.) ed è proprio ad esso che sembra opportuno volgere lo sguardo.

Il concetto di riconoscibilità esprime una valutazione in termini di possibilità di conoscenza [12]. Il punto è stato criticato in forza del rilievo secondo cui la conoscenza, essendo un fatto eminentemente soggettivo e spirituale, necessita di essere ulteriormente estrinsecata. In tale prospettiva la riconoscibilità indicherebbe una qualità oggettiva dell’errore, cioè un fatto esteriore per mezzo del quale l’errore rileva nella realtà giuridica [13]. Tuttavia, così opinando, si sostituisce la riconoscibilità con una specie di oggettiva apparenza, collocando l’errore in un àmbito che non gli appartiene [14]. Infatti, l’errore denota un fenomeno soggettivo; se ci si sposta su un piano oggettivo, si invade il campo dell’apparenza [15]

Intesa la riconoscibilità come possibilità di conoscenza, occorre definirne puntualmente l’oggetto, avuto riguardo al generico riferimento all’errore (che «si considera riconoscibile») contenuto nell’art. 1431, cod. civ. Sul punto si dubita se l’onere imposto al contraente di normale diligenza si limiti alla conoscenza (dunque, alla condivisione) della mera rappresentazione erronea oppure si spinga sino alla necessità di accertare la falsità di tale rappresentazione, la quale postula anche una comparazione tra l’erronea rappresentazione altrui e la realtà per come realmente appare. Accogliendo la prima soluzione, si è tratto il corollario che l’errore bilaterale sia sempre un errore riconosciuto, per il quale non si pone l’esigenza di riconoscibilità, essendo questa superata dall’effettivo riconoscimento [16]. Piuttosto, sembra doversi propendere per la seconda soluzione [17]. Si è, infatti, osservato che «per quel che concerne la riconoscibilità, non basta che, per la parte che abbia interesse ad opporsi all’annullamento, fosse riconoscibile il presupposto dal quale l’altro contraente è partito (ora, questo presupposto è non solo riconoscibile, ma effettivamente conosciuto, al punto da essere anzi condiviso), bensì occorre anche che fosse riconoscibile la divergenza fra questo presupposto e la realtà» [18]. In tale ordine di idee sembra porsi la giurisprudenza, nel momento in cui afferma costantemente, da circa un settantennio, che la riconoscibilità postula l’unilateralità dell’errore [19]. Infatti, solo il contraente non in errore ‒ che abbia la corretta percezione della realtà fenomenica ‒ può riconoscere la falsità dell’altrui rappresentazione.

Così individuato il concetto di riconoscibilità, è ora possibile apprezzare analiticamente la struttura di tale giudizio, al fine di determinare se occorra aver riguardo ad un modello di contraente ipotetico oppure alla specifica controparte contrattuale. 

La valutazione di riconoscibilità comprende, da un lato, la ricostruzione della situazione contrattuale, dall’altro, un giudizio sulla sua forza di rivelare l’errore a una persona di normale diligenza.

La prima fase si incentra sull’apprezzamento dei tre elementi individuati dall’art. 1431, cod. civ.: il contenuto, le circostanze del contratto ovvero la qualità dei contraenti. In tale fase, non può dubitarsi che si assuma la prospettiva dell’altro contraente, in quanto solo «i soggetti fra i quali è insorto quel complesso di relazioni intersoggettive» [20]possono offrire gli elementi richiesti dall’art. 1431, cod. civ., necessari al giudizio di riconoscibilità. 

Così fissato tale imprescindibile momento di concretezza, è ben vero che la riconoscibilità, intesa quale idoneità della situazione contrattuale a rivelare l’errore ad una persona di normale diligenza, non può che misurarsi in astratto, in quanto misurabili in concreto sono solo l’effettivo riconoscimento o il mancato riconoscimento dell’errore [21]

Stando così le cose, può ben comprendersi come il giudizio di riconoscibilità assuma connotati oggettivi nel riferimento alla persona di normale diligenza contenuto nello stesso art. 1431, cod. civ., pur rimanendo ancorato alla concretezza della situazione contrattuale. Insomma, come è stato efficacemente affermato [22], la riconoscibilità costituisce un criterio oggettivo ponderato.

Proprio alla luce di tali considerazioni, deve apprezzarsi il rilievo dell’errore riconosciuto. In tal caso, non si tratta di procedere al bilanciamento dei contrapposti interessi scaturenti dall’errore (che rimane un fatto psichico involontario dell’errante), bensì di valutare il comportamento omissivo del non errante nell’ambito del giudizio di riconoscibilità. Infatti, il riconoscimento dell’errore, se non è comunicato all’altra parte, costituisce una reticenza sanzionata dall’art. 1337, cod. civ. [23], che accompagna la conclusione del contratto ed integra una «circostanza» del contratto decisiva ai fini del giudizio di riconoscibilità. Ciò implica che il riconoscimento dell’errore sia, per definizione, una circostanza idonea a rivelarne la riconoscibilità ad un contraente di normale diligenza (art. 1431 cod. civ.) [24].

3. L’errore bilaterale, come anticipato, si caratterizza per l’identità dell’oggetto su cui cade l’errore dei contraenti. La coincidenza dell’oggetto non toglie che si tratti di due fatti psichici riconducibili a due distinte sfere soggettive [25]. Tale fenomeno psicologico sarebbe privo di interesse per la scienza giuridica se non si ritenesse, con varietà di argomentazioni, che in caso di errore bilaterale non si debba procedere ad accertare il requisito della riconoscibilità dell’errore [26]. Il principio è stato, di recente, affermato anche con riferimento ad una compravendita di beni di antiquariato, venduti nel convincimento comune della loro autenticità e successivamente rivelatisi non autentici [27].

La più nota argomentazione (già riferita supra, § 2) è quella secondo cui in caso di errore bilaterale venga meno l’esigenza della tutela dell’affidamento, alla quale la riconoscibilità si ispira [28]. A tale considerazione, si è però acutamente obiettato che un affidamento «nella specie è sicuramente  sorto nella controparte, la quale, proprio perché ha condiviso l’errore, non ha potuto nutrire alcun dubbio sulla validità della dichiarazione ricevuta» [29].

Ancòra, si è detto [30] che la controparte che condivide l’errore non può, secondo buona fede, eccepire di non averlo potuto riconoscere nell’altra parte, non potendo richiedere all’altra parte «una stregua di valutazione diversa da quella che adopra per sé», per il fatto stesso di condividerlo deve ammetterne la plausibilità. Tuttavia, opporsi all’annullamento del contratto in caso di errore bilaterale non sembra possa configurare una sorta di venire contra factum proprium; invero, se l’oggetto dell’errore è identico, diverse sono le sfere soggettive cui l’errore accede e gli interessi da esso incisi. Di talché, una differente «stregua di valutazione» deriva proprio dalla diversità degli interessi delle parti relativi alla realtà oggetto di errore.

Muovendo proprio da quest’ultimo dato, nell’àmbito di una costruzione teorica di respiro più generale incentrata sull’analisi dei fatti intersoggettivi che afferiscono al contratto (quali il comune intento o l’accordo inteso come comune dichiarazione), si è proposta la apprezzabile distinzione tra errore bilaterale ed errore comune [31]. Quest’ultimo non rappresenta la somma di due errori individuali, ma un evento intersoggettivo diverso da quello previsto negli artt. 1428 ss., in quanto cade sulla realtà che dà vita al conflitto di interessi che si vuole regolare con il contratto, una realtà determinante del consenso di entrambe le parti. Dalla diversità del fenomeno discende l’impossibilità di applicare le norme sull’errore ed, in particolare, la regola di riconoscibilità. Qualora, invece, l’errore sullo stesso oggetto sia determinante del consenso di una sola delle parti, si configura un mero errore bilaterale, nel quale si annida un solo errore (individuale) avente rilevanza invalidante ed al quale si dovranno applicare le disposizioni degli artt. 1428 ss., inclusa la riconoscibilità [32]. La riferita opinione muove da una constatazione senza dubbio esatta: l’errore comune non partecipa della natura dell’errore bilaterale, il quale si risolve in una somma di errori individuali.

Diviene, allora, alquanto dubbio che all’errore comune possa applicarsi la disciplina dell’errore nel contratto (artt. 1428 ss. cod. civ.). L’ulteriore sviluppo della teoria dell’errore comune, infatti, procede con l’articolazione di una summa divisio: l’errore comune che cade sull’indicazione della cosa (il quale si risolve in un problema di interpretazione della comune intenzione, con conseguente rettifica) e l’errore comune che cade sull’identificazione della cosa o della persona e sulle qualità dell’una e dell’altra. In tale secondo caso, si configura un motivo erroneo comune alle parti e determinante del consenso che si inserisce nel fenomeno della falsa presupposizione [33]. A ben vedere, sembra che anche l’errore comune sull’identificazione della cosa si risolva in un problema di interpretazione dell’intento comune, mentre l’errore comune sull’identificazione della persona appare inconfigurabile. Il contraente non può ingannarsi sulla propria identità personale, il che, peraltro, è la riprova che il legislatore, nel dettare la disciplina dell’errore, ha avuto riguardo precipuamente all’errore individuale. Pertanto, se si considera, da un lato, che al di fuori delle realtà elencate dall’art. 1429, cod. civ., l’errore comune è assorbito dalla presupposizione ‒ la quale, più che un problema di errore (che, seppur comune, cadrebbe sul motivo), pone semmai un problema di sopravvenienza (con i notevoli dubbi che circondano il se ed il come salvaguardare l’equilibrio economico del contratto)  ‒ e che, dall’altro, nell’ambito della suddetta elencazione la rilevanza dell’errore comune è limitata al solo errore comune sulle qualità, allora sembra che lo spazio concettuale da assegnare all’errore comune divenga alquanto angusto. Il che pare legittimare la possibilità di ricorrere ad altri criteri e categorie, diverse dall’errore.

4. Con riferimento alla patologia del contratto, non rileva stabilire quando sussista l’errore in sé, ma quando l’errore sia preso in considerazione dall’ordinamento giuridico nella misura in cui comporti il sacrificio di un interesse meritevole di tutela. D’altronde, “i vizi” o le anomalie, tanto genetiche quanto funzionali, del contratto altro non sono che figure tipizzate di lesione di un interesse giuridicamente rilevante [34]

Al riguardo può considerarsi il seguente dato. La clausola contrattuale che preveda un oggetto impossibile è molto probabilmente il frutto di un errore delle parti; tuttavia, l’ordinamento si disinteressa di quest’ultimo ricollegando la nullità non al supposto errore, ma all’impossibilità dell’oggetto[35]. Questo giustifica che l’errore in sé, quand’anche fosse astrattamente essenziale ‒ in quanto cade sull’oggetto del contratto ‒ non invalida a priori la dichiarazione contrattuale. Pertanto, affermare che in caso di errore bilaterale «ciascuno dei due contraenti ha dato causa all’invalidità del negozio indipendentemente dall’altro», come ritiene tralatiziamente la giurisprudenza [36], significa ammettere che l’errore renda invalida la dichiarazione contrattuale di per sé. Il che è il frutto di un preconcetto giuridico che non trova alcuna conferma nella disciplina normativa.

Peraltro, vi è una rilevante serie di ipotesi normative in cui l’errore rimane sullo sfondo della diversa fattispecie rilevante. Si può pensare, a titolo esemplificativo, al difetto di veridicità del riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio (art. 263, cod. civ.), all’omissione di beni ereditari o alla lesione ultra quartum nella divisione ereditaria (artt. 762 e 763, cod. civ.), al difetto di alea nel contratto aleatorio (artt. 1876 e 1895, cod. civ.), ai vizi della cosa venduta ignorati dal venditore il quale la dichiara esente da vizi (artt. 1490 e 1491, cod. civ.), alla sopravvenienza.

Alla luce di ciò, deve ritenersi che l’errore rilevante sia solo quello lesivo dell’interesse preso in considerazione dall’ordinamento. Nella individuazione di tale interesse, risultano essenziali le norme degli artt. 1428 ss., cod. civ., ma non meno indispensabile è la norma che istituisce il rimedio, l’art. 1441, cod. civ., a tenore del quale l’annullamento può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge. Non può dubitarsi che tale interesse sia quello individuale di uno dei contraenti contrapposto a quello della controparte. La conferma di ciò si trova proprio nell’intera disciplina codicistica dell’errore, la quale è volta proprio alla composizione di tale conflitto di interessi. 

Pertanto, dall’analisi del concetto di errore comune (cfr. supra § 2), si ricava che il problema è comprendere se in tale tipologia di errore, proprio facendo leva sul suo carattere determinante del consenso di entrambe le parti, non si annidi piuttosto un fenomeno rilevante in forza di altri principi e di altre disposizioni normative [37]. Diversamente, l’errore comune degrada a mera sommatoria di errori individuali.

Nel caso dell’errore-vizio bilaterale incidente su qualità determinanti si tratta, al fondo, di attribuire il giusto rilievo all’interesse che anima la disposizione, che altro non è che un motivo. Tale profilo era stato già individuato da quella dottrina che, proprio in caso di errore bilaterale sulle qualità della cosa, distingue se la qualità sia determinante o meno del consenso di entrambe le parti [38].

Nell’ipotesi in cui la qualità sia determinante del consenso di una sola delle parti, tale dottrina suggerisce di mutare l’oggetto del giudizio di riconoscibilità: non più la falsità dell’altrui rappresentazione (cfr. supra § 1), ma l’efficienza determinante della qualità del bene sul consenso dell’errante. Tuttavia, in tal caso sembra più consono ritenere che la valutazione individuale della qualità del bene, effettuata dal contraente caduto in errore, resti nell’àmbito dei motivi individuali, come tali giuridicamente irrilevanti, senza assurgere ad oggetto di un onere di conoscenza gravante sull’altra parte, attesa l’insondabilità dell’altrui psiche.

A ben vedere, se si condivide il dato per cui l’errore costituisce un fenomeno essenzialmente soggettivo, che comporta la lesione dell’interesse individuale di uno dei contraenti e che pone, dunque, un problema di bilanciamento di tale interesse con l’interesse in conflitto della controparte, allora deve ritenersi che, nell’ipotesi in cui l’errore implichi l’inattuabilità dell’interesse comune o condiviso, si versi al di fuori del fenomeno regolato dagli artt. 1428 ss., cod. civ., non potendosi invocare la relativa disciplina (né, dunque, l’annullabilità del contratto).

Pertanto, la rilevanza patologica dell’errore comune o condiviso può emergere nell’àmbito di due diverse prospettive: da un lato, esso potrebbe ritenersi assorbito nell’inattuabilità dell’assetto di interessi programmato che all’errore stesso consegue, col gravoso problema di individuarne il trattamento giuridico; dall’altro lato, può essere degradato a mera sommatoria di errori individuali e, solo in questo modo, potrebbe rilevare nell’ambito della disciplina codicistica dell’errore (su tale seconda prospettiva, infra § 5).

Nell’àmbito della prima prospettiva segnalata, la qualità e l’errore sulla qualità rileverebbero quale motivo comune (determinante del consenso di entrambe le parti) o motivo condiviso del contratto (determinante del consenso di una sola delle parti ma noto alla controparte). La comunanza o la condivisione dell’interesse sotteso al motivo lo obiettivizza, ascrivendolo così agli interessi che il contratto è volto a realizzare e concorrendo, quindi, ad integrarne la causa. 

Ebbene, affinché l’inattuabilità dell’interesse condiviso o comune possa assumere rilevanza patologica sul piano della funzione in concreto del contratto, occorre che la causa possa dirsi propriamente mancante, con le ovvie conseguenze in punto di nullità [39]. Ciò sembra possa verificarsi solo allorquando, a seguito della valutazione teleologica dell’assetto di interessi contrattuali, divenga inattuabile il nucleo essenziale degli interessi che giustifica le disposizioni patrimoniali, al punto da dover ritenere irrimediabilmente compromessa l’utilità del programma negoziale. In siffatta ipotesi, il contratto diviene sostanzialmente inutile, cioè privo di alcuna ragione giustificatrice. Tuttavia, un tale esito deve certamente escludersi allorché il bene, sia pure privo delle essenziali qualità che ne giustificano il concreto scambio (come nel caso di un bene di antiquariato o di un’opera d’arte non autentici), sia comunque funzionale alla sua destinazione economica caratteristica (ad es., ornamentale o di arredo) in quanto bene, cioè cosa che possa formare oggetto di diritti (art. 810 c.c.).

Rimanendo nell’ambito della prima prospettiva, che vede l’errore comune o condiviso assorbito nell’inattuabilità del programma negoziale, potrebbe avanzarsi l’idea che quest’ultima si rifletta, piuttosto che sulla causa, sull’impossibilità dell’oggetto del contratto. Ciò chiaramente dipende dalla latitudine che si attribuisce a quest’ultimo (questione notoriamente controversa, che esula dai limiti della presente trattazione) e dalla definizione del punto di incidenza del giudizio di possibilità [40].

Ad ogni modo, quali che siano le idee al riguardo, sembra preferibile ritenere che il giudizio di possibilità relativo all’oggetto debba essere formulato allo stesso modo in cui è stato apprezzato dalle parti, risultando chiaro che si tratta di un giudizio intrinsecamente limitato dai dati conoscitivi nella disponibilità delle parti stesse. La conoscenza che le parti possono avere della realtà è una nota ineliminabile del giudizio di possibilità, costituendone l’imprescindibile premessa di fatto. In tale circostanza il giudice non può sostituire la propria conoscenza a quella delle parti; diversamente, verrebbe frustrata la stessa ragione del riconoscimento dell’autonomia privata. In sostanza, l’attribuzione di un quadro ad un certo autore o di un bene di antiquariato ad una certa epoca, a prescindere dalla veridicità di tale attribuzione, rientra sicuramente nel campo dell’astratta possibilità. 

D’altro canto, si è autorevolmente precisato che «la dichiarazione negoziale diretta ad una prestazione impossibile non è in sé contraddittoria, quando la prestazione è soggettivamente considerata come possibile. La contraddizione è soltanto estrinseca, verte fra la volontà di obbligarsi e l’effetto giuridico obbligatorio, e perciò non interessa il problema dell’esistenza del negozio, ma piuttosto il problema delle sue conseguenze giuridiche» [41].

Allora, non essendo certamente percorribile la nullità per impossibilità dell’oggetto, diviene necessario vagliare la seconda prospettiva cui prima si accennava: la degradazione dell’errore comune a mera sommatoria di errori individuali, ai sensi degli artt. 1428 ss., cod. civ.

5. La qualificazione in termini di errore individuale dell’errore comune sull’autenticità del bene venduto si rivela problematica, in quanto il difetto di autenticità può rilevare non solo sul piano genetico dell’atto, quale errore individuale, ma altresì sul piano funzionale della sua inesatta attuazione, quale inadempimento (in senso lato, comprensivo della mancanza delle qualità promesse) [42].

Giova, infatti, considerare che, sia in caso di errore (individuale) sull’oggetto della prestazione sia in caso di inadempimento, si realizza l’insoddisfazione del medesimo interesse, l’interesse verso un determinato oggetto (un bene di antiquariato, un’opera d’arte, etc). Allora il discrimine tra le due figure va trovato in ciò: è necessario stabilire se tale interesse sia entrato o meno nell’assetto di interessi che il contratto è volto a realizzare. Il che pone null’altro che una questione di interpretazione del contratto.

Ora, solo se, all’esito dell’indagine sull’intento comune delle parti, l’interesse a quel dato bene della vita risulta estraneo al riferito assetto, si può configurare un’ipotesi di errore, cioè di rilevanza del motivo che ha indotto a contrarre. Ciò risulta evidente nella misura in cui si ritenga che l’errore nel contratto, quale falsa rappresentazione della realtà, determini una discrasia tra l’interesse reale perseguito dall’errante e l’interesse regolato dal contratto [43]. In tale ottica, l’accertamento dell’errore presuppone l’accertamento dell’intento dei contraenti: infatti, solo una volta che si è ricostruita in via interpretativa la portata effettiva del regolamento contrattuale e si è in tal modo appurato l’interesse da esso regolato, è possibile risalire all’errore, o meglio al divergente interesse perseguito dal soggetto caduto in errore, il quale è indice di un vizio del consenso (ad es., l’acquisto di un oggetto dorato e venduto come tale, nell’erronea credenza del compratore che sia d’oro). È, allora, evidente che l’interesse reale dell’errante, proprio a causa dell’errore, rimane estraneo all’assetto di interessi regolato dal contratto, essendo “intrappolato” nella sfera psichica dell’errante.

Ebbene, là dove non si riscontri la riferita discrasia tra interesse reale e interesse regolato, in quanto le parti hanno previsto nel regolamento pattizio esattamente ciò che si sono intimamente rappresentate (con assoluta conformità della dichiarazione comune all’intento delle parti), un errore giuridicamente rilevante come vizio del consenso è inconfigurabile: l’intento di vendere un bene come autentico non è inficiato dalle pregresse, fallaci operazioni materiali di accertamento dell’autenticità compiute dal venditore o dalla catena di venditori o esperti che lo hanno preceduto. In altri termini, se la reale portata dell’intento perseguito dai contraenti (compravendere un bene autentico, tale – peraltro – da giustificarne il più elevato corrispettivo rispetto ad un qualsiasi altro bene della medesima categoria merceologica) è correttamente riprodotta nel contenuto della dichiarazione contrattuale comune, non può mai porsi un problema di errore che vizia il consenso, nel caso in cui il bene si riveli successivamente non autentico.

Esclusa la sussistenza di un errore-vizio, non può dubitarsi che l’interesse a quel dato bene della vita sia entrato nell’assetto di interessi che il contratto è volto a realizzare (essendo ben individuato l’oggetto della prestazione e le sue qualità) e, quindi, che la sua lesione possa rilevare solo sul piano dell’esecuzione del contratto. In tal caso, si fronteggiano due prospettive di emersione giuridica di tale interesse.

Da un lato, potrebbe sostenersi che dal contratto sia sorto un diritto relativo ad una prestazione avente ad oggetto quel determinato bene della vita (comprensivo, quindi, delle qualità della cosa), la cui insoddisfazione rilevi sul piano del mancato o inesatto adempimento. 

Dall’altro, potrebbe ritenersi che «le qualità promesse o le qualità indispensabili per l’uso della cosa tanto poco possono formare oggetto di obbligazione quanto le qualità attinenti alla sfera dei vizi, definiti dall’art. 1490», al fine di sostenere che il difetto di qualità, al pari dei vizi, sia propriamente da ricondurre nell’ambito dell’istituto della garanzia [44].

Stando così le cose, resta da verificare la lesione di siffatto interesse nell’ambito della realtà esecutiva del contratto.

6. Al fine di inquadrare correttamente il difetto di autenticità nell’inattuazione del contratto, occorre distinguere l’opinione secondo cui le qualità del bene possono costituire un profilo della prestazione dovuta, siano cioè dedotte in obligatione,  dall’opinione che ritiene le qualità estranee all’oggetto dell’obbligazione.

Nel primo caso, la mancanza di qualità costituirebbe un’ipotesi di inesatto adempimento di un’obbligazione [45]. In quest’ottica, allora, secondo quanto dispone l’art. 1218, cod. civ., una volta stabilita la sussistenza di un inadempimento in forza di un giudizio volto ad accertare la difformità tra quanto dovuto e quanto adempiuto, la responsabilità debitoria è esclusa solo se il debitore provi l’impossibilità della prestazione [46] derivante da causa non imputabile al debitore [47]

Ma se, come detto, si accede all’idea per cui la qualità è dedotta in obligatione, in caso di difetto di autenticità del bene, deve necessariamente ritenersi impossibile l’adempimento [48] della prestazione pattuita, non essendo sufficiente – al fine di un’esatta esecuzione – la consegna materiale del bene fisicamente individuato. Rimane, così, da accertare la causa dell’impossibilità e l’imputabilità della stessa al debitore. Qui si apre un’alternativa, a seconda che il difetto di autenticità possa considerarsi riconoscibile dal venditore, alla stregua dell’ordinaria diligenza, oppure discenda dall’assoluta incertezza sull’autenticità del bene [49]. Nel secondo caso, l’impossibilità sembra, effettivamente, derivare dall’intrinseca natura del bene di antiquariato oggetto di scambio, cioè dall’inaccertabilità della datazione, la quale impedisce di poterlo considerare autentico. L’inaccertabilità può, infatti, ritenersi discendere dalla natura della cosa, che, alla pari del fortuito e della forza maggiore, rientra tra le cause di non imputabilità che esonerano il debitore da responsabilità [50] (se ne trova, del resto, conferma normativa in relazione alla responsabilità dettata con riguardo al contratto di trasporto, di deposito alberghiero e presso i magazzini generali: cfr. artt. 1693, 1785 e 1787, cod. civ.).

Tuttavia, a tal punto, si profila un ostacolo di ordine logico. Se nell’inaccertabilità della datazione si individua la causa dell’impossibilità di adempiere, allora, essendo la cosa originariamente sprovvista delle qualità presupposte dalle parti, si configura un’ipotesi di impossibilità originaria della prestazione, tale da rendere nullo il contratto o, quanto meno, inutile il ricorso al concetto di obbligazione (a pena, cioè, di concepire un’obbligazione impossibile da adempiere) [51].

In altri termini, si pone il problema di «tenere ferma l’efficacia della dichiarazione del venditore anche quando, non esistendo un oggetto appartenente al genere venduto, il quale sia munito delle qualità dichiarate, l’oggetto della vendita sia impossibile. Questo risultato, più o meno conciliabile con l’insegnamento di scuola sull’oggetto del contratto e dell’obbligazione, si ottiene utilizzando la figura della “garanzia”» [52].

Ciò posto, muovendo dalla prospettiva per cui «la forma degli effetti negoziali, ossia il modo del trattamento giuridico del negozio è sottratta alla competenza dispositiva dell’autonomia privata e rimessa alla competenza esclusiva dell’ordinamento giuridico, non sussiste una logica necessità di dedurre dal principio “impossibilium nulla obligatio” la nullità del contratto rivolto a una prestazione impossibile. Il legislatore può invece considerare valido il negozio per farne derivare un rapporto di garanzia che prenderà il posto della mancata obbligazione» [53].

Così, se si accede all’idea per cui la qualità pattuita non entra nell’oggetto dell’obbligazione, pur ascrivendosi egualmente all’assetto di interessi che il contratto è volto a realizzare, il difetto di qualità può rilevare sul piano della garanzia, in virtù del rilievo secondo cui «la qualità non si dà, ma si promette, si garantisce» [54].

Invero, l’istituto della garanzia è esplicitamente previsto per i vizi della cosa venduta (artt. 1476, n. 3, e 1490, c.c.) e ad esso è ricondotta in via esegetica l’ipotesi della mancanza di qualità (art. 1497, cod. civ., ove si parla di “risoluzione per inadempimento”) [55]; tuttavia, rimane quanto meno dubbia la percorribilità della garanzia nel caso di difetto di autenticità di un bene di antiquariato o di un’opera d’arte. 

Infatti, sebbene non possa naturalisticamente dubitarsi che «oggetto dell’obbligazione di consegnare, assunta dal venditore (art. 1476, n.1, cod. civ.), è la cosa, non la qualità, poiché dare è concepibile solo se riferito a cosa, e qualità non è cosa, ma suo attributo, suo modo di essere» [56], il problema sorge allorquando la mancanza di qualità è talmente rilevante da determinare una consegna di aliud pro alio, cioè una notevole difformità tra quanto contrattualmente programmato e quanto materialmente prestato, al punto da rendere radicalmente ineseguito il programma negoziale [57]. Questa è, d’altronde, la apprezzabile tendenza giurisprudenziale in materia di vendite di opere d’arte rivelatisi non autentiche [58], mossa dall’evidente fine di espandere la tutela dell’acquirente, svincolandolo dagli stringenti termini di decadenza e prescrizione propri della garanzia per vizi (art. 1495 c.c.).

Ebbene, per quanto tale tendenza sia stata accusata di condurre all’edificazione di un «sistema scientificamente e concettualmente poco rigoroso» [59], essa costituisce una sintomatica espressione del fatto che nelle vendite di opere d’arte o d’antiquariato non si realizza il mero scambio di una res, venendo anche in considerazione l’attitudine della cosa a soddisfare un interesse che incide sul corrispettivo dovuto e che emerge obiettivamente dal regolamento contrattuale. E tale dato appare sufficiente per un adeguamento delle categorie e dei rimedi disponibili. In altri termini, avendo ritenuto il contratto valido, la tutela del contraente insoddisfatto può essere apprestata solo mediante la risoluzione per inadempimento, purché essa venga rimodulata nei suoi presupposti.

L’art. 1453, cod. civ., è norma che istituisce un rimedio volto a salvaguardare l’equilibrio sinallagmatico dei contratti corrispettivi a seguito di un evento che incide sulla sua funzionalità. Sulla scorta di tale rilievo deve, ora, valutarsi la portata del concetto di inadempimento contrattuale, al fine di precisare l’ambito di applicazione del rimedio. 

Sul punto, rileva stabilire se si tratti esclusivamente dell’inadempimento di un’obbligazione ex contractu (come richiede testualmente la norma) oppure se sia concepibile un concetto più lato di “inadempimento del contratto”, che prescinda dall’efficacia obbligatoria di quest’ultimo. 

In quest’ultima prospettiva, l’inadempimento contrattuale potrebbe estendersi sino ad indicare ogni difformità tra quanto convenuto e quanto materialmente prestato: cioè esso non alluderebbe alla violazione di un dovere giuridico, ma ad una inattuazione del programma contrattuale che comporta la frustrazione dell’assetto di interessi corrispettivo programmato.

In virtù di ciò, ai fini della pronuncia di risoluzione ex art. 1453 c.c. per aliud pro alio, in caso di difetto di autenticità non ha alcun senso porsi la questione dell’imputabilità [60] della mancanza di qualità della cosa venduta, poiché, non trattandosi dell’inadempimento di un’obbligazione, non si ricade certamente nella sfera di applicazione dell’art. 1218, cod. civ. [61], venendo in rilievo la sola difformità di non scarsa importanza (art. 1455 c.c.), tale da pregiudicare l’attuazione dell’assetto corrispettivo divisato dai contraenti.


[1] Cfr. Cass. pen., 13 settembre 2022, n. 42930, in OneLegale.

[2] La nullità per illiceità dell’oggetto è espressamente esclusa dalla giurisprudenza. Cfr., con riferimento ad un’opera d’arte non autentica, Cass., 9 novembre 2012, n. 19509, in Corriere Giur., 2013, 4, p. 463, con nota di E. Gabrielli, così massimata: «La prescrizione di liceità dell’oggetto, di cui all’art. 1346 c.c. va riferita alla “prestazione”, cioè all’oggetto immediato del contratto, e va identificata avuto riguardo al singolo atto di autonomia posto in essere dai privati. Ne segue che l’oggetto è illecito se la legge (ovvero una norma imperativa o una norma desumibile dai principi dell’ordine pubblico o del buon costume) esclude: a) che il bene individuato dalle parti possa far parte dello specifico contratto posto in essere; b) che il bene di che trattasi possa costituire oggetto di commercio» (nel caso di specie la Corte ha ritenuto che un dipinto, poi rivelatosi falso, non potesse configurare un oggetto illecito della compravendita, escludendo pertanto la nullità del relativo contratto).

[3] La distinzione tra contratto-reato e reati in contratto è, di recente, ripercorsa ed esaminata criticamente, con riferimento all’estorsione (art. 629 cod. pen.) da F. Lazzara, Consenso estorto tra nullità ed annullabilità del contratto, in Nuova giur. civ. comm., 2023, p. 25 ss., nella nota di commento a Cass. civ., II sez., ord., 31 maggio 2022, n. 17568, la quale ha sancito la nullità virtuale del contratto estorto, cassando la pronuncia di merito che aveva ritenuto il contratto annullabile per violenza morale.

[4] La nullità per contrarietà a norma imperativa (ad es. ricettazione, art. 648 cod. pen.) potrebbe colpire il trasferimento del bene contraffatto (in quanto proveniente da reato) se effettuato a scopo di profitto (ad es., l’acquisto per la successiva rivendita), ma in tal caso per la configurabilità del reato di ricettazione e la conseguente nullità per contrarietà a norma imperativa del contratto di trasferimento rileva l’attività di contraffazione a monte (cd. reato presupposto), non il difetto di autenticità in sé.

[5] Il contratto concluso per effetto di truffa non è nullo ex art. 1418, comma1, c.c., ma annullabile per dolo determinante ex art. 1439 c.c.: in termini conformi la giurisprudenza, cfr. Cass., 20 agosto 2018, n. 20801; Cass., 22 giugn 2018, n. 16559; Cass., 27 settembre 2016, n. 18930.

La giurisprudenza giunge, invece, a conclusioni diverse con riferimento al contratto con cui si realizza il delitto di circonvenzione di incapace, ritenuto virtualmente nullo per contrarietà a norme imperative (art. 1418, comma 1, c.c.), sul presupposto che l’incapacità di cui all’art. 643 cod. pen. non sia assimilabile all’incapacità naturale di cui agli artt. 428 e 1425 cod. civ.: cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. III, 20.4.2016, n. 7785.

[6] Qui il concetto di diligenza costituisce il metro di valutazione non dell’adempimento di un’obbligazione (così, art. 1176 c.c. nonché artt. 382, 703, comma 4, 1001, 1091, 1710, 1768, 1804, 1961, 2104, 2148, 2167, 2174, 2392, 2407, 2409-terdecies c.c.), ma tutt’al più dell’assolvimento di un onere. Il riferimento alla diligenza, oltreché con riferimento all’onere di riconoscere l’errore altrui gravante sul destinatario della dichiarazione contrattuale al fine di evitarne l’annullabilità (art. 1431 c.c.), si riscontra, altresì, nell’onere del danneggiato di non aggravare le conseguenze dannose derivanti dall’illecito altrui (art. 1227, comma 2, c.c.), nell’onere di conoscenza delle condizioni generali di contratto gravante sull’aderente (art. 1341 c.c.), nell’onere del possessore di percepire i frutti in vista della restituzione (art. 1148 c.c.). Cfr., sul punto, M. Giorgianni, voce Buon padre di famiglia, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, p. 596 ss., ora in L’inadempimento, Appendice alla III ed., Milano, 1975, 336 s.; in termini parzialmente diversi, A. di Majo, Delle obbligazioni in generalesub artt. 1173-1176, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1988, p. 411, il quale esclude, con riferimento alla sola riconoscibilità dell’errore, trattarsi propriamente di un onere di diligenza, quanto piuttosto – ma in termini poco perspicui – della «qualificazione di fatto del comportamento di un soggetto, determinata a produrre determinate conseguenze sul piano giuridico».

Sulla diligenza, in generale, oltre ai contributi appena citati, cfr. S. Rodotà, voce Diligenza (dir. civ.), in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 540; G. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim dir. proc. civ., 1954, p. 609 ss.; L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni di «mezzi», in Riv. dir. comm., 1954, p. 185 ss., spec. pp. 187, 193 e 199; C.M. Bianca, voce Negligenza (dir. priv.), in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965, p. 190 ss.; G. D’Amico, voce, Negligenza, in Digesto IV, disc. priv.sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 24 s. e 33 s.

[7] F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1966 (rist. 2012), Jovene, Napoli, 165. In giurisprudenza Cass. civ., 29.6.1985, n. 3892.

[8] Così, F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Giuffrè, Milano, 1948, 90. L’assunto è condiviso dalla giurisprudenza con orientamento costante ed immutato, espresso nella seguente massima: «Nell’ipotesi di errore bilaterale, che ricorre quando esso sia comune a entrambe le parti, il contratto è annullabile a prescindere dall’esistenza del requisito della riconoscibilità, poiché in tal caso non è applicabile il principio dell’affidamento, avendo ciascuno dei contraenti dato causa all’invalidità del negozio». Così, Cass. civ., 9.2.1952, n. 316, in Foro it., 1952, I, 431, con nota di A. De Martini; Cass. civ., 29.4.1965, n. 773, in Foro it., 1965, I, 1778, con nota di M. Bessone; Cass. civ., 12.11.1979, n. 5829, in Rep. Foro it., voce «Contratti in generale», 1979, n. 272; Cass. civ., 15.12.2011, n. 26975, in Rep. Foro it., voce «Contratto in genere», 2011, n. 475; Cass. civ., 23.3.2017, n. 7557, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 10, 1229 ss., con mia nota di commento.

[9] M. Bessone, Errore comune ed affidamento nella disciplina del contratto, nota a Cass., 29 aprile 1965, n. 773, in Foro it., 1966, I, c. p. 1572 ss.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. Vassalli, XV, 2, Torino, 1950, 440; A. Giordano, In tema di rilevanza dell’errore bilaterale nel contratto, in Giust. civ., 1952, I, p.456 ss.; F. Martorano, «Presupposizione» ed errore sui motivi nei contratti, in Riv. dir. civ., 1958, I, p. 106 ss.; F. Messineo, op. loc. ult. cit.; V. Pietrobon, Errore, volontà e affidamento, Padova, 1990, p. 210 e 238; F. Santoro-Passarelli,  op. loc. ult. cit.; A. Trabucchi, voce Errore (dir. civ.), nel Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960, ma rist. 1981, p. 671.

[10]  A. De Martini, In tema di riconoscibilità dell’errore bilaterale nel contratto, in Foro it., 1952, I, p. 434; G. Mirabelli, Delle obbligazioni. Dei contratti in generale (Artt. 1321-1469), in Commentario Utet, 1980, p. 547; G. Criscuoli, Errore bilaterale: comune e reciproco, in Riv. dir. civ., 1985, I, 621; G. Amorth, In tema di errore nelle compra-vendite d’opere d’arte antiche, in Foro it., I, 1948, c. 681; P. Barcellona, In tema di errore riconosciuto e di errore bilaterale, in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 63 ss.

[11] La distinzione tra oggetto e modo della tutela è sottolineata da V. Pietrobon, Errore, volontà e affidamento, cit., 210 e 238

[12] Cass., 24 novembre 2004, n. 22169, in Rep. Foro it., voce «Contratto in genere», 2004, n. 570.

[13] P. Barcellona, In tema di errore riconosciuto e di errore bilaterale, cit., p. 64 ss.

[14] R. Sacco, Il contratto, IV ed., Torino, 2016, p. 518.

[15] A. Falzea, voce Apparenza, in Enc. del dir., II, Milano, 1958, p. 686.

[16] R. Sacco, Il contratto, cit., p. 521 ss.

[17] G. Criscuoli, Errore bilaterale: comune e reciproco, cit., p. 622.

[18] D. Rubino, La compravendita, in Tratt. Cicu-Messineo, XXIII, Milano, 1971, p. 910.

[19] Citata supra, nota 8.

[20] Id., op. cit., p. 227.

[21] R. Sacco, Il contratto, cit., 515; nonché, M. Franzoni, Dell’annullabilità del contratto, nel Tratt. Bessone, XIII, 7, 2002, p. 289.

[22] F. Santoro-Passarelli, op. cit., p. 164.

[23] A prescindere, cioè, di come si voglia intendere il riferimento alla causa di invalidità oggetto dell’obbligo di comunicazione precontrattuale di cui all’art. 1338 c.c., dovendosi ancòra appurare la rilevanza invalidante dell’errore di cui si sta, per l’appunto, valutando la riconoscibilità.

[24] Cfr. L. Cariota-Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italianoMorano, Napoli, s.d., p. 517.

[25] A ragione, L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., p. 517, ritiene che si tratti di due errori; diversamente Sacco, in Sacco-De Nova, Il contratto, IV ed., Utet, 2016, p. 523, muovendo dal criticato significato di riconoscibilità.

[26] Cfr. dottrina e giurisprudenza citate supra.

[27] Cass., 23 marzo 2017, n. 7557, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 10, 1229 ss., con mia nota di commento.

[28] F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Giuffrè, Milano, 1948, 90.

[29] Così, A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, p. 290 ss.; del pari, riconosce la sussistenza di “un affidamento da difendere”, R. Sacco, Il contratto, cit., p. 521

[30] E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, nel Trattato Vassalli, XV, 2, Utet, Torino, 1950, p. 440.

[31] V. Pietrobon, Errore, volontà e affidamento, cit., p. 243 e p. 487 ss.

[32] Id., op. cit., p. 204 ss., p. 487 ss.

[33] Id., op. cit., 204 ss., p. 492.

[34] Cfr. E. del Prato, Patologia del contratto: rimedi e nuove tendenze, in Riv. dir. comm., 2015, II, p. 19 ss., ora in Lo spazio dei privati, Zanichelli, Bologna, 2016, p. 452 ss. (da cui le citazioni).

[35] Il punto è ben evidenziato da G. Criscuoli, Errore bilaterale: comune e reciproco, cit., p. 619, ed emerge anche in R. Sacco, Il contratto, cit., p. 522.

[36] Cfr., ancòra, la giurisprudenza citata supra, nota 8.

[37] In tale ordine di idee si pone il contributo di M. Bessone, Errore comune ed affidamento nella disciplina del contratto, in Foro it., 1966, I, 1572 ss. spec. 1584, nota a Cass. 29 aprile 1965, n. 773.

[38] M. Bessone, Errore comune ed affidamento nella disciplina del contratto, cit., 1572 ss., spec. 1581.

[39] Tale approdo non è condiviso da Cataudella, Sul contenuto del contratto, Giuffrè, 1966, 326, il quale prospetta una più mite inefficacia.

[40] Per alcuni, il termine esterno, cfr. N. Irti, voce Oggetto del negozio giuridico, in Noviss. Digesto it., XI, Utet, 1965 (ma rist. 1982), 803 nt. 11 e 806; per altri, la prestazione, cfr. F. Messineo, voce Contratto (dir. priv.), in Enc. del dir., IX, Giuffrè, Milano, 1961, 827, spec. 837.

[41] L. Mengoni, Profili di una revisione della teoria sulla garanzia per i vizi nella vendita, in Riv. dir. comm., 1953, I, 1 ss., spec. 14.

[42] E, su tale scia, potrebbe rilevare altresì sul piano risarcitorio: chi riscontri un errore sulle qualità, potrà ammetterne la responsabilità precontrattuale da contratto annullabile (art. 1338 c.c.), limitando il risarcimento all’interesse negativo; chi vi ravveda un inadempimento può invocare il risarcimento (artt. 1218 e 1453 c.c.), da commisurare all’interesse positivo secondo le regole generali (art. 1223 c.c.); chi vi riscontri nelle qualità promesse una mera garanzia, escluderà, invece, di regola il risarcimento (art. 1497 c.c.).

[43] Opinione ampiamente diffusa in dottrina: P. Barcellona, voce Errore, cit., 253 ss., p. 271 s.; A. Falzea, voce Apparenza, cit., 695; C.M. Bianca,Dell’inadempimento dell’obbligazionesub art. 1218, in Comm. Scialoja-Branca, II ed., Zanichelli-Foro it., Bologna-Roma, 1979, p. 44 s., 52 nt. 8 e 159; E. del Prato, Le annullabilità del contratto, già in Trattato del contratto diretto da Roppo, IV, Rimedi-1, a cura di Gentili, Milano, 2006, ora in Lo spazio dei privati, Zanichelli, 2016, p. 261 s., p. 269 ss. e spec. p. 270, nt. 186. Contra, F. Carnelutti, Errore o inadempimento, in Riv. dir. civ., I, 1961, p. 259 s.

[44] L. Mengoni, Profili di una revisione della teoria sulla garanzia per i vizi nella vendita, cit., p. 22; il cui pensiero è condiviso da A. Plaia, Risoluzione per mancanza di qualità e colpa del venditore, in Contratti, 2010, p. 633.

[45] In tale prospettiva, si pone C.M. Bianca, Dell’inadempimento dell’obbligazione, cit., p. 162 ss.

[46] Prescindendo, in questa sede, dal valore da attribuire al concetto di impossibilità della «prestazione»: cioè se è da intendersi come impossibilità assoluta e definitiva dell’oggetto dell’obbligazione, G. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim dir. proc. civ., 1954, p. 600 ss.; oppure se è da intendersi come impossibilità di adempiere (arg. ex art. 1307 c.c.), cfr. L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi» (studio critico), II, in Riv. dir. comm., p. 282, con la conseguenza esegetica che il termine “prestazione” verrebbe impiegato con due significati differenti nell’ambito della medesima disposizione (art. 1218 c.c.).

[47] In questo breve spazio, non può chiaramente darsi esaustivamente conto delle varie accezioni in cui è stato inteso il criterio di imputabilità, da rapportare alla diligenza del debitore, in funzione dell’ascrizione di una responsabilità per inadempimento, investendo il gravoso e tormentato problema dei rapporti tra l’art. 1176 e l’art. 1218 c.c., che tanto ha affaticato la letteratura civilistica: il dilemma fondamentale, come noto, si riassume nello stabilire il termine dell’imputabilità, cioè se il fatto imputabile sia costituito esclusivamente dall’impossibilità assoluta ed oggettiva  della prestazione (secondo il tenore letterale dell’art. 1218 c.c.) o se il fatto di cui vagliare l’imputabilità possa essere rappresentato anche dal contegno inadempiente del debitore ove la prestazione sia considerata possibile. Senza alcuna pretesa di esaustività, cfr. G. Osti, Deviazioni dottrinali, cit., 593 ss.; L. Mengoni, Obbligazioni di risultato, cit., I, 199 ss., e II, 280 ss.; M. Giorgianni, L’inadempimento, III ed., Milano, 1975, 191 ss., 229 ss., 270 ss., 289 ss.; C.M. Bianca, Dell’inadempimento dell’obbligazione, in Comm. Scialoja-Brancasub artt. 1218-1229, II ed., Bologna-Roma, 1979, 1 ss.; G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in Comm. Schlesinger-Busnelli, II ed., Milano, 2006, 94 ss.

[48] Intendendo, dunque, l’impossibilità della prestazione di cui all’art. 1218 c.c. in senso non assoluto, cioè come impossibilità di adempiere.

[49] Cfr. il caso deciso da Cass. civ., 23 marzo 2017, n. 7557, in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 1229 ss., con riferimento alla compravendita di quattro poltrone genovesi di epoca Luigi XVI per il prezzo di L. 50.000.000, successivamente rivelatesi non autentiche. La S.C. ha escluso la responsabilità del venditore, ritenendo l’inadempimento non imputabile a titolo di colpa e negando, persino, la risoluzione: «[è] necessario, per l’art. 1218, c.c., l’accertamento dell’imputabilità dell’inadempimento al venditore-debitore almeno a titolo di colpa», per cui, «pur in ipotesi di accertato aliud pro alio, non può essere pronunciata la risoluzione del contratto di vendita in danno del venditore inadempiente, ove questo superi la presunzione di colpevolezza dell’inadempimento, dimostrandone la non imputabilità». A ben vedere, la perentorietà delle affermazioni si stempera nell’apprezzamento delle circostanze di fatto del caso concreto, al punto da valorizzare quell’opinione che ha denunciato la diffusa tendenza giurisprudenziale ad esprimere “un ossequio” meramente verbale al concetto di colpa (G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, sub art. 1218, in Comm. Schlesinger, Milano, 2006, 147). Infatti, affinché il principio di diritto enunciato dalla S.C. si ponga come genuina ratio decidendi del caso, è necessario accertare che l’esclusione della responsabilità debitoria dipenda esclusivamente da una mera difficoltà di adempiere non superabile con la normale diligenza e che non ricorra piuttosto un’effettiva impossibilità di adempiere. Al riguardo, nel precedente citato, la Corte di legittimità esclude ogni negligenza o superficialità nelle valutazioni concernenti l’esatta datazione delle poltrone, evidenziando la «difficile accertabilità della non autenticità delle poltrone genovesi Luigi XVI» e l’«affidabile trafila di rivenditori delle stesse». Pertanto, ad un primo sguardo, sembra che si proceda alla formulazione di un autentico giudizio di colpa. Tuttavia, dalla motivazinoe della sentenza traspare nettamente come nei gradi di merito fosse emersa una circostanza fondamentale: l’assoluta inaccertabilità della datazione dell’oggetto di antiquariato all’epoca storica indicata (sui fatti inaccertabili, cfr. R. Sacco, Il contratto, cit., p. 510). A tal proposito, da un lato, i giudici di secondo grado avevano evidenziato come «anche esperti qualificati, a seguito di apposite indagini complesse, non avevano raggiunto certezze al riguardo», dall’altro, la S.C. pone espressamente tale circostanza a fondamento dell’accertamento di una consegna di aliud pro alio: non si tratta di poltrone genovesi di epoca Luigi XVI, ma di poltrone presunte tali, senza alcuna certezza al riguardo.

[50] G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, cit., p. 386.

[51] Per ovviare a tale obiezione, C.M. Bianca, Dell’inadempimento dell’obbligazione, cit., p. 158 ss., fa leva sul concetto di inettitudine iniziale del debitore all’adempimento, cioè sull’inidoneità della sua persona o dei suoi mezzi a soddisfare l’interesse creditorio, invocando, ai fini dell’imputabilità dell’inadempimento, il giudizio circa la conoscenza o la prevedibilità con il normale sforzo diligente della propria inettitudine all’adempimento. Pur attenendo l’accertamento della capacità di eseguire la prestazione ad un momento anteriore alla costituzione del rapporto («ad un momento pre-obbligatorio»), cioè un momento nel quale potrebbe prospettarsi solo una responsabilità precontrattuale, l’A. ritiene che, una volta sopravvenuto un valido titolo del vincolo obbligatorio, l’inesecuzione di tale vincolo pone esclusivamente un problema di responsabilità debitoria, giacché l’art. 1218 c.c. «sancisce la responsabilità per l’inadempimento derivante da causa imputabile al debitore senza richiedere che l’imputabilità attenga ad una negligenza successiva al sorgere del rapporto».

[52] In questi termini, R. Sacco, Il contratto, cit., p. 510.

[53] L. Mengoni, Profili di una revisione della teoria sulla garanzia per i vizi nella vendita, cit., p. 14.

[54] G. Amorth, Errore e inadempimento nel contratto, Giuffrè, 1967, p. 54.

[55] Id., op. ult. cit., 48; A. Plaia, Risoluzione per mancanza di qualità e colpa del venditore, cit., p. 633.

[56] G. Amorth, op. cit., p. 54.

[57] E. Gabrielli, La consegna di cosa diversa, Napoli, 1987, 108, per il quale l’aliud pro alio integra propriamente una mancata realizzazione del programma negoziale.

[58] Cfr. Cass., 27 novembre 2018, n. 30713, in OneLegale; Cass. 9 novembre 2012, n. 19509, in Corriere Giur., 2013, 4, p. 463, con nota di E. Gabrielli.

[59] D. Rubino, La compravendita, in Trattato Cicu-Messineo, XXIII, Milano, 1971, p. 763 e nt. 9-bis.

[60] Diversamente da quanto ritenuto in Cass. civ., 23 marzo 2017, n. 7557, in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 1229 ss., con mia nota contraria.

[61] La questione circa la necessità dell’imputabilità dell’inadempimento ai fini risolutori è ampiamente discussa in dottrina. Per la soluzione affermativa, cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, cit., 303 ss., 336, 343, 351, p. 366 s.; tuttavia deve ritenersi che tale soluzione non valorizzi adeguatamente il diverso fondamento delle norme sulla patologia del contratto (cui anche la risoluzione per inadempimento si ascrive, allorché travolge retroattivamente il contratto, art. 1458 c.c.) rispetto alle norme sulla responsabilità del debitore. Su tale problema, sia consentito il rinvio ad un mio recente studio, Patti sulla patologia contrattuale, Torino, 2023, 27 ss., 65 ss., p. 210 ss. 

Per l’irrilevanza della colpa ai fini risolutori, M. Giorgianni, L’inadempimento, cit., p. 312 ss., il quale precisa che la colpa del debitore rileva solo con riferimento alla responsabilità personale da inadempimento (art. 1218 c.c.), per il sorgere dell’obbligazione risarcitoria, mentre essa è del tutto estranea all’area sia della realizzazione forzata del credito sia della risoluzione per inadempimento così come di tutti gli altri rimedi contrattuali relativi al vincolo di corrispettività tra le prestazioni, ove al centro del sistema non va posta la colpa del debitore, ma la preminente considerazione dell’interesse del creditore leso dall’inadempimento (artt. 1455 e 1464 c.c.). Del resto, soggiunge l’autorevole dottrina, con riferimento all’ipotesi dell’azione di risoluzione per inadempimento e dell’eccezione di inadempimento, «la diversa disciplina delle due ipotesi, sotto il profilo della colpa, non trova alcuna giustificazione», integrando «una sicura contraddizione» (op. cit., 320). Parimenti, F. Macioce, Risoluzione del contratto e imputabilità dell’inadempimento, Napoli, 1988, p. 42 ss., il quale afferma nettamente che il presupposto della risoluzione giudiziale ex artt. 1453 e delle risoluzioni di diritto di cui agli artt. 1454, 1456, 1457 c.c. è “l’inadempimento oggettivo”.

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