Diritto della moda sostenibile fra europeizzazione e de-globalizzazione

Michaela Giorgianni

Ricercatrice di diritto comparato dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza

La moda globale si muove fra consumismo e imprese irresponsabili. Da qualche tempo si cerca il passaggio dalla fast fashion alla slow fashion, ma la sostenibilità rischia spesso di essere un semplice greenwashing e social washing. Il paper affronta alcune recenti iniziative sovranazionali che si sono mosse in questa direzione per tutelare l’ambiente e disciplinare il fenomeno dello sfruttamento del lavoro nella filiera produttiva. Ma è ancora troppo presto per parlare di fashion revolution.

Global fashion moves between consumerism and irresponsible business. For some time, a shift from fast fashion to slow fashion has been sought, but sustainability often risks being mere greenwashing and social washing. The paper discusses some recent supranational initiatives that have moved in this direction to protect the environment and regulate the phenomenon of labour exploitation in the production chain. But it is still too early to speak of a fashion revolution.

Sommario: 1. Cenni introduttivi. – 2. La moda globale fra consumismo e imprese irresponsabili. – 3. Dalla fast fashion alla slow fashion?Alcune recenti iniziative dell’Unione Europea. La strategia in materia di prodotti tessili sostenibili e circolari e la proposta di Direttiva sulla due diligence delle imprese ai fini della sostenibilità.  – 4. Fashion revolution. L’industria della moda sostenibile nell’era post-globale.

1. La globalizzazione, con la sua accelerazione temporale e compressione spaziale

[1], ha creato inevitabilmente una nuova geografia della moda[2], contraddistinta dalla caducità e dal conformismo. La ricerca continua del «nuovo» spinge a una produzione instancabile, sempre meno innovativa e sempre più omogenea, e a un «usa e getta» di mode e bisogni che tollerano un consumo fast e low cost. Non solo, infatti, le mode cambiano, ma soprattutto la possibilità di acquistare capi d’abbigliamento a basso costo ha portato a uno stato di sovrapproduzione e sovra consumo che contrasta con la sostenibilità. In questo modo i consumatori sostengono nelle loro scelte d’acquisto le strategie delle imprese «irresponsabili»[3], quali la scarsa qualità delle materie impiegate, la delocalizzazione e lo sfruttamento della forza lavoro.

D’altra parte, di fronte al degrado ambientale e all’aumento inarrestabile delle diseguaglianze, ormai da diversi decenni organizzazioni internazionali, legislatori e giudici nazionali, movimenti e sindacati, studiosi e gruppi studenteschi si sono allertati e hanno cominciato a combattere per un mercato più «sostenibile». La «sostenibilità», del resto, nel suo significato originale come descritta nel Rapporto sui limiti dello sviluppo e poi nel Rapporto Brundtland[4], «non è uno stato d’equilibrio, ma piuttosto un processo di cambiamento», che trascende l’ambito dell’ecologia e della tutela ambientale per comprendere anche le questioni sociali, politiche, culturali ed economiche, evidenziando in questo modo la natura «complessa» che la caratterizza. Ma troppo spesso la stessa sostenibilità è stata impiegata dal potere, a partire dalle multinazionali, come strumento per perseguire i propri interessi egoistici e «insostenibili», tanto che si è parlato di un sustainababble [5]. Ebbene, anche nell’ambito della moda si è fatta strada questa tendenza rivolta a promuovere un cambiamento e a qualificare i prodotti come rispettosi dell’ambiente e della società. La moda è diventata «sostenibile» e si utilizzano spesso espressioni come green fashion, eco fashion, ethical fashion, fair fashion e slow fashion, proprio per indicare un’inversione di rotta.

L’Unione Europea, a sua volta, non ha perso tempo e, in effetti, una serie di documenti contengono iniziative, percorsi e comunicazioni, che sembrerebbero essere rivolti a modificare l’attuale sistema economico in direzione «sostenibile». Con particolare riferimento all’industria della moda, può essere interessante allora prendere in considerazione due più recenti provvedimenti della Commissione europea: innanzitutto, la strategia in materia di prodotti tessili del 30 marzo 2022[6], che mira a incrementare la competitività, la sostenibilità e la resilienza del settore. L’UE intende proporre azioni per avvicinare il settore tessile all’economia circolare e climaticamente neutra, promuovere processi produttivi e indirizzare verso stili di vita sostenibili, migliorare la raccolta e il riciclo dei rifiuti tessili; inoltre, la proposta di Direttiva sulla due diligence delle imprese in materia di sostenibilità del 23 febbraio 2022[7], che prevede l’obbligo per le imprese di individuare i rischi, evitare, far cessare o attenuare gli effetti negativi delle loro attività sui diritti umani e sull’ambiente. Resta, però, il dubbio che alla base dell’azione europea sussista anche una corretta impostazione di fondo capace di portare a un’economia sostenibile. Occorre chiedersi, in altri termini, se la sostenibilità possa coesistere o se sia irrimediabilmente in contrasto con la tutela della concorrenza nel mercato globale.

Ebbene, se ormai la dimensione spaziale travalica regolarmente i confini nazionali e parlare in termini locali può apparire riduttivo, questo non significa necessariamente che le questioni sulla sostenibilità possano essere affrontate soltanto a livello globale[8]. Si può tutt’al più pensare globale, ma si dovrebbe agire locale per impedire che la sostenibilità resti un semplice greenwashing e social washing. Del resto, il percorso storico ha dimostrato un andamento caratterizzato dall’avvicendarsi di periodi di prevalenza della dimensione nazionale, come reazione al mercato autoregolato, desocializzato e spoliticizzato, e di periodi di denazionalizzazione e affermazione della dimensione cosmopolita[9].

2. La moda globale presenta una forma diversa rispetto al passato, dovuta alle trasformazioni intervenute in ambito economico, sociale e culturale, e rese più complesse dall’esposizione mediatica a livello mondiale.

Nelle società industriali del Settecento e Ottocento si era assistito a un incremento della produzione e ad una crescente diversificazione dei beni di consumo[10]. Il rapporto fra l’uomo e le «cose»[11] non soddisfaceva più soltanto esigenze primarie, ma assumeva anche valenza edonistica o rilevanza sociale o manifestazione di potere. Partendo da una rappresentazione della società stratificata in classi, la moda rivelava soprattutto la differenziazione sociale, era un «prodotto della divisione in classi» e un processo di «imitazione» delle relazioni sociali[12] sulla base della teoria cosiddetta «trickle-down». Ma questo genere di moda non si poteva considerare ancora una produzione e un consumo di massa. 

È soltanto con il passaggio dalla società «industriale» alla società «dei consumi»[13] durante la seconda rivoluzione industriale che il consumismo è diventato un fenomeno di massa. Le persone sono state considerate consumatori di «merci» e «consumatori merci»[14] e la moda si è trasformata in una forma di consumo[15] guidata dalle tendenze di massa, quindi dai livelli sociali più bassi, a partire dai giovani, creando uno «status float phenomenon» o modello di «bottom-up»[16]. La moda, o meglio «il desiderio di essere alla moda», riflette così lo «spirito dei tempi», o Zeitgeist,e la tendenza del presente emerge da un processo di «selezione collettiva», che rappresenta «uno sforzo per scegliere tra gli stili o i modelli in competizione» quelli che corrispondono ai «gusti collettivi»[17]. Inoltre, l’abbigliamento «alla moda» e alla portata di tutti ha comportato la possibilità per chiunque di esprimere il proprio stile e la propria personalità e ha fatto credere a una sua «democratizzazione»[18].

Questa modalità di produzione dell’abbigliamento, che si rivolge alla massa indeterminata dei consumatori ed è sempre più a basso costo, rapida e su larga scala, è ormai comunemente chiamata fast fashion[19]. Così, nella tensione fra il desiderio di differenziazione individuale e di identificazione collettiva, fra originalità e omologazione[20], questa nuova correntedella moda ha spinto certamente nella direzione del conformismo e costituisce un simbolo del consumismo capitalista portato alle estreme conseguenze. È sinonimo di «postfashion», intesa come negazione della moda stessa e in contrasto con la sostenibilità ambientale e sociale.

Se l’industria della moda è a tutti nota per le conseguenze devastanti in termini di impatto ambientale e ingiustizia sociale, sono sempre più numerosi, d’altra parte, gli imprenditori che affermano di effettuare le proprie scelte e svolgere la propria attività con modalità «sostenibili». Dietro la pubblicità di prodotti «green» ed «etici» si nasconde, però, spesso soltanto l’idea aziendale di aumentare il costo e la vendita degli stessi. In questo modo, il mercato è caratterizzato dal greenwashing e social washing delle cosiddette imprese «sociali», che praticano la teoria liberale di Milton Friedman sulla massimizzazione dei profitti[21], ma predicano le idee sulla Corporate social responsibility, quel fenomeno che ripercorre le pratiche originate dalla Rivoluzione Industriale e le crescenti critiche all’emergente sistema di fabbrica[22]. Non si riescono a ritrovare negli attuali comportamenti delle imprese, infatti, quelle caratteristiche descritte agli inizi degli anni Cinquanta da Howard R. Bowen[23] nel suo Social Responsibilities of the Businessman, quando evidenzia come nell’odierna economia i businessmen, manager e amministratori delle grandi imprese, siano chiamati a perseguire «quelle politiche, prendere quelle decisioni o seguire quelle linee d’azione che sono desiderabili in funzione degli obiettivi e dei valori riconosciuti dalla nostra società». Questo perché le imprese non producono soltanto beni e sevizi, ma influenzano anche le condizioni dei lavoratori, la crescita economica, la distribuzione del reddito, i caratteri del consumo, l’uso delle risorse naturali e più in generale il welfare pubblico. E sottolinea anche la necessità di un «controllo» del potere attraverso contropoteri.  

Ma le imprese sono state definite «irresponsabili», perché «al di là degli elementari obblighi di legge, suppongono di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle loro attività»[24]. In particolare, lo sfruttamento dei lavoratori e l’inafferrabilità delle filiere costituiscono il sistema dal quale le imprese irresponsabili di moda traggono i loro profitti. Questo sistema di frammentazione, funzionale e spaziale, che caratterizza l’attuale processo produttivo nel settore tessile, ma non solo, come ha ben evidenziato Luciano Gallino[25], risale già agli anni Ottanta, quando si è verificata «una profonda trasformazione della produzione di beni e servizi». Sono state così create delle «catene reticolari di unità produttive» distribuite attraverso i continenti, facendo in modo che i singoli e numerosi «anelli della catena globale di creazione del valore»,  localizzati in paesi differenti, siano «il più possibile indipendenti e autosufficienti» e «ciascuno di essi presenti la miglior combinazione localmente possibile di fattori quali: basso costo del lavoro; nessun limite all’orario di lavoro; agevolazioni fiscali e doganali; vincoli scarsi o inesistenti in tema di ambiente; presenza limitata o nulla dei sindacati». Questo perché quando le singole unità produttive «sono di dimensioni ridotte, e lontane tra loro», è difficile che l’organizzazione sindacale dei lavoratori possa rappresentare, a livello locale o transnazionale, «una fonte reale di opposizione nei confronti delle direzioni per qualsiasi aspetto delle condizioni di lavoro».

Di conseguenza, la globalizzazione e la riorganizzazione produttiva hanno «sottratto un tratto il più lungo possibile del processo produttivo alle condizioni di lavoro predominanti nei paesi industriali avanzati», caratterizzate da salari elevati, contratti di durata indeterminata, vincoli legislativi al licenziamento e forti tutele sindacali, per rivolgersi alla Cina, India, Indonesia, ad altri paesi del Sud-est asiatico, ma anche ai maggiori paesi dell’ex Urss, Russia e Ucraina, dove si può disporre di una sterminata quantità di forza lavoro a condizioni molto peggiori: «in pochi lustri circa un miliardo e mezzo di lavoratori “globali” sono stati quindi deliberatamente posti in competizione con i lavoratori dei paesi più avanzati». Si è affermata così una «concezione diversa di concorrenza» e, per sopravvivere sul mercato, si è dovuto «peggiorare incessantemente le condizioni di lavoro»[26].

L’industria della moda, quindi, rappresenta uno dei principali luoghi delle moderne schiavitù. Lo dimostrano in modo eclatante alcune ben note tragedie, come l’incendio nella fabbrica di abbigliamento Ali Enterprise in Pakistan nel 2012, dove persero la vita oltre 260 lavoratori. Questo perché la fabbrica non aveva vie di fuga e le uscite erano bloccate o chiuse a chiave, le finestre erano sbarrate, il sistema antincendio non era adeguato e gli operai non erano stati preparati ad affrontare le emergenze. Ma, secondo una pronuncia del Tribunale di Karachisent del 2020, la vicenda sarebbe stata causata dal terrorismo. Si tratta di uno fra i tanti orrori derivanti dalla fast fashion, insieme anche al crollo nel 2013 del Rana Plaza in Bangladesh in cui morirono più di mille persone a causa di un cedimento strutturale dell’edificio, dovuto all’eccessivo peso dei macchinari delle imprese tessili che ospitava[27].

In tutto questo, il consumatore, pur dichiarando di sostenere la necessità di un cambiamento e predicando la sobrietà, continua a partecipare e a contribuire al degrado ambientale e all’aumento delle diseguaglianze. Del resto, non si deve dimenticare che gli stessi consumatori sono sempre stati manipolati nei loro bisogni e nelle loro decisioni di acquisto. Questo perché «è la produzione stessa che crea tali bisogni», il tutto assicurato dalla «pubblicità commerciale»[28]. Il boom economico e la spinta verso una produzione di massa avevano reso necessario, infatti, ingrossare le fila dei consumatori. E i «persuasori occulti» si sono ripromessi allora di indagare i più intimi bisogni e desideri dei consumatori e i loro «impulsi irrazionali» per manipolare le decisioni e incrementare la produzione e il consumo[29].

Ebbene, se è stata ampliata la tipizzazione dei comportamenti umani con l’introduzione dell’homo ecologicus, o meglio del cittadino ecologico, per accentuare l’importanza della partecipazione attiva a un necessario cambiamento in ambito ambientale e sociale[30], il consumatore fatica ancora ad abbandonare le sue abitudini di consumo e reitera scelte di acquisto non in linea con un comportamento sostenibile[31]. Resta, quindi, un homo oeconomicus che, nel campo delle teorie economiche, è l’uomo «informato e razionale», che «pesa e commisura guadagni e perdite»[32]. E lo stesso diritto europeo è stato, del resto, concepito a misura di homo oeconomicus, vale a dire per «il consumatore perfettamente capace di autodeterminarsi, il cui unico problema è il possesso di un adeguato livello di informazioni circa i termini dell’affare da valutare nei suoi costi e nei suoi benefici»: il tipo umano di riferimento per l’ortodossia neoliberale[33], volta alla tutela delle libertà economiche e incapace di occuparsi delle relative ripercussioni.L’idea di sostenibilità necessita, invece, di una figura «complessa», che rispecchi appunto la varietà dei valori e degli interessi in gioco, ambientali, sociali, culturali, economici.

3. Questo scenario di crescita illimitata, degrado ambientale e ingiustizia sociale, che caratterizza le società contemporanee, tuttavia, è minacciato da sempre più pressanti propositi di cambiamento, tanto che si è parlato di una «rivoluzione della sostenibilità» nel prossimo futuro[34]. Fra questi, già da tempo e da più parti si prospetta il passaggio dalla fast fashion alla slow fashion, che, riprendendo le idee dello slow movement per applicarle all’industria della moda globale, abbandona la rincorsa alla massimizzazione dei profitti, lo sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro per dedicarsi ad altro. «Non è basata sul tempo ma sulla qualità» e, se «naturalmente la qualità costa di più», la tendenza dovrà essere quella di «acquistare meno prodotti» ma qualitativamente migliori[35]. La slow fashion, quindi, cerca di superare la contrapposizione fra la sostenibilità e l’industria della moda, suggerendo una nuova direzione, una forma di organizzazione alternativa e una trasformazione della produzione e dello stile di vita della popolazione.

Nella stessa direzione dovrebbe muoversi ormai da qualche tempo anche l’Unione Europea che, anche con la spinta dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile[36], ha voluto manifestare la seria intenzione di invertire la rotta. Si vuole fare riferimento ad alcune recenti iniziative in materia di economia circolare, come il Circular Economy Package, adottato dalla Commissione europea nel dicembre 2015[37], e poi il Green Deal, il nuovo programma per rendere sostenibile l’economia dell’UE presentato nel dicembre 2019[38]. Si tratta di un progetto certamente ambizioso e, infatti, il Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, l’ha definito Europe’s man on the moon moment. Questo programma prevede una strategia diretta a supportare «un’economia climaticamente neutra, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva». Al fine di raggiungere un sistema economico sostenibile, quindi, l’Unione Europea intende dirigersi più velocemente verso «un modello di crescita rigenerativo», mantenendo il «consumo di risorse entro i limiti del pianeta» e quindi riducendo i consumi e «raddoppiando» l’uso di materiale circolare. La strategia industriale europea, poi, promuove la «sostenibilità competitiva» in tutta l’Unione europea e si rivolge a «un’industria leader e competitiva a livello mondiale», evidenziando che «per essere competitivi c’è bisogno di concorrenza, a casa propria e nel mondo». Un’industria europea che rispetti i «più elevati standard sociali, lavorativi e ambientali», sia «più verde e più digitale, che rimanga però competitiva a livello mondiale»[39].

Ancora, nella cornice del Green Deal, del Piano d’azione per l’economia circolare e della Nuova agenda dei consumatori si inseriscono diverse iniziative dirette a sostenere cambiamenti importanti nel comportamento dei consumatori in modo da garantire la protezione dell’ambiente. Fra le più recenti, si può ricordare la proposta di Direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde[40], volta ad assicurare ai consumatori la possibilità di compiere scelte d’acquisto più consapevoli e sostenibili e a tutelarli da dichiarazioni ambientali inattendibili o false, vietando il greenwashing e le pratiche ingannevoli delle imprese sulla durabilità dei prodotti. Come affermato da Didier Reynders, Commissario per la Giustizia, «per diventare i veri attori della transizione verde i consumatori devono avere il diritto di essere informati per compiere scelte sostenibili e devono essere tutelati dalle pratiche commerciali sleali che abusano del loro interesse ad acquistare prodotti verdi».

Più in particolare, la Commissione europea ha proposto di modificare, innanzitutto, la Direttiva sui diritti dei consumatori (2011/83/EU), prevedendo l’obbligo per i professionisti di informare i consumatori sulla durabilità garantita dei prodotti e sulle riparazioni e aggiornamenti dei software. Queste informazioni potranno comparire, a scelta dei produttori e dei venditori, sull’imballaggio o sul sito web e dovranno essere chiare e comprensibili. Inoltre, laproposta prevede di modificare la Direttiva sulle pratiche commerciali sleali (2005/29/EC), ampliando l’elenco delle caratteristiche del prodotto, che non possono costituire oggetto di inganno a scapito dei consumatori, per includere l’impatto ambientale e sociale, la durabilità e la riparabilità, e aggiungendo nuove pratiche considerate ingannevoli, dirette a tutelare maggiormente i consumatori dalle pratiche di greenwashing e dall’obsolescenza precoce dei prodotti. Allo stesso tempo, si garantirà l’effettiva sostenibilità dei prodotti sul mercato e questo rafforzerà anche una concorrenza che si muove in sintonia con l’ambiente.  Fra queste pratiche, se ne possono ricordare alcune molto frequenti, come quelle di formulare dichiarazioni ambientali generiche o vaghe («eco», «verde») o concernenti il prodotto nel suo complesso, mentre in realtà attengono a determinati aspetti, o di esibire un marchio di sostenibilità avente carattere volontario non fondato su un sistema di verifica da parte di terzi o stabilito da autorità pubbliche.

Il greenwashing è del resto un fenomeno molto diffuso ed è stato definito in via generale come la creazione e la divulgazione di un’ingannevole immagine ambientalista. Le imprese danno una falsa impressione del loro impatto ambientale, celando la discrepanza esistente fra le affermazioni green e le effettive prestazioni ambientali. Questa pratica sta causando effetti rovinosi per il nostro pianeta: i consumatori non hanno la possibilità di effettuare scelte d’acquisto effettivamente in sintonia con l’ambiente; le imprese irresponsabili continuano a produrre con modalità non eco-friendly e danneggiano indirettamente anche quelle che, invece, producono prodotti sostenibili.

Con riferimento più specifico al diritto della moda, deve essere menzionata, poi, la recente strategia dell’UE per il settore tessile sostenibile e circolare pubblicata dalla Commissione europea il 30 marzo 2022[41]. Con la Comunicazione si vuole garantire che entro il 2030 i prodotti tessili immessi sul mercato dell’UE siano durevoli e riciclabili, circolari ed efficienti dal punto di vista energetico per tutto il ciclo di vita. L’obiettivo è di porre fine all’odierna tendenza della fast fashion, che, come ricorda la Commissione, è «la prima causa di modelli insostenibili di sovrapproduzione e di consumo eccessivo», spingendo i consumatori a «comprare capi di abbigliamento di qualità inferiore e prezzi più bassi, prodotti rapidamente in risposta alla moda del momento» e utilizzati «per periodi sempre più brevi prima di buttarli via»[42].

La strategia europea si concentra principalmente sulle problematiche relative all’aspetto ambientale della sostenibilità, soffermandosi sull’impiego del «modello lineare caratterizzato da tassi ridotti di utilizzo, riutilizzo, riparazione e riciclaggio fibre-to-fibre (a ciclo chiuso) dei tessili» e sull’«uso inefficiente di risorse non rinnovabili, compresa la produzione di fibre sintetiche a partire da combustibili fossili». Come evidenzia sempre la Commissione, «in un settore tessile competitivo, resiliente e innovativo, i produttori si assumono la responsabilità dei loro prodotti lungo la catena del valore, anche quando tali prodotti diventano rifiuti»[43].

La Comunicazione include nuovi requisiti di «progettazione ecocompatibile» per i tessili in termini di durabilità, riutilizzabilità, riparabilità, riciclabilità a ciclo chiuso e contenuto obbligatorio di fibre riciclate; il «divieto di distruzione dei tessili invenduti o resi»; informazioni più «chiare, strutturate e accessibili sulle caratteristiche di sostenibilità ambientale» dei tessili e l’introduzione di un «passaporto digitale dei prodotti per i tessili» che comprende obblighi informativi sulla circolarità e altri fondamentali aspetti ambientali[44].

D’altra parte, la strategia per i tessili sostenibili e circolari non si occupa, se non solo marginalmente, della sostenibilità sociale[45] e della dignità del lavoratore, mentre proprio in questo settore sono evidenti le problematiche sulle condizioni di lavoro non sicure, sui rischi per la salute, sulle retribuzioni inaccettabili e sugli straordinari eccessivi. E da tempo si richiede un’azione, europea e internazionale, per contrastare le pratiche commerciali sleali, migliorare la tracciabilità e responsabilizzare le imprese delle violazioni dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori.

A quest’ultimo riguardo si potrebbe sottolineare il fallimento delle misure volontarie e di autoregolamentazione aziendale, che hanno portato alla, purtroppo timida, proposta diDirettiva della Commissione europea sulla due diligence ai fini della sostenibilità[46], menzionata anche dalla strategia europea per i prodotti tessili sostenibili e circolari nella parte relativa alle problematiche sociali. In linea generale, la proposta non fa altro che evidenziare che le difficoltà ancora persistono e le imprese, nonostante le sollecitazioni che da decenni spingono verso una loro responsabilizzazione, restano «irresponsabili». Di qui l’iniziativa europea che, sulla spinta anche di interventi sulla due diligence delle imprese da parte di non poche esperienze nazionali[47], è diretta ad armonizzare la disciplina e a rendere le imprese «responsabili» rispetto alla protezione dell’ambiente e alla salvaguardia dei diritti umani. Diverse le campagne di pressione, diverse le critiche rivolte alle istituzioni europee rispetto a una proposta che rischia di essere inefficace. Gli interessi prevalenti, che contrastano con l’idea stessa di impresa «sostenibile», possono essere facilmente individuati, infatti, nei limiti e nelle lacune della proposta.

Innanzitutto, il campo di applicazione è limitato alle grandi imprese, determinate in base al numero di dipendenti e al fatturato (che equivale all’1% delle imprese in Europa). Non necessariamente, però, si tratta di indicatori rilevanti per l’impatto negativo che l’impresa può creare sulla sua catena del valore. Inoltre, le imprese potrebbero ricorrere a svariate strategie, come l’outsourcing della manodopera, per evitare di rientrare nell’ambito di applicazione della direttiva. Per il settore tessile, del resto, la proposta risulta certamente inadeguata, proprio perché si dimentica delle micro e piccole imprese, oltre a non affrontare il problema delle pratiche commerciali sleali. Ancora, la catena del valore presa in considerazione è solo quella relativa alle relazioni commerciali consolidate e le imprese potrebbero decidere, allora, di cambiare «regolarmente» i loro fornitori per evitare di creare rapporti duraturi. Inoltre, la definizione di impatto ambientale negativo / impatto negativo sui diritti umani ha carattere selettivo e rinvia ad elenchi contenuti nell’allegato e relativi a convenzioni internazionali; ma importanti convenzioni non sono menzionate e c’è chi, d’altra parte, richiede di precisare quali siano i diritti umani ricompresi nella tutela della normativa, al fine di evitare il rischio di un mero slogan. Non si garantisce nemmeno in modo sufficiente la partecipazione degli stakeholders, perché le imprese, «solo se necessario», dovranno consultare i portatori di interesse in relazione all’identificazione degli impatti negativi e quando sviluppano piani d’azione preventivi e correttivi. Resta, infine, un problema di barriere all’accesso alla giustizia, che non garantisce alle vittime la riparazione del torto subito a livello di diritto internazionale privato e processuale dell’Unione.

 In definitiva, molti sono i dubbi e le carenze di questa proposta di Direttiva diretta a responsabilizzare in modo effettivo le imprese delle proprie azioni e garantire sostenibilità nel mercato. D’altra parte, in senso opposto, i più conservatori non sono d’accordo nel rendere «responsabili» le imprese delle modalità di produzione, distribuzione e vendita dei prodotti. Anzi, affermano che la Direttiva aggraverebbe in modo sproporzionato i loro obblighi, facendole diventare protettrici del pianeta e dei diritti umani. Ancora, si ritiene che una disciplina troppo restrittiva creerebbe un rischio di de-industrializzazione e si sostiene la compatibilità fra capitalismo e sostenibilità, auspicando un «profitto sostenibile» e una «governance sostenibile».

Da questi e altri progetti europei[48] potrebbe restare incerto, quindi, se la finalità perseguita dall’Unione Europea sia quella di tutelare la sostenibilità oppure se sia soltanto quella di ricercare nuove opportunità economiche per «guadagnare tempo»[49] e sopravvivere ai cambiamenti. Certo, parlando di «sostenibilità competitiva» nelle sue strategie, non sembra che l’Unione Europea abbia serie intenzioni di «cambiare rotta», ma intenda confermare, piuttosto, le sue pratiche neoliberali. Lascia riflettere, del resto, anche la proposta di Minouche Shafik per un «nuovo contratto sociale», che è stata pienamente appoggiata da Ursula von der Leyen e Christine Lagarde per «migliorare il mondo» e «la nostra vita sociale». Shafik ha individuato, in particolare, alcuni principi generali: Sicurezza per tutti, «la garanzia di disporre del minimo indispensabile per vivere una vita dignitosa», che «dipenderà da ciò che un paese può permettersi»; Massimo investimento nelle capacità,«creazione di opportunità che consentano ai cittadini di essere produttivi e di contribuire il più a lungo possibile al bene comune», ma anche «incentivi per ridurre tutte le cose che vorremmo diminuissero, come l’emissione di anidride carbonica e l’obesità»; Condivisione equa ed efficiente dei rischi,«tra gli individui, le famiglie, i datori di lavoro e lo Stato»[50].

4. La globalizzazione è un fatto artificiale, costruito dal neoliberalismo per il mercato e per i suoi operatori, ed è incompatibile con la tutela dell’ambiente e della società. Ebbene, se la sostenibilità sta guadagnando spazio, lo sta facendo solo lentamente proprio a causa di questa incompatibilità. Così, non si può dimenticare, innanzitutto, la presenza, già alla fine degli anni Ottanta, di alcune imprese «responsabili» accanto a quelle «irresponsabili». Mi riferisco soprattutto a due importanti aziende, Patagonia ed Esprit. I proprietari Yvon Chouinard e Doug Tompkins, che erano outdoorsmen, preoccupati dei danni ambientali derivanti dalla sovrapproduzione e dal sovra consumo, hanno deciso, infatti, di portare la sostenibilità nel business e di impiegare «le loro aziende come esempi di cambiamento». Hanno commissionato, allora, delle ricerche sull’impatto delle fibre impiegate nella produzione, che hanno poi condotto anche alla linea di abbigliamento ESPRIT Ecollection lanciata nel 1992[51].

Inoltre, da decenni ormai circolano delle guide per i consumatori green, critici, responsabili[52]. Queste guide, nate inizialmente per tutelare l’ambiente, sono diventate successivamente anche uno strumento critico nelle mani dei consumatori per valutare il comportamento delle imprese. Può stupire allora come già negli anni Settanta del secolo scorso, nel discorrere sui rapporti fra l’abbigliamento e l’ambiente, si faccia riferimento alle specie in via di estinzione e venga offerta una panoramica delle conseguenze che derivano dall’impiego del cotone, della lana e delle fibre sintetiche. Inoltre, nella guida si critica soprattutto l’abbigliamento «usa e getta» e i gravi costi per l’ambiente, perché i vestiti sono invece essenzialmente dei «beni durevoli». E si consiglia di non gettare, ma di modificare, donare ad amici, parenti e istituzioni che si occupano di abbigliamento usato, imparare a creare il proprio abbigliamento. Si evidenzia l’irragionevolezza nel «comprare un guardaroba che diventa obsoleto in un anno» e si raccomanda di non diventare «schiavi dei dettami degli esperti di moda»[53].

Le guide al consumo indirizzano in questo modo i consumatori in scelte consapevoli sul piano ambientale e sociale, trasferendo le necessarie informazioni per permettere di acquistare in modo sobrio e giusto. Testimoniano, altresì, l’evolversi della problematica nel tempo e l’avvicinarsi a un futuro mercato più «sostenibile». Si ricava, infatti, che le questioni ambientali e sociali hanno guadagnato lentamente sempre maggiore rilevanza per i consumatori, che abbisognavano di informazioni più chiare sui legami esistenti tra le condotte quotidiane e il degrado ambientale e sull’effettivo comportamento sociale e ambientale tenuto dalle imprese sul mercato.

Ma il processo è lento e il problema non è stato ancora risolto, come è dimostrato anche da una recente guida interamente dedicata all’abbigliamento, «The Conscious Closet»[54]. Elizabeth L. Cline ha volutoesaminare il rapporto fra le persone e il loro «guardaroba», a seconda del tipo di personalità rispetto alla moda, e ha suddiviso la guida in sei parti. Così, innanzitutto, indica le modalità per dire Goodbye, Fast Fashion!: donare, scambiare, riciclare e vendere in modo sostenibile ed etico per aiutare ad affrontare il problema dei rifiuti tessili. Seguono, poi, The Art of Less, l’arte di «comprare meno comprando vestiti migliori», investendo in qualità e facendo shopping con buon senso, e The Art of More, per stare al passo con le tendenze e il successo della rivendita non al dettaglio, del noleggio, dell’usato e del negozio vintage. The Sustainable Fashion Handbook mostra come scegliere fibre più ecologiche, eliminare le sostanze tossiche dal guardaroba e supportare i marchi all’avanguardia nella sostenibilità. Make it Last è anche un back-to basics training su come prendersi cura di ciò che si indossa, comprese abitudini di lavanderia sostenibili e tecniche di rammendo facili. L’ultima parte, The Fashion Revolution, invita a partecipare al movimento per cambiare collettivamente l’industria della moda, a conoscere le reali condizioni di sfruttamento dei lavoratori, la lotta per i salari dignitosi e come ritenere i marchi responsabili, a unirsi in organizzazioni di attivismo della moda per addivenire a un modello di economia alternativa orientato alla sostenibilità.

A questo riguardo non si può non menzionare, fra le diverse campagne di denuncia e di pressione dell’industria tessile globale, la Clean Clothes Campaign (CCC)[55] per la difesa della dignità del lavoro, che ha svolto un ruolo fondamentale nella battaglia per un vestire «critico». È nata in Olanda agli inizi degli anni Novanta insieme ad altri gruppi nel mondo, quando è cominciata «la fuga della produzione verso i paesi ad alta licenza di sfruttamento»[56]. Questa organizzazione[57], operante sia a livello nazionale che internazionale[58], ha creato una rete di contatti con diversi sindacati internazionali indipendenti, organizzazioni femminili, giornalisti e ricercatori in tutto il mondo. Ha organizzato campagne di sensibilizzazione sulle condizioni di lavoro esistenti nelle fabbriche e campagne di pressione sulle imprese responsabili. In particolare, ha redatto un codice di condotta collegato a un marchio di garanzia per assicurare che l’abbigliamento sia prodotto nel rispetto dei diritti fondamentali contenuti nelle risoluzioni e convenzioni dell’OIL riguardanti la libertà di associazione, la contrattazione collettiva, il salario minimo garantito, il divieto dello straordinario obbligatorio, il divieto di discriminazione, l’ambiente di lavoro sicuro e salubre, il divieto del lavoro minorile. Inoltre, alle imprese è stato richiesto di consentire controlli nelle fabbriche da parte di organismi indipendenti al fine di impedire che «il codice di condotta non sia solo un’operazione di facciata»[59]. Infine, per informare i consumatori e attirare la loro attenzione, la Campagna ha messo in circolazione diverso materiale informativo, ha organizzato assemblee, discorsi pubblici, manifestazioni e picchetti davanti ai negozi.

D’altra parte, se certamente molte problematiche sul consumo possono essere considerate comuni a diverse esperienze e possono essere risolte senza guardare i confini, un consumo responsabile è spesso anche il prodotto della cultura e della società in cui si vive e può variare da un’esperienza a un’altra. In altri termini, il consumo responsabile è caratterizzato dal contesto e ha le sue specificità locali, favorisce forme collettive e di collaborazione in comunità locali e incentiva il coinvolgimento e la partecipazione popolare nei processi decisionali di pianificazione in una prospettiva di rafforzamento democratico.

Restano da chiarire, inoltre, le tensioni esistenti fra le odierne democrazie «liberali» e l’importanza della sostenibilità. Le prime, infatti, sono soprattutto legate a una visione a breve termine e alla necessità della crescita economica, non prendono in seria considerazione la finitezza del pianeta, sostengono la libertà individuale e la concorrenza globale. Appoggiare la sostenibilità significa, invece, considerare l’impatto a lungo termine e l’equità intergenerazionale, valutare l’interconnessione ambientale, sociale ed economica e prendere sul serio i limiti della crescita, perseguire obiettivi e valori condivisi che includono la tutela della natura, la lotta contro le diseguaglianze e una prospettiva rivolta al futuro[60]. Di qui la necessità, non più rinviabile, di risolvere queste tensioni, supportata ormai dalle Carte costituzionali e dalle Corti di diversi paesi che intendono garantire la tutela della sostenibilità e delle future generazioni[61].

La dimensione spazialeche caratterizza la moda sostenibile, quindi, non può essere globale[62]. Da quando si è fatta strada, infatti, la globalizzazione con le sue aspirazioni universalistiche, si è verificato un progressivo allontanamento dalla visione «costituzionale» legata ai diritti per assumere una visione «funzionalista» e legata alle ragioni del mercato. Mentre la localizzazione, che è rivolta a tutelare i particolarismi e le identità, predilige «un modello di società che si può condensare nell’idea della centralità della persona e dei suoi diritti sociali»[63]. Di qui la necessità di un recupero di questa dimensione, non per affermare identità escludenti, ma «per combattere il mercato autoregolato e ottenere emancipazione sociale nel rispetto dell’ordine democratico» e per sostenere «il primato e l’autonomia della sfera politica rispetto alla sfera economica»[64]. Con il superamento della dimensione statuale, infatti, il livello globale non riesce ad assicurare un sistema efficace di tutela.

 Come è stato anche osservato, vi sono molte attività locali che «potrebbero essere difese e sviluppate per stabilire un equilibrio tra l’inevitabile, e anche utile, interdipendenza dovuta alla globalizzazione e il tasso di indipendenza che una comunità locale, che può essere una Regione, o qualcosa di abbastanza grande, dovrebbe comunque mantenere, puntando sulla qualità, sui saperi locali, sulle culture locali, ecc.»[65]. Spesso si utilizza il termine «glocal»[66], che raccoglie insieme la dimensione globale e quella locale, per evidenziare l’interconnessione dei fenomeni ambientali, sociali, culturali ed economici oltre i confini geopolitici e riconoscere al contempo le identità e le specificità delle singole realtà territoriali. Insomma, il binomio global-local, inteso comunemente come contrapposizione fra comunità universale e comunità locale, può non necessitare un rinnegamento o un’esclusione reciproca[67]. Ma si deve ritenere in questo caso che l’idea di globalizzazione debba essere intesa in modo differente dalla globalizzazione dell’economia di stampo neoliberale e dalla omogeneizzazione dei mercati.

In definitiva, l’era della globalizzazione, che preserva le relazioni e le economie a livello internazionale e aspira all’universalismo, si sta lentamente spegnendo, lasciando il posto, se non a una de-globalizzazione che presuppone un definitivo superamento della globalizzazione attraverso l’incentivazione dei mercati locali, almeno a una terra di mezzo. Una visione che consente di «pensare globale e agire locale» ed è capace, in questo modo, di superare la concorrenza mondiale e le maggiori disuguaglianze, la delocalizzazione e lo sfruttamento dei lavoratori, per esaltare la diversità culturale. Del resto, l’elemento culturale costituisce il fondamento di ogni società, mostra attenzione alle specificità dei contesti locali ed è formato da elementi storici, antropologici, sociologici, politici ed economici. Il riferimento alla cultura non è certamente nuovo al giurista ormai da qualche tempo, perché il diritto resterebbe vuoto se non fosse inserito all’interno di un discorso culturale e interdisciplinare[68]. Ed è nella storia che si rinvengono le cause della decadenza, ma anche le possibili vie per una ripresa.

Si può impiegare allora l’espressione glocalizzazione per richiamare l’attenzione sulle culture locali, mantenendo aperto il dialogo fra universalismo e particolarismo e in attesa di un ritorno al localismo. Discorrendo di fashion, in particolare, si può notare come essa non sia più «espressione del predominio dell’Occidente» rispetto alle altre culture. Superando i passati rapporti di potere, infatti, nell’era della globalizzazione hanno preso il sopravvento nuove egemonie economiche. Nel villaggio globale[69], inoltre, il vestire etnico è entrato nel mondo della moda come conseguenza dei flussi migratori, per imitazione di importanti stilisti occidentali o come espressione di identità da parte di stilisti locali attraverso un rinnovamento e una reinterpretazione dei costumi tradizionali[70]. Se così è, la moda non è più sinonimo di superiorità culturale, ma di identità culturale. Non è più separata e superiore alla tradizione, perché anche «la tradizione è diventata moda»[71].

Se la moda globale ha preferito il presente rispetto al passato, volendo riflettere «lo spirito dei tempi», negli ultimi tempi la corrente ha cominciato a dirigersi, invece, verso le tradizioni e i particolarismi. Del resto, gli studi di sociologia sulle correnti della moda spiegano che la moda, non appena si diffonde completamente, «non la si definisce più moda. Ogni crescita la conduce alla morte proprio perché annulla la diversità»[72].

La moda attuale si muove allora fluidamente tra il globale e il locale in cerca di una nuova direzione. In una dimensione in cui perdono di valore lo spazio, il tempo e la storia, le tradizioni e i costumi, invece, seguendo le migrazioni, sembrano rappresentare la nuova tendenza e stanno riconquistando una rilevanza sempre maggiore, «localizzando» il palcoscenico della moda globale. Ma è ancora troppo presto per parlare di una fashion revolution in direzione della sostenibilità e della de-globalizzazione.


[1] D. Harvey, The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural Change, Cambridge MA & Oxford UK, Blackwell, 1990, in part. p. 199 ss., 284 ss., si chiede «how have the uses and meanings of space and time shifted with the transition from Fordism to flexible accumulation?» e osserva che «we have been experiencing, these last two decades, an intense phase of time-space compression that has had a disorienting and disruptive impact upon political-economic practices, the balance of class power, as well as upon cultural and social life».

[2] S. Segre Reinach, La moda globale – XXI Secolo (2009), in treccani.it.

[3] L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Torino, Einaudi, 2005.

[4] La concezione attuale e complessa che si è venuta costruendo della sostenibilità si fa risalire comunemente al noto Rapporto Brundtland «Our Common Future» (Report of the World Commission on Environment and Development : Our Common Future, 20 March 1987), che può considerarsi il punto di arrivo di un percorso cominciato a delinearsi in termini più chiari già a partire dal 1972, quando è stato pubblicato l’altrettanto noto «Rapporto sui limiti dello sviluppo» (D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens III, The Limits to Growth. A Report for THE CLUB OF ROME’S Project on the Predicament of Mankind, New York, 1972). Nel Rapporto Brundtland lo «sviluppo sostenibile» è definito come «uno sviluppo che risponde ai bisogni del presente senza compromettere la possibilità, per le generazioni future, di poter rispondere ai loro propri bisogni» (p. 16 s.).

[5] R. Engelman, Beyond Sustainababble, in Worldwatch Institute, State of the World 2013: Is Sustainability Still Possible, Washington, Island Press, 2013, p. 3.

[6] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari, COM(2022) 141 final.

[7] Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la Direttiva (UE) 2019/1937, COM(2022) 71 final.

[8] Cfr. M. R. Ferrarese, Al di là della globalizzazione: verso un mondo post-globale?, in Politica del diritto, 2021, p. 259 ss.

[9] A. Somma, I limiti del cosmopolitismo. La sovranità nazionale nel conflitto tra democrazia e capitalismo, in Costituzionalismo.it, 2019, p. 17 ss. 

[10] Importanti storici hanno dimostrato, pur con differenti spiegazioni, che la culla del consumismo dovrebbe essere ricercata nel periodo della rivoluzione industriale del Seicento e del Settecento, rispettivamente in Olanda e in Inghilterra. Si vedano soprattutto N. McKendrick, J. Brewer, J.H. Plumb, The Birth of a Consumer Society. The Commercialization of Eighteenth-century England, 1982, Second Expanded Edition with new Introduction, Brighton, EER, 2018, p. 9, dove si parla di un «consumer boom» dalle «proporzioni rivoluzionarie»; J. Brewer and R. Porter (eds.), Consumption and the World of Goods, London and New York, Routledge, 1993; J. de Vries, The Industrious Revolution. Consumer Behavior and the Household Economy, 1650 to the Present, Cambridge University Press, 2008.

[11] F. Trentmann, Empire of Things. How We Became a World of Consumers, from the Fifteenth Century to the Twenty-first, 2016, trad. it. L’impero delle cose. Come siamo diventati consumatori. Dal XV al XXI secolo, Torino, Einaudi, 2017.

[12] G. Simmel, Fashion, in International Quarterly, 1904, p. 130 ss.; Philosophie der Mode, in Moderne Zeitfragen, hg. von H. Landsberg, Berlin, Pan-Verlag, 1905, p. 5 ss., trad. it. La moda e altri saggi di cultura filosofica, Milano, Longanesi, 1985, p. 29 ss., 31 ss.

[13] Il termine «società dei consumi» è stato impiegato, come è noto, dal secondo dopoguerra per indicare che nelle società occidentali il consumismo era diventato uno «stile di vita». Si veda già V. Lebow, Price Competition in 1955, in Journal of Retailing, Spring 1955, p. 1 ss., 3, che così spiega il significato di consumismo nella società capitalista statunitense: «our enormously productive economy demands that we make consumption our way of life, that we convert the buying and use of goods into rituals, that we seek our spiritual satisfactions, our ego satisfactions, in consumption. The measure of social status, of social acceptance, of prestige, is now to be found in our consumptive pattern (…)».

[14] Z. Bauman, Consuming Life, 2007, trad. it. Consumo, dunque sono, Roma-Bari, Laterza, 2010.

[15] Si veda D. Crane, Fashion and its Social Agendas. Class, Gender, and Identity in Clothing, Chicago and London, The University of Chicago Press, 2000.

[16] G. A. Field, The status float phenomenon. The upward diffusion of innovation, in Business Horizons, 1970, p. 45 ss. 

[17] H. Blumer, Fashion: From Class Differentiation to Collective Selection, in The Sociological Quarterly, 1969, p. 275 ss., 277 ss., 280 ss.

[18] C. Kidwell, M. Christman, Suiting Everyone: The Democratization of Clothing in America, Washington, DC, Smithsonian Institution Press, 1974.

[19] Tra i primi marchi più famosi di moda «veloce» si possono ricordare H&M, Zara e Primark. Il fenomeno è esploso negli anni Ottanta e un articolo del New York Times del 1989 ha impiegato per primo l’espressione fast fashion per annunciare l’apertura di due negozi a New York, Compagnie Internationale Express e Zara, e descrivere questa nuova modalità di produzione e vendita della moda: «One shop has a faux French accent and the other a real Spanish one, but they both speak the same fashion language. It’s a language understood by young fashion followers on a budget who nonetheless change their clothes as often as the color of their lipstick» (Two New Stores That Cruise Fashion’s Fast Lane, by Anne-Marie Schiro, December 31, 1989, p. 46). Sulla fast fashion, sostenibilità e responsabilità sociale, si veda, fra gli altri, M. K. Brewer, Slow Fashion in a Fast Fashion World: Promoting Sustainability and Responsibility, in R. E. Cerchia and B. Pozzo (ed.), The New Frontiers of Fashion Law, cit., p. 47 ss.

[20] G. Simmel, La moda, cit., p. 31 ss.

[21] M. Friedman, The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits, in The New York Times Magazine, September 13, 1970, pp. 33, 122 ss., il quale ha sostenuto che il vero dovere sociale delle imprese è di ottenere elevati profitti: «The businessmen believe that they are defending free enterprise when they declaim that business is not concerned “merely” with profit but also with promoting desirable “social” ends (…). In fact, they are (…) preaching pure and unadulterated socialism. Businessmen who talk this way are unwitting puppets of the intellectual forces that have been undermining the basis of a free society these past decades».

[22] A. B. Carroll, A History of Corporate Social Responsibility: Concepts and Practices, in A. Crane, A. McWilliams, D. Matten, J. Moon, and D. S. Siegel (eds.), The Oxford Handbook of Corporate Social Responsibility, Oxford, Oxford University Press, 2008, p. 19 ss.

[23] H. R. Bowen, Social Responsibilities of the Businessman (1953), University of Iowa Press, Iowa City, 2013, p. 3 ss., 6.

[24] L. Gallino, L’impresa irresponsabile, cit., p. VII, XIV, XVIII, il quale evidenzia che l’impresa irresponsabile è «l’esito di un modello strutturale di governo dell’impresa» diretto ad accrescere il valore di mercato della stessa e costituisce spesso «la mente e il braccio del capitalismo azionario».

[25] L. Gallino, Trasformazioni produttive e politiche del lavoro, intervento al convegno sulla riforma del diritto del lavoro tenutosi a Torino il 19 giugno 2012, consultabile su www.giuristidemocratici.it.

[26] Intervista a Luciano Gallino, a cura di Luciano Pregnolato, Fondazione Claudio Sabattini, Seminario Torino, 13 luglio 2013, p. 31 ss.

[27] Per altri riferimenti si vedano D. Thomas, Unfair Fashion, riva, 2020; G. Burckhardt, Todschick. Edle Labels, billige Mode – unmenschlich produziert, Heyne, 2014.

[28] J. K. Galbraith, The affluent society (1958), trad. it. La società opulenta, Milano, Etas Kompass, 1965, p. 129 ss., 159 ss.

[29] V. Packard, The Hidden Persuaders (1957, 1980), trad. it. I persuasori occulti, Torino, Einaudi, 2015, p. 35.

[30] Parla di homo ecologicus,o cittadino ecologico, P. Christoff, Ecological Citizens and Ecologically Guided Democracy, in B. Doherty and M. de Geus (ed.), Democracy and Green Political Thought. Sustainability, rights and citizenship, Routledge, 1996, p. 149 ss. Si veda anche P. Hay, Main Currents in Western Environmental Thought, Indiana University Press, 2002, p. 302 ss., sui rapporti fra ecologia, democrazia e postmodernismo. 

[31] Cfr. G. M. Eckhardt, R. Belk and T. M. Devinney, Why don’t consumers consume ethically?, in Journal of Consumer Behaviour, 2010, p. 426 ss., 427; D. Miller, The poverty of morality, in Journal of Consumer Culture, 2001, p. 225 ss.

[32] È ben nota la contrapposizione di Ralf Dahrendorf (Homo sociologicus. Uno studio sulla storia, il significato e la critica della categoria di ruolo sociale, con Introduzione e Premessa di F. Ferrarotti e Traduzione di P. Massimi, Nuova Edizione, Armando Editore, 2010) fra homo sociologicus e homo oeconomicus, fondata su una tipizzazione dei comportamenti umani.

[33] Per un rinvio ai tipi umani delineati da Dahrendorf, da utilizzare come punti di riferimento per il legislatore nella definizione della tutela dei consumatori, si veda A. Somma, Dal diritto dei consumatori al reddito di cittadinanza: un percorso neoliberale, in G. Conte, A. Fusaro, A. Somma, V. Zeno-Zencovich (a cura di), Dialoghi con G. Alpa. Un volume offerto in occasione del suo LXXI compleanno, RomaTrE-Press, 2018, p. 515 ss., 524 ss.; v. già Id., Il diritto dei consumatori è un diritto dell’impresa, in Politica del diritto, 1998, p. 679 ss., 680 ss.

[34] J. Randers, 2052. A Global Forecast for the Next Forty Years, 2012, trad. it. 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Milano, Edizioni Ambiente, 2012.

[35] K. Fletcher, Slow fashion, in Ecologist, 1st June 2007;Id., Slow Fashion: An Invitation for Systems Change, in Fashion Practice, 2010, p. 259 ss.

[36] Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015 (A/RES/70/1).

[37] Il Circular Economy Package, adottato dalla Commissione europea nel dicembre 2015, comprende un Piano d’azione (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, L’anello mancante – Piano d’azione dell’Unione europea per l’economia circolare, Bruxelles, 2.12.2015, COM (2015) 614 final) diretto a promuovere la transizione dell’Unione europea verso un’economia circolare e sostenibile mediante un aumento delle forme di riutilizzo e di riciclo, un impulso all’utilizzo efficiente delle risorse e alla competitività. Si vuole contribuire così a creare nuove opportunità commerciali, modi di produzione e di consumo sostenibili, innovativi e più efficienti e nuovi posti di lavoro.

Ricordo soltanto che il Trattato sull’UE menziona lo sviluppo sostenibile come uno degli obiettivi dell’UE: «L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente (…)» (Articolo 3(3)). Nel Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’UE si legge anche che l’Unione «cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile» e nella parte relativa alla solidarietà, accanto alla tutela dei lavoratori, dei consumatori e alla protezione della salute, l’Articolo 37 sulla «Tutela dell’ambiente» prevede che «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile».

[38] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, The European Green Deal, 11 dicembre 2019, COM (2019) 640 final, p. 2, 4 ss. Si veda anche la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Un nuovo piano d’azione per l’economia circolare. Per un’Europa più pulita e più competitiva, 10 marzo 2020, COM (2020) 98, p. 2.

[39] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni. Una nuova strategia industriale per l’Europa, 10 marzo 2020, COM (2020) 102 final, p. 1 ss., 2, 3. Accenna anche alla funzione di «bussola» del «pilastro europeo dei diritti sociali» per osservare che proprio «grazie all’economia di mercato sociale dell’Europa, la crescita economica va di pari passo con il miglioramento degli standard di vita e sociali e con buone condizioni di lavoro» (p. 3).

[40] Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council amending Directives 2005/29/EC and 2011/83/EU as regards empowering consumers for the green transition through better protection against unfair practices and better information, Brussels, 30.3.2022, COM (2022) 143 final.

[41] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari, cit.

[42] Ivi, p.1, 9 ss.

[43] Ivi, p. 1, 3, 7 ss.

[44] Ivi, p. 4 ss.

[45] Sul punto si può leggere anche la critica su La Strategia Europea per il Settore Tessile Circolare e Sostenibile, in www.abitipuliti.org, 15 aprile 2022.

[46] Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la Direttiva (UE) 2019/1937, cit.

[47] Si vedano, fra le altre, in Francia la Loi relative au devoir de vigilance des sociétés mères et des entreprises donneuses d’ordre, n.2017/399, in www.legifrance.gouv.fr., e in Germania il Gesetz über die unternehmerischen Sorgfaltspflichten in Lieferketten (LkSG) vom 16. Juli 2021, Bundesgesetzblatt Jahrgang 2021 Teil I Nr. 46, ausgegeben zu Bonn am 22. Juli 2021.

[48] Si veda la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Nuova agenda dei consumatori. Rafforzare la resilienza dei consumatori per una ripresa sostenibile, 13 novembre 2020, COM (2020) 696 final.

[49] W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli, 2013.

[50] M. Shafik, Quello che ci unisce. Un nuovo contratto sociale per il XXI secolo, Milano, Mondadori, 2021, in part. p. 196.

[51] Si vedano l’intervista a Lynda Grose, co-fondatrice della ESPRIT Ecollection, Refreshing Clothes and the Climate: An Interview with Lynda Grose, February 20, 2018, in www.climate.mit.edu, nonché Y. Chouinard & V. Stanley, The Responsible Company. What We’ve Learned from Patagonia’s First 40 Years, pb, 2012.

[52] Mi permetto di rinviare a M. Giorgianni, Un viaggio nella storia delle guide al consumo in cerca della nuova veste responsabile dei consumatori, in Politica del diritto, 2021, p. 359 ss. Tra le guide che si occupano anche dell’abbigliamento, si veda soprattutto Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Guida al vestire critico, Bologna, EMI, 2006.

[53] P. Swatek, The User’s Guide To The Protection Of The Environment. The indispensable guide to making every purchase count, New York, Friends of the Earth/Ballantine, 1970, p. 239 ss.

[54] E. L. Cline, The Conscious Closet. The Revolutionary Guide to Looking Good While Doing Good, Penguin, 2019.

[55] L. Sluiter, Clean Clothes. A Global Movement to end Sweatshops, Pluto Press, 2009; P. Balsiger, The Fight for Ethical Fashion. The Origins and Interactions of the Clean Clothes Campaign, Routledge, 2014.

[56] Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Guida al vestire critico, cit., p. 150 s.

[57] Campagna per i diritti dei lavoratori nel settore tessile di Janneke van Eijk, rappresentante dell’organizzazione olandese Clean Clothes Campaign, in Centro Nuovo Modello di Sviluppo, SUD-NORD, Nuove alleanze per la dignità del lavoro, Atti della conferenza di Pisa, 1-2-3 ottobre 1995, Bologna, EMI, 1996, p. 104 ss.

[58] Oggi la CCC è un network globale formato da 234 organizzazioni che collaborano mediante quattro coalizioni regionali presenti in Europa e in Asia. Interagisce anche con diverse organizzazioni nel Nord e Centro America e in Australia. In Italia la Campagna Abiti Puliti, che è una delle 14 coalizioni nazionali della CCC in Europa, è coordinata da Fair e composta da Altraqualità, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Fondazione Finanza Etica, Guardavanti Onlus, Movimento Consumatori, OEW, Hoferlab. Così, al fine di garantire un salario dignitoso in tutte le catene di fornitura dell’industria tessile, la campagna #PayYourWorkers ha chiesto a tutti i marchi di abbigliamento e ai distributori di rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori. Di rilievo è anche il recente Accordo Internazionale per la Salute e la Sicurezza nell’Industria Tessile e dell’Abbigliamento, che nell’agosto 2021 ha esteso e ampliato l’Accordo di Bangladesh per tutelare la sicurezza dei lavoratori al di là del Bangladesh. Per maggiori informazioni si possono visitare www.cleanclothes.org e www.abitipuliti.org.

[59] J. van Eijk, Campagna per i diritti dei lavoratori nel settore tessile, cit., p. 105.

[60] S. Viederman, The Economics of Sustainability: Challenges, 1995, che si chiede «can there be ecological sustainability in the absence of economic security, sustainable livelihoods, and popular participation in the conduct of their affairs?».

[61] Si possono vedere, a titolo esemplificativo, la recente introduzione nella nostra Carta costituzionale della tutela della sostenibilità e delle future generazioni agli artt. 9 e 41, e in Germania l’Art. 20a GG e la decisione del BVerfG del 24 marzo 2021 (1BvR 2656/18 u.a.), che ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge sulla protezione del clima, Klimaschutzgesetz del 2019. Cfr. negli Stati Uniti la recente decisione della Supreme Court of the United States, West Virginia et al. v. Environmental Protection Agency et al., no. 20-1530, 597 US_(2022), June 30, 2022, che sconta la polarizzazione a favore del fronte conservatore con sei giudici su nove di nomina repubblicana.

[62] Cfr. R. Leal-Arcas, Sustainability, Common Concern and Public Goods, in The Geo. Wash. Int’l L. Rev., 2017, p. 801 ss.Sui rapporti fra la dimensione globale e locale si veda C. Amato, G. Ponzanelli (a cura di), Global law v. Local law. Problemi della globalizzazione giuridica, Torino, Giappichelli, 2006, che raccoglie gli Atti del 17. Colloquio biennale dell’Associazione italiana di diritto comparato (Brescia, 12-14 maggio 2005).

[63] Si veda G. Azzariti, Diritto o barbarie. Il costituzionalismo moderno al bivio, Roma e Bari, Laterza, 2021.

[64] A. Somma, I limiti del cosmopolitismo. La sovranità nazionale nel conflitto tra democrazia e capitalismo, cit., p. 33 ss.

[65] Intervista a Luciano Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, 23 febbraio 2002, in www.circolidossetti.it

[66] Si riprende l’espressione coniata da R. Robertson e poi impiegata da Z. Bauman. Si vedano R. Robertson, Globalization. Social Theory and Global Culture, London, Sage, 1992, p. 173; Id., Globalization or Glocalization?, in The Journal of International Communication, 1994, p. 33 ss.; Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Roma, Armando Editore, 2005.

[67] Cfr. G. Marini, Diritto e politica. La costruzione delle tradizioni giuridiche nell’epoca della globalizzazione, in Pòlemos, 2010, p. 31 ss., 34, il quale osserva che la tendenza attuale è per un’esaltazione delle differenze e non più delle somiglianze. Una ricerca delle identità, ma non certo per affermare la superiorità o la prevalenza di un’esperienza sulle altre. Piuttosto si vogliono «mettere in competizione fra loro ordinamenti diversi» nel quadro globale.

[68] Porre al centro dello studio la cultura, la legal culture, consente così di distinguere le diverse esperienze, passando dai «sistemi giuridici» e dalle «tradizioni giuridiche». Si veda J. H. Merryman, The Civil Law Tradition, An Introduction to the Legal Systems of Europe and Latin America, Third Edition, SUP, 2007.

[69] M. McLuhan, B.R. Powers, The Global Village. Transformations in World Life and Media in the 21st Century, Oxford University Press, 1989.

[70] Così S. Segre Reinach, La moda globale, cit. Solo per fare alcuni esempi di stilisti e marchi caratterizzati dalla fusione del tradizionale con il moderno, basti pensare alla Peruvian Connection, che ormai esporta regolarmente negli Stati Uniti, e a famosi stilisti africani, come Pathé’O, che ha ideato le camicie in pagne di Nelson Mandela e possiede più di venti negozi in Africa, o Duro Olowu, miglior nuovo designer dell’anno ai British Fashion Awards del 2005, che veste anche Michelle Obama. 

[71] S. Segre Reinach, La moda globale, cit.

[72] G. Simmel, La moda, cit., p. 36.

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