Enrico Damiani
Prof. ord. di diritto civile dell’Università degli Studi di Macerata
Le sentenze in commento offrono l’occasione di soffermarsi sulla questione degli acquisti a titolo originario dei beni mobili culturali.
The judgments under comment provide an opportunity to dwell on the issue of original purchases of movable cultural goods.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il problema dei beni mobili “culturali” 3. Acquisti a non domino e beni culturali
1. Alcune recenti decisioni della Suprema Corte ripropongono la questione della possibilità di fare ricorso alla regola del “possesso vale titolo” prevista dall’art. 1153 c.c., o a quella dell’usucapione” prevista dall’art. 1161 c.c. con le restrizioni desumibili dall’art. 1163 c.c., relativamente agli acquisti di beni mobili culturali a non domino.
Nella sentenza della II sezione della Cass., n. 4455 del 14 febbraio 2019 un collezionista ha acquistato un violino Guarnieri da un liutaio mediante lo scambio con un violino Guadagnini e un conguaglio di Euro 150.000,00. Successivamente costui subiva un sequestro penale a seguito della denuncia del legittimo proprietario che ne aveva rivendicato la proprietà.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello respingevano la domanda del collezionista tesa ad accertare la sussistenza dei presupposti dell’acquisto a non domino in forza della regola del possesso vale titolo (art. 1153 c.c.) in quanto nella fattispecie si individuava quella colpa grave nell’ignoranza di ledere l’altrui diritto che, in base al secondo comma dell’art. 1147 c.c., esclude che il possesso possa giovare al soggetto detentore del bene.
Nella sentenza sempre della II sezione della Cass., n. 5349 del 18 febbraio 2022, tra le altre questioni concernenti l’applicazione del diritto internazionale e segnatamente dell’art. 3 della Convenzione Unesco del 1970 (ratificata in Italia con l. n. 873/1975), la S.C. esclude in capo all’acquirente di manufatti di arte precolombiana la sussistenza della buona fede, non avendo lo stesso dato prova di trovarsi “nella condizione di non poter ragionevolmente sapere dell’illegittima provenienza del bene e, soprattutto, di aver agito con la dovuta diligenza in occasione dell’acquisto”. Nella sentenza viene anche specificato “che non costituisce titolo idoneo, ai fini dell’applicazione del principio “possesso vale titolo”, di cui all’art. 1153 c.c., il contratto di acquisto di un bene avente natura storico-culturale stipulato in base ad una normativa nazionale contrastante con il divieto di esportazione illegale, ovvero non autorizzata, di detti beni sancito dall’art. 3 della Convenzione Unesco”.
Entrambe le pronunce suggeriscono, per i profili testé evidenziati, una trattazione congiunta che, partendo dalla nozione di bene mobile culturale, consenta, da un lato, di verificare l’applicabilità in astratto ai beni culturali della disciplina prevista per i cd. acquisti a non domino, e dall’altro di verificare se, mediante una interpretazione sistematica ed assiologica delle norme esistenti, sia possibile individuare dei valori cardine che suggeriscano una particolare chiave di lettura delle vicende circolatorie dei beni culturali.
2. Nell’ambito della categoria dei beni mobili va individuata in particolare la nozione di bene culturale non solo avuto riguardo all’ordinamento italo-comunitario e più in generale internazionale, ma anche alla luce della teoria dei beni[1], in forza della quale il bene viene valutato sulla scorta della funzione[2] che deve svolgere e in base agli interessi che deve soddisfare che, in alcuni casi, travalicano quelli del soggetto titolare fino al punto da essere considerati interessi della collettività o finanche dell’umanità.
Autorevole dottrina[3] identifica i beni culturali come tertium genus rispetto ai mobili ed agli immobili: essi vengono ricondotti alla più ampia categoria dei “beni comuni” nella quale sono ricompresi, tra gli altri «i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate».
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[4], richiamate in senso adesivo anche dalla Corte costituzionale[5], hanno delineato le linee essenziali di un nuovo rapporto tra beni privati e pubblici, ponendo in luce «il dato “essenziale” della centralità della persona (e dei relativi interessi)» nonché «l’esigenza interpretativa di “guardare” al tema dei beni pubblici oltre una visione prettamente patrimoniale-proprietaria per approdare ad una prospettiva personale-collettivistica».
Dunque il principio della «massima attuazione» della Costituzione, per citare ancora le parole di Salvatore Pugliatti, trova concretizzazione nella giustificazione del sacrificio dello sfruttamento produttivo e della sua subordinazione alle preminenti esigenze esistenziali, divenendo la funzione sociale dato normativo utile ad indirizzare la disciplina dell’appartenenza e dell’utilizzazione dei beni. Tali risultati sono inoltre avvalorati sulla scorta delle norme europee[6], segnatamente gli artt. 345 TFUE (ex art. 295 del Trattato)[7] e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[8] come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Nella stessa direzione, una recente dottrina[9] ha ben evidenziato come la riconduzione del bene culturale alla teoria generale dei beni non possa essere assolutizzata. Da un lato, infatti, il bene culturale va riportato nell’ambito della teoria generale dei beni per individuarne gli aspetti salienti connessi alla sua titolarità, ai poteri di disposizione e di godimento, dall’altro esso va considerato come un bene a destinazione “universale”[10] che deve svolgere contemporaneamente la funzione di servizio alla persona umana e alla comunità sociale anche alla luce degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
In questo contesto si arriva a sostenere[11] che la proprietà dei beni culturali, sia privata che pubblica, non può sottrarsi allo scopo universale-educativo. Pur potendo il titolare del bene disporre delle situazioni giuridiche anche patrimoniali connesse alla titolarità del bene stesso deve essere riconosciuto che il titolare funzionale del bene è l’universalità dei consociati, l’umanità intera. Tale assunto esclude che i beni universali siano soggetti a prescrizione o usucapione ad altre forme di utilizzazione che escludano la possibilità di una fruizione universale.
3. Il codice dei beni culturali, è stato di recente fatto notare[12], è stato modellato sulla teoria classica della proprietà ed è pertanto orientato verso una concezione privatistica della proprietà dei beni culturali.
In tale contesto va rimeditata l’idoneità degli istituti classici del diritto civile a regolare situazioni giuridiche e beni, quali quelli che stiamo trattando, rispetto ai quali si pongono nuove esigenze di salvaguardia, tutela, conservazione e valorizzazione.
È noto come una autorevole dottrina[13] abbia evidenziato la centralità del concetto di interesse nella individuazione dei vari statuti proprietari, di guisa che l’importanza di un bene non va valutata esclusivamente alla stregua dell’interesse del suo titolare, ma anche alla luce degli interessi di terzi qualificati che possono ricavare un’utilità, non necessariamente economica, dalla sua conservazione. In tale contesto si è individuato[14] nel bene culturale, un classico esempio di prevalenza dell’interesse collettivo su quello egoistico-patrimoniale del suo titolare.
A questo punto, avendo sinteticamente evidenziato le coordinate all’interno delle quali inscrivere questa breve indagine, si può tentare una ricostruzione, la più attendibile possibile, circa la applicabilità o meno di alcuni istituti classici del diritto civile in relazione al tema della circolazione dei beni culturali.
Analizziamo in primis visto il richiamo effettuato in entrambe le sentenze oggetto di osservazione se si possa dare applicazione alla regola possesso vale titolo (art. 1153 c.c.), in riferimento agli acquisti a non domino di beni culturali.
In dottrina sono presenti orientamenti che escludono categoricamente la possibilità di applicazione di tale regola ai beni culturali[15] ed altri che invece la ammettono con la sola eccezione dei beni culturali pubblici e quindi demaniali[16].
Autorevole dottrina[17] aveva con chiarezza affermato la necessità di limitare l’applicazione dell’art- 1153 c.c. ai soli casi nei quali fosse ravvisabile un interesse collettivo alla sicurezza e alla celerità della circolazione, cosa certamente non evincibile per i beni culturali.
Tra i tentativi tesi a sottrarre la categoria dei beni culturali dalla previsione dell’art. 1153 c.c. va evidenziato quello di chi[18] ha autorevolmente sostenuto che detti beni rappresenterebbero una sorta di tertium genus rispetto ai mobili e agli immobili.
La Corte di Cassazione – nei casi citati nella parte iniziale di questo contributo ed anche in altri casi[19], ha escluso la buona fede dell’acquirente a non domino concludendo per il mancato perfezionamento dell’acquisto in capo ad esso, in quanto quasi sempre si tratta di un esperto collezionista dei beni culturali appartenenti alla stessa categoria del bene acquistato di provenienza furtiva.
Quindi la impossibilità di ricomprendere i beni culturali nell’ambito di applicabilità della regola “possesso vale titolo” può discendere sia dalla esclusione della buona fede in capo all’acquirente che ai sensi del secondo comma dell’art. 1147 c.c. non può giovarsene se essa deriva dall’ignoranza di ledere l’altrui diritto per colpa grave, sia argomentando che l’art. 1153 c.c. dovrebbe potersi applicare solo agli acquisti di beni culturali meno rilevanti, non certamente all’intera categoria[20].
Discorso analogo può essere fatto in relazione alla astratta applicabilità dell’istituto della usucapione ai beni culturali[21].
Tale istituto rappresenta un ulteriore modo di acquisto della proprietà a titolo originario; il diritto acquistato in forza di esso è del tutto nuovo e diverso rispetto al diritto appartenente al precedente titolare.
Per i beni mobili l’usucapione è espressamente prevista dall’art. 1161 c.c., il cui ambito di applicazione ricomprende anche l’eventualità in cui l’acquisto sia avvenuto a non domino, in forza di un titolo invalido o putativo.
Elemento imprescindibile ai fini dell’acquisto per usucapione è il possesso che, ai sensi dell’art. 1140 c.c., consiste nella materiale disponibilità della res (corpus possidendi). Inoltre è richiesto che il possessore si comporti come se fosse proprietario della cosa (animus possidendi), e che ci sia anche il decorso di un determinato periodo di tempo.
Relativamente ai beni mobili non registrati, l’art. 1161 c.c. dispone che il tempo per usucapire il bene è pari a 10 anni se il possesso è stato acquistato in buona fede, mentre è necessario il decorso di 20 anni se il possessore è in mala fede.
La buona fede è intesa in questo contesto in senso soggettivo, come ignoranza di ledere un altrui diritto ex art. 1147 c.c. e, ma differentemente da quanto previsto dall’art. 1153 c.c., essa non costituisce un requisito necessario del possesso ai fini dell’usucapione.
L’art. 1161 c.c. deve essere letto congiuntamente all’art 1163 c.c. in base al quale “il possesso acquistato in modo violento o clandestino non giova per l’usucapione se non dal momento in cui la violenza o la clandestinità è cessata”.
La seconda sezione della Corte di Cassazione, facendo espressamente riferimento all’art. 1163, con la sentenza n. 16059, depositata in data 14 giugno 2019, e l’ordinanza n, 11465 del 30 aprile 2021 ha stabilito che per aversi “possesso non clandestino”, il possessore deve fornire la prova che l’opera sia stata visibile a tutti tramite la sua esposizione in mostre, musei o pubblicazioni, mentre non è sufficiente, al fine di integrare un utile possesso ad usucapionem, che l’opera fosse stata esposta nella scala di un palazzo adibito a residenza familiare, il cui atrio costituiva anche la reception dell’azienda farmaceutica di proprietà della famiglia medesima, ovvero che essa fosse stata collocata su di una parete all’interno di una abitazione privata anche se frequentata da altre persone.
La Corte ha ritenuto che il requisito della non clandestinità del possesso deve essere riferito “non agli espedienti che il possessore potrebbe attuare per apparire proprietario, ma al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile a tutti o almeno ad un’apprezzabile e indistinta generalità di soggetti”.
Le decisioni testé citate sono state fatte oggetto di critiche. Da un lato, infatti, pur riconoscendo che costituisca fatto notorio la circostanza che in Europa siano presenti molte opere d’arte frutto di razzie operate durante la guerra si è proposto, per non mettere a rischio il mercato dell’arte, che, nel rispetto di quanto statuito dall’art. 64 del codice dei beni culturali che prevede l’obbligo per il venditore dell’opera d’arte di fornire al compratore l’attestato di provenienza, la buona fede debba essere valutata in base al valore e al pregio dell’opera acquistata e al contesto nel quale si opera[22].
Altri[23] hanno criticato fortemente l’assunto della S.C. secondo cui per qualificare “non clandestino” il possesso è necessario che lo stesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, in modo visibile ad almeno una apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti e non solo ad una limitata cerchia di persone che siano in particolare relazione con il possessore. Tra le modalità che secondo la Cassazione si dovrebbe palesare la non clandestinità del possesso, ci sarebbe la esposizione a mostre o l’inserimento in pubblicazioni specializzate. In oste, secondo la dottrina da ultimo citata, la S.C. confonderebbe il possesso “non clandestino” che richiede sufficientemente che non vi siano impedimenti alla sua conoscibilità, con il possesso “pubblico” per il quale debbono ricorrere delle pratiche ostentative. Bisognerebbe inoltre tener conto del fatto che molti collezionisti, per questioni di riservatezza o per il timore di subire furti o rapine, sono poco disposti ad esporre pubblicamente le loro opere d’arte, ma non per questo motivo il possesso da essi esercitato su di esse deve essere considerato clandestino e, quindi, inidoneo a perfezionare l’usucapione.
Cassazione civile, sez. II, 14 febbraio 2019, n. 4455; rel. Tedesco; S.M. (Avv.ti Manferdini, A. Federici, N. Federici); M.V. (Avv. D’Apote)
Possesso – acquisto a non domino – beni mobili – buona fede – ignoranza di ledere l’altrui diritto dipendente da colpa grave – esclusione
Il concetto della buona fede, di cui all’art. 1153 c.c. che determina l’acquisto della proprietà di beni mobili da parte dell’acquirente a non domino, per effetto del solo acquisto del possesso, corrisponde a quello dell’art. 1147 c.c. La buona fede rilevante per il diritto ha carattere psicologico e portata etica, per cui si concentra in un comportamento conforme ai criteri della normale diligenza e prudenza. Essa, pertanto, non giova all’acquirente, se l’ignoranza di ledere l’altrui diritto dipende da colpa grave
Provvedimento:
FATTI DI CAUSA
Secondo la descrizione dei fatti operata con il ricorso, S.A. ha acquistato da L.C.P., liutaio con atelier in (OMISSIS), un violino Guarnieri per il prezzo di Euro 450.000,00, pagato in parte mediante bonifico bancario di Euro 150.000,00 e, per la restante parte di Euro 300.000,00, mediante cessione in permuta dal proprio violino Guadagnini.
Il S. ha conseguito il possesso del violino Guarnieri, del quale ha poi subito il sequestro penale, scoprendo così che lo strumento acquistato non era di proprietà del liutaio che glielo aveva venduto, ma di un terzo, Victor M., che ne aveva rivendicato la proprietà.
Il giudizio di primo grado – iniziato dal S. davanti al Tribunale di Roma nei confronti di M.V., L.C.P. e C.L. S.r.l. al fine di fare accertare l’esclusiva proprietà del violino in capo all’attore, avendone egli conseguito il possesso in buona fede in forza di titolo idoneo – si concludeva negativamente per l’attore.
Il tribunale rigettava anche la domanda subordinata di risoluzione del contratto di vendita del violino, che l’attore aveva rivolto nei confronti del L..
Il giudice di primo grado accoglieva la domanda riconvenzionale del M., accertando che il violino oggetto di causa, sottoposto a sequestro penale, era di proprietà del medesimo M. e a lui doveva essere restituito.
La Corte d’appello di Roma confermava la sentenza in ordine alla proprietà del violino in capo al M., mentre la riformava in ordine al rapporto fra l’attore e il liutaio L., che condannava a restituire al S. l’importo ricevuto in previsione della vendita.
La corte d’appello riteneva che non vi fosse prova della conclusione di un contratto di vendita fra il L. e il S., conseguendo da ciò l’assenza, nella specie, del titolo astrattamente idoneo, con il concorso della buona fede dell’acquirente, a giustificare l’acquisto della proprietà del violino in forza della regola possesso vale titolo.
La corte di merito non disconosceva la buona fede del S., ma considerava la stessa buona fede inefficace, in quanto dipendente da colpa grave.
Secondo la corte d’appello le risultanze probatorie convergevano univocamente nella direzione indicata dal tribunale, ossia l’assenza di qualsivoglia attenzione da parte del S. nell’accertare l’effettiva proprietà del Guarnieri in capo al L..
Quanto all’ulteriore fatto, invocato dal S. nel giudizio, che egli era stato assolto dall’imputazione del reato di incauto, la corte osservava che la sentenza di assoluzione non era vincolante nel giudizio civile. Osservava inoltre che il S. non aveva prodotto la motivazione della sentenza di assoluzione, impedendo con ciò anche la possibilità di valutare liberamente le circostanze accertate in sede penale.
Per la cassazione della sentenza il S. ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi.
Il M. ha resistito con controricorso.
Gli altri intimati sono rimasti tali.
Le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1147 e 1153 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Si sottolinea che, nell’ambito della fattispecie prevista dall’art. 1153 c.c., la buona fede è presunta.
Pertanto, compete a chi contesta l’applicabilità della regola possesso vale titolo offrire la prova contraria.
Il motivo è inammissibile.
La sentenza ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte (Cass. n. 23586/2015; n. 8804/2016).
Il concetto della buona fede, di cui all’art. 1153 c.c. che determina l’acquisto della proprietà di beni mobili da parte dell’acquirente a non domino, per effetto del solo acquisto del possesso, corrisponde a quello dell’art. 1147 c.c. La buona fede rilevante per il diritto ha carattere psicologico e portata etica, per cui si concentra in un comportamento conforme ai criteri della normale diligenza e prudenza. Essa, pertanto, non giova all’acquirente, se l’ignoranza di ledere l’altrui diritto dipende da colpa grave (Cass. n. 516/1966).
In particolare versa in colpa grave chi non si sia accorto della lesione dell’altrui diritto solo perchè ha omesso di usare quel minimo di comune diligenza che è proprio di ogni persona avveduta (Cass. n. 7202/1995; n. 9782/1999).
“Non intellegere quod omnes intellegunt costituisce un errore inescusabile incompatibile con il concesso stesso di buona fede” (Cass. n. 1593/2017).
Essendo la buona fede dell’acquirente a non domino di bene mobile presunta, spetta a chi rivendichi il bene, al fine di escludere in favore del possessore gli effetti di cui all’art. 1153 c.c., di fornire la prova della malafede o della colpa grave del possessore medesimo, al momento della consegna. Tale prova può essere data anche mediante presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, e tali da prevalere sull’indicata presunzione legale (Cass. n. 4328/1997; n. 2178/1976).
Il giudizio sulla sussistenza o meno della buona fede importa un apprezzamento di fatto, che si sottrae al sindacato di legittimità, ove sorretto da esauriente motivazione ed ispirato ad esatti criteri giuridici (Cass. n. 1570/1967; Cass. n. 1986/1969).
Ebbene la corte d’appello ha compiuto tale indagine sulla sussistenza dell’elemento psicologico della fattispecie; non ha negato la buona fede, ma ha riconosciuto che l’ignoranza non giovava all’acquirente, perchè dipendeva da colpa grave.
Tale valutazione, ampiamente e congruamente con riferimento a tutti gli elementi indicati dal ricorrente, si sottrae al sindacato di legittimità.
Con il motivo ora in esame il ricorrente evidenzia che il L., il quale aveva la disponibilità del violino, era in qual momento “l’unico soggetto legittimato a venderlo, in tesi in forza di contratto estimatorio, in ipotesi in forza di mandato a vedere. Il fatto che il L. sia stato condannato a restituire parte del prezzo, al limite, è prova dell’avvenuto contratto. Il possesso comunque fa titolo”.
Al riguardo la corte d’appello (pag. 20) ha rilevato che “la prospettazione della domanda avanzata dal S. non era fondata sulla legittimità dell’acquisto dal L. in quanto mandatario, bensì sulla consegna in forza di titolo idoneo al trasferimento della proprietà, nella consapevolezza che il L. fosse proprietario dello strumento, di talchè l’esistenza del rapporto di mandato è del tutto ininfluente ai fini della valutazione del requisito del buona fede”.
Tale valutazione non ha costituito oggetto di censura.
Solo per completezza di esame si precisa che l’art. 1153 c.c. si applica all’alienazione in nome proprio della cosa altrui, dovendosi escludere dalla tutela dell’art. 1153 c.c. chi acquista una cosa altrui, credendo tuttavia che l’alienante abbia il potere di trasferirgli la proprietà.
Insomma, qualora la cosa mobile sia stata alienata dal rappresentante senza potere del proprietario, non si verifica l’acquisto in base al possesso di buona fede (Cass. n. 4870/1979).
2. Il secondo motivo denuncia omessa, insufficiente contraddittoria motivazione circa l’esclusione della buona fede del S. al momento dell’acquisto del violino Guarnieri.
Il motivo è inammissibile.
In disparte l’improprietà della rubrica, che denuncia un “vizio di motivazione” che non è più compreso fra i motivi di ricorso in base al testo attuale dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis (cfr. Cass., S.U., n. 8053/2014), con il motivo in esame il ricorrente sollecita un riesame per sè favorevole degli elementi probatori accertati: ciò in cassazione non è consentito.
“La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge” (Cass. n. 19547/2017; n. 17477/2007).
Con il secondo motivo ora in esame il ricorrente si duole inoltre della mancata ammissione dellè intese a dimostrare le circostanze che ne avevano giustificato la propria assoluzione dal reato di incauto acquisto.
Tale censura è inammissibile per difetto di specificità, in quanto con essa “il ricorrente si duole della valutazione rimessa al giudice del merito, quale è quella di non pertinenza della denunciata mancata ammissione della prova orale rispetto ai fondamenti della decisione, senza allegare le ragioni che avrebbero dovuto indurre ad ammettere tale prova, nè adempiere agli oneri di allegazione necessari a individuare la decisività del mezzo istruttorio richiesto e la tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione” (Cass. n. 8204/2018).
Vi è da aggiungere che i fatti indicati nei capitoli sono compresi nella complessiva valutazione della corte di merito e, in ogni caso, essi, nell’ambito di quella stessa valutazione, sono privi di decisività e quindi inidonei “a invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento” (Cass. n. 5654/2017).
3. Il terzo motivo denuncia omessa insufficiente motivazione, rimproverandosi alla corte di non avere riconosciuto che la sentenza penale di assoluzione resa fra le spesse parti faceva stato nel giudizio, e ciò anche in violazione dell’art. 654 c.p.p. (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).
Il quarto motivo denuncia omessa esame circa un fatto decisivo per il giudizio costituito dalla sentenza penale del tribunale di Roma n. 22191/2013, in violazione dell’art. 654 c.p.c. con valore di giudicato esterno.
I motivi sono infondati.
La corte d’appello ha considerato la sentenza penale di assoluzione, affermando che tale sentenza, non essendo passata in giudicato, non faceva stato nel giudizio civile.
Essa ha aggiunto che la mancata produzione della motivazione della sentenza impediva di valutare anche l’eventuale valore indiziario delle circostanze accertate in sede penale.
Il ricorrente deduce ora che la sentenza di assoluzione è passata in giudicato, ma, a un attento esame, tale rilievo, contestato dal controricorrente, non modifica i termini della questione, perchè l’assoluzione in sede penale non è comunque invocabile nel presente giudizio, la cui soluzione non dipende dagli stessi fatti accertati in sede penale (Cass. n. 16080/2016).
Questa Suprema Corte ha chiarito che l’elemento psicologico necessario a integrare la contravvenzione di cui all’art. 712 c.p. (l’agente deve avere motivo di ritenere che le cose acquistate provengano da reato) è diverso dalla colpa grave di cui si è detto (consistente nella non ragionevole comune opinione di acquistare da chi può legittimamente disporre della cosa, sì che, anche esclusa la responsabilità penale dell’accipiens ex art. 712 c.p., il giudice civile resta libero di ritenere sussistente la colpa, grave onde escludere la buona fede nell’acquisto (Cass. n. 1177/1950; Cass. n. 1568/1958; Cass. n. 100/1964).
Il progetto preliminare al codice civile precisava, all’art. 543, che “si considera esservi colpa grave quando sussistono gli estremi dell’incauto acquisto”. Si osserva in dottrina che la disposizione è stata opportunamente abbandonata perchè, mentre intendeva dire cosa ovvia (la condanna penale ex art. 712 c.p. obbliga l’acquirente a restituire la cosa, escludendo l’applicabilità dell’art. 1153 c.c. da parte del giudice civile), poteva prestarsi ad essere interpretata nel senso di una coincidenza del concetto civilistico di colpa grave col concetto penalistico di incauto acquisto, laddove il primo è diverso è più ampio. L’assoluzione dell’acquirente da responsabilità penale per incauto acquisto non impedisce che il giudice civile possa tuttavia accertare gli estremi della colpa grave per negare il beneficio dell’art. 1153 c.c.
In conclusione il ricordo deve essere rigettato, con addebito di spese.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo del versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; dichiara ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Omissis.
Cassazione civile, sez. II, 18 febbraio 2022, n.5349; rel. Carrato; T.M. e T. srl (Avv.ti Sirena, Penco); Consolato Generale del Perù (Avv. Celli); Consolato generale Repubblica del Cile (Avv. Sgotto Ciabattini)
Ordine pubblico e buon costume – Ordine pubblico internazionale – Compravendita di beni mobili di interesse storico culturale perfezionatasi all’estero – Applicazione delle convenzioni internazionali unesco – Nullità del titolo di acquisto – Inconfigurabilità possesso vale titolo
In materia di compravendita di beni mobili di interesse storico – culturale perfezionatasi all’estero, l’accertamento in ordine alla proprietà dei beni in contesa è regolato, ai sensi dell’art. 51 della l. 218 del 1995, dalla legge dello Stato in cui i beni si trovavano all’atto del perfezionamento della fattispecie acquisitiva, salvo che, a norma dell’art. 16 della medesima l. 218 del 1995, l’applicazione della legge straniera determini effetti contrari ai principi di ordine pubblico, tra i quali rientra, alla luce della Convenzione Unesco di Parigi del 1970, ratificata dall’Italia con l. 873 del 1975, la tutela di beni aventi natura storico – culturale. Ne consegue che non costituisce titolo idoneo, ai fini dell’applicazione del principio “possesso vale titolo”, di cui all’art. 1153 c.c., il contratto di acquisto di un bene avente natura storico – culturale stipulato in base ad una normativa nazionale contrastante con il divieto di esportazione illegale, ovvero non autorizzata, di detti beni sancito dall’art. 3 della Convenzione Unesco.
Provvedimento:
Omissis. RITENUTO IN FATTO
1. Con atto di citazione notificato nel novembre 2011 il sig. T.M., in proprio e quale legale rappresentante pro-tempore della T. s.r.l., conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, il Consolato Generale della Repubblica del Cile, il Consolato Generale della Repubblica del Perù, nonché personalmente i rispettivi Consoli C.N.J. e A.A.M., esponendo: – che nel giugno 2008 il P.M. presso il Tribunale di Milano, all’esito di una segnalazione dei c.c., aveva sottoposto a sequestro 21 manufatti di arte precolombiana da lui acquistati, quale titolare di una galleria d’arte milanese specializzata nel campo dell’arte tessile, procedendo nei suoi confronti, tra l’altro, per il reato di ricettazione; – che i beni sequestrati a fini probatori erano stati consegnati, mediante decreto cautelare emesso dallo stesso P.M. procedente, ai Consolati del Perù e del Cile, i quali ne avevano, però, rifiutato la restituzione invocando le prerogative garantite agli uffici consolari di diritto internazionale; – che il decreto da ultimo citato era stato revocato dal GIP, con provvedimento confermato dalla Corte di cassazione penale, essendone stata rilevata l’abnormità; – che esso attore aveva, quindi, ottenuto in sede cautelare dal Tribunale di Milano il sequestro conservativo dei tessuti di arte e l’ordine di restituzione in suo favore degli stessi in qualità di custode.
Sulla base di tale rappresentazione della vicenda fattuale, chiedeva che venisse accertato e dichiarato il suo diritto di proprietà su detti beni nonché che i convenuti fossero condannati al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.
Si costituiva in giudizio il Consolato generale del Perù, il quale eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano e, comunque, l’incompetenza territoriale dell’adito Tribunale di Milano, eccependo, nel merito, la tardività della proposizione della domanda ai sensi della L. n. 213 del 1999, art. 3, comma 3, e che, in ogni caso, l’attore non poteva essere considerato quale possessore in buona fede dei beni controversi. Le altre parti convenute rimanevano contumaci e, peraltro, l’attore dichiarava di rinunciare alle formulate domande nei confronti di A.A.M..
In pendenza del giudizio di primo grado, il citato Consolato generale del Perù proponeva regolamento preventivo di giurisdizione dinanzi alle Sezioni unite di questa Corte, le quali, con ordinanza n. 19784/2015, lo rigettavano, dichiarando la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano.
All’esito dell’esperita istruzione probatoria, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 1077/2016, respingeva tutte le domande attoree, dichiarando compensate le spese giudiziali tra le parti costituite.
2. Decidendo sull’appello avanzato dal T., nella duplice qualità, e nella costituzione di entrambi i Consolati appellati e di C.N.J., la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 2252/2017 (pubblicata il 25 maggio 2017), rigettava il gravame, confermando l’impugnata sentenza e dichiarando interamente compensate tra le parti le spese del grado.
A fondamento dell’adottata pronuncia la Corte territoriale – disattesa l’eccezione di inammissibilità del gravame riferita all’art. 342 c.p.c. – ha rilevato l’infondatezza di tutti i motivi formulati dall’appellante relativi alle asserite violazioni delle disposizioni e dei principi contenuti nella L. n. 218 del 1995, del principio di reciprocità previsto dall’art. 16 preleggi, del principio di irretroattività nonché del principio dell’acquisto della proprietà “a non domino” di cui all’art. 1153 c.c.
Premesso l’inquadramento sulla peculiare natura degli oggetti d’arte per cui era stata instaurata la controversia (risalenti ad epoca precolombiana e di chiara destinazione funeraria, con valore storico-culturale sostanzialmente inestimabile ma non particolarmente apprezzabile sul piano economico in considerazione delle usuali quotazioni di opere d’arte), la Corte di appello si e’, in primo luogo, interrogata sulla individuazione della legge in concreto applicabile alla luce delle norme in materia di diritto internazionale privato e sulla correlata rilevanza dei principi stabiliti dalle Convenzioni internazionali al riguardo, con l’indicazione dei conseguenti riflessi sull’ordinamento italiano.
A tal proposito il giudice di secondo grado ha posto in via principale riferimento al disposto della L. n. 218 del 1995, art. 51, comma 1, rilevando, innanzitutto, la necessità di risalire al Paese in cui tali beni erano stati acquistati.
Sul punto, detto giudice – sulla scorta di una dettagliata valutazione degli elementi probatori acquisiti – ha evidenziato che l’appellante non aveva prodotto alcuna documentazione con riferimento ad alcuni beni oggetto dell’azione di rivendicazione mentre per altri non ne era rimasto univocamente comprovato il titolo di provenienza.
In particolare, la Corte milanese ha rilevato che l’appellante non aveva fornito alcun idoneo riscontro probatorio in merito ai titoli dei beni numerati sub 6, 9, 10 e 13 dell’elencazione risultante dalla relazione del c.t.u., nonché di quelli sub 7 e 11 dell’elenco del verbale di sequestro, ovvero dei beni restituiti al Consolato del Cile, in relazione ai quali, perciò, non era possibile nemmeno individuare la legge applicabile e, comunque, desumere alcun elemento da cui evincere le modalità di acquisto. Ne’ un idoneo riscontro del titolo di provenienza era emerso con riguardo agli altri beni, salvo a discutersi dell’acquisto da parte di venditori domiciliati in Italia dei manufatti indentificati con i nn. 3, 4, 5 e 8, per i quali era rimasto dimostrato che la fattispecie acquisitiva si era perfezionata in Italia, con conseguente applicabilità del diritto italiano, sottolineandosi che la materia della circolazione dei beni culturali è stata oggetto di varie Convenzioni internazionali e, in particolare, di quella Unesco di Parigi del 1970 (ratificata in Italia con la L. n. 873 del 1975), di quella Unesco del 1972 (ratificata nell’ordinamento italiano con la L. n. 184 del 1977) e della Convenzione Unidroit del 1995 sui beni culturali rubati o illecitamente esportati (recepita in Italia con la Legge di ratifica n. 213 del 1999), dalle quali è evincibile che la tutela di siffatti beni è riconducibile all’affermazione di un principio di ordine pubblico internazionale.
Pertanto, dovendosi tener conto dell’assunzione degli specifici obblighi da parte dello Stato italiano in materia di tutela del patrimonio culturale proprio per effetto della sua adesione alle citate Convenzioni internazionali, la Corte di appello ha osservato – sul presupposto che tutti i rivendicati acquisti degli oggetti controversi erano stati fatti risalire ad un tempo successivo alle indicate Convenzioni (e, quindi, alle correlate leggi di ratifica) – che le previsioni di queste ultime devono considerarsi incidenti anche sulla valutazione dell’elemento della buona fede rilevante in funzione dell’applicabilità dell’art. 1153 c.c., sottolineandosi al riguardo la particolare importanza della previsione contenuta nell’art. 4 Legge di ratifica (della Convenzione Unidroit) n. 213 del 1999, alla stregua della quale il riconoscimento del diritto all’equo indennizzo in favore del possessore di un bene culturale rubato è subordinato alla condizione che quest’ultimo non abbia saputo o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere che il bene era stato rubato o che possa provare che abbia agito con la dovuta diligenza in occasione dell’acquisto.
Pertanto, sul presupposto che la buona fede deve riguardare non solo la qualità di proprietari dei venditori, ma anche la legittimità della cessione del bene e, dunque, della sua circolazione, la Corte di appello – valorizzando la particolare condizione dell’acquirente (essendo uno dei maggiori esperti di arte tessile antica) – ha ritenuto che, proprio per la peculiare natura e qualità degli oggetti che al T. non poteva sfuggire, andava escluso che potesse affermarsi la sua buona fede quale acquirente o, quantomeno, una buona fede non connotata da colpa grave, in difetto di una precisa tracciabilità del percorso degli oggetti e della data della loro esportazione, in modo tale da poter desumere che essa fosse avvenuta in epoca in cui non esisteva ancora alcuna sensibilità per la tutela dei beni culturali nell’ambito dell’ordinamento internazionale, con conseguente introduzione di vincoli, e non era stata emanata alcuna legge restrittiva nell’ambito del Paese di origine.
La Corte territoriale ha, inoltre, ritenuto – sulla base degli stessi principi – che l’appellante non aveva dimostrato la sua buona fede nemmeno con riferimento al possesso della parte dei beni oggetto di acquisti effettuati in altri Paesi.
In via consequenziale, infine, la Corte di secondo grado ha escluso – stante l’infondatezza della domanda di rivendicazione – l’insussistenza delle condizioni per l’insorgenza di un diritto al risarcimento del danno in favore dell’appellante per la mancata disponibilità dei beni costituenti oggetto della stessa. Ha aggiunto la Corte di appello che tale domanda, così come quella restitutoria, non avrebbe potuto trovare accoglimento per il fatto che l’appellante era stato nominato custode sia in sede penale che civile, a seguito dell’adozione dei provvedimenti di sequestro dei beni. Ciò perché, non solo trattavasi di provvedimenti di natura cautelare e provvisoria da ritenersi superati dall’accertamento dell’assenza dei presupposti per un valido acquisto della proprietà, ma anche in quanto, rispetto alla specifica richiesta risarcitoria, non era emerso, né era stato dal T. indicato, quale sarebbe stato il pregiudizio subito per non aver potuto ottenere la custodia durante lo svolgimento del giudizio di rivendicazione.
3. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, riferito a sei motivi, il T.M. (nella duplice qualità spesa). Hanno resistito, con distinti controricorsi, da un lato, il Consolato generale del Perù a (OMISSIS) e, dall’altro lato, congiuntamente il Consolato generale della Repubblica del Cile (con sede in (OMISSIS)) e C.N.J..
Le difese delle parti controricorrenti hanno anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo complesso motivo il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – il vizio di extrapetizione e della conseguente nullità della sentenza, nonché la violazione o falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 14, comma 1 e art. 51 nonché dell’art. 2697 c.c., oltre alla violazione o falsa applicazione degli artt. 922,948,832,1343,1418 e 2697 c.c.. In particolare, il ricorrente ha inteso dedurre che, nella concreta controversia instauratasi tra le parti, il giudice di appello avrebbe dovuto porre a fondamento dell’impugnata sentenza il fatto che i contratti allegati da esso T. come titoli di acquisto della proprietà dei beni dedotti in giudizio erano disciplinati dalla “lex rei sitae” e che, per tale ragione, non era ad essi applicabile la legge peruviana allegata dalle parti resistenti, precisandosi che lo stesso giudice avrebbe dovuto basare la sua decisione sul fatto che esso ricorrente aveva acquistato i controversi beni “a domino”, con il conseguente accoglimento della proposta domanda di rivendicazione, senza poter prendere in considerazione altri aspetti che non erano stati ritualmente prospettati in giudizio.
2. Con la seconda censura il ricorrente ha prospettato – con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione fra le parti (con riferimento alla mancata valutazione della circostanza che egli era stato assolto, sia in sede giudiziaria italiana che in quella peruviana, da ogni ipotesi di reato inerente all’eventuale furto dei beni in questione ovvero in ordine alla loro esportazione illegittima), nonché – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 14, comma 1 e art. 51 e dell’art. 2697 c.c., oltre alla violazione o falsa applicazione degli artt. 922,948,832,1343,1418 e 2697 c.c., non potendosi ritenere che dalle fonti del diritto internazionale richiamate nell’impugnata sentenza fosse desumibile alcun principio di ordine pubblico suscettibile di determinare la nullità dei titoli di acquisto della proprietà dei beni controversi.
3. Con il terzo mezzo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – il vizio di nullità dell’impugnata sentenza unitamente alla violazione o falsa applicazione degli artt. 1153,922,948,832,1343,1418 e 2697 c.c.. A conforto di questa doglianza il ricorrente ha affermato che, con riguardo alla sua condizione di buona fede, vi era stato un accertamento del giudice di primo grado e che, ai sensi dell’art. 1153 c.c., la buona fede non è una mera eccezione, ma un elemento costitutivo della fattispecie, onde, non essendo stata impugnata in appello, la relativa statuizione del giudice di prime cure si sarebbe dovuta considerare ormai definitiva e, quindi, passata in giudicato anche sul piano sostanziale. Da qui, la Corte di appello avrebbe dovuto rilevare che, oltre alla validità degli atti di acquisto degli oggetti tessili per cui era causa, non viziati da nullità, si era venuta a configurare la fattispecie acquisitiva dei medesimi oggetti posseduti da esso ricorrente (se non a titolo derivativo) ai sensi dell’art. 1153 c.c.
4. Con la quarta censura il ricorrente ha denunciato – in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – l’omessa pronuncia sulla domanda di consegna in suo favore dei beni nella qualità di custode, affinché essi permanessero presso di lui sotto il vincolo del sequestro, nonché sulle richieste risarcitorie conseguenziali.
5. Con il quinto motivo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 1, 3, 4, 5 e 6 della Convenzione Unidroit del 1995 sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, nonché della Legge di ratifica n. 213 del 1999, anche in relazione agli artt. 112,115 c.p.c. e art. 2697 c.c., sul presupposto che, con l’impugnata sentenza, il giudice di appello non aveva adottato alcuna pronuncia in merito alla domanda di indennizzo svolta in via subordinata da esso ricorrente, malgrado avesse documentalmente supportato i titoli di acquisto dei beni in contesa e nonostante i Consolati appellati non avessero agito giudizialmente per ottenere il riconoscimento del diritto alla restituzione dei medesimi beni.
6. Con la sesta ed ultima censura il ricorrente ha lamentato – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. anche in relazione all’art. 112 c.p.c., per non essersi la Corte di appello pronunciata sulla sua richiesta risarcitoria del danno non patrimoniale riconducibile al rifiuto di esecuzione dei provvedimenti giudiziali di sequestro da parte dei citati Consolati, dovendosi, peraltro, ritenere il danno sussistente “in re ipsa” per effetto dell’accertamento del suo diritto di proprietà sugli oggetti tessili dedotti in causa.
7. Rileva il collegio che il primo motivo è infondato e deve, pertanto, deve essere rigettato per le ragioni che seguono.
In via generale, occorre, innanzitutto, sottolineare che – secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 21745/2006 e Cass. n. 2297/2011) – il vizio di extrapetizione o di ultrapetizione ricorre solo quando il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti e pronunciando oltre i limiti del “petitum” e delle eccezioni “hinc ed inde” dedotte, ovvero su questioni che non siano state sollevate e che non siano rilevabili d’ufficio, attribuisca alla parte un bene non richiesto, e cioè non compreso nemmeno implicitamente o virtualmente nella domanda proposta. Ne consegue che tale vizio deve essere escluso qualora il giudice, contenendo la propria decisione entro i limiti delle pretese avanzate o delle eccezioni proposte dalle parti, e riferendosi ai fatti da esse dedotti, abbia fondato la decisione stessa sulla valutazione unitaria delle risultanze processuali, pur se in base ad argomentazioni o considerazioni non prospettate dalle parti medesime.
Orbene, la Corte milanese, con la sentenza qui impugnata, non è incorsa nel denunciato vizio di extrapetizione né nelle ulteriori denunciate violazioni dal momento che essa si è pronunciata sulla proposta domanda di rivendicazione del T. e sulle contrapposte eccezioni degli appellati Consolati, con le quali era stata contestata la legittimità del possesso dei beni dedotti in controversia da parte dell’odierno ricorrente in base al loro possibile illecito trafugamento od illegittima esportazione dal Cile e dal Perù e, comunque, la sussistenza di una condizione di buona fede in capo allo stesso T. nel trasferimento dei beni, per effetto del mancato assolvimento del relativo onere probatorio su di esso incombente in riferimento al tipo di azione esperita.
Pertanto, sulla base di tali complessive difese prospettate e senza, quindi, fuoriuscire dal “thema decidendum”, la Corte di appello ha proceduto ad una valutazione unitaria delle risultanze processuali legittimamente acquisite con riferimento all’accertamento della provenienza dei beni in questione e, quindi, alla verifica della fondatezza o meno del rivendicato titolo di proprietà sugli stessi da parte del T., prevenendo al risultato che quest’ultimo non aveva prodotto alcun documento giustificativo relativo all’acquisto di alcuni beni mentre di altri non era stato possibile accertare chiaramente il titolo di provenienza. A tal riguardo, il giudice di secondo grado ha proceduto – con motivazione certamente adeguata, perciò insindacabile nella presente sede di legittimità, e rapportata specificamente a tutti i documenti prodotti in causa – ad una analisi dettagliata (v. pagg. 8-10 dell’impugnata sentenza) delle fatture e delle dichiarazioni acquisite e riportate nella relazione del c.t.u. e, in base alle inerenti risultanze (dalle quali non era, comunque, emersa alcuna autorizzazione governativa alla loro esportazione), ha dovuto compiere la necessaria operazione preliminare concernente la individuazione della normativa territoriale applicabile alle fattispecie acquisitive dei singoli beni.
A tal proposito la Corte ha posto correttamente riferimento al disposto della L. n. 218 del 1995, art. 51, comma 1, ragion per cui l’accertamento della proprietà sui beni avrebbe dovuto intendersi regolata dalla legge dello Stato in cui i beni si trovavano all’atto in cui tali fattispecie si erano venute a perfezionare.
Sulla scorta di tale presupposto la stessa Corte ha rilevato l’applicabilità della legge italiana solo in relazione ai beni identificati con i nn. 3, 4 e 8 ovvero per quei beni la cui fattispecie acquisitiva si era perfezionata sul territorio italiano, mentre per gli altri beni oggetto del contendere – pacificamente di natura storico-culturale – ha correttamente distinto tra quelli riferibili agli acquisti di cui ai nn. 6, 9, 10 e 13 della stessa elencazione del c.t.u., in relazione ai quali non era stato possibile individuare la legge applicabile (essendo sprovvisti i relativi documenti di qualsiasi idoneo elemento da cui poter evincere la modalità acquisitiva), e quelli riconducibili ai nn. 1, 2, 7, 11, 12, 13 e 15 per i quali si sarebbe dovuta applicare la legge dello Stato (diverso dall’Italia) da individuare in relazione al citato disposto della L. n. 218 del 1995, art. 51, comma 1, ma tenendo conto, però, della previsione di cui al precedente art. 16, comma 1, che impedisce l’applicazione della legge straniera qualora i suoi effetti risultino contrari all’ordine pubblico. E, nel caso di specie, la tutela del divieto dell’esportazione illegale (ovvero non autorizzata) dei beni di incontestata provenienza peruviana ed aventi natura storico-culturale concretava un principio di ordine pubblico ostativo all’applicazione della normativa di quel Paese (peraltro comunque restrittiva ai fini della circolazione di siffatti tipi di beni e consentita sempre previa autorizzazione statale: v. richiami normativi riportati a pag. 13 della sentenza), ragion per cui la materia si sarebbe dovuta considerare disciplinata ed interpretabile alla luce delle conferenti Convenzioni internazionali, ratificate dallo Stato italiano. Dunque, dallo sviluppo logico-giuridico dell’impianto motivazionale della sentenza qui impugnata si desume che la Corte di appello non ha inteso applicare la Legge peruviana n. 6634 del 1929 né la normativa sopravvenuta di quello Stato, bensì rilevare l’invalidità dei titoli di acquisto vantati dal T. riconducibile, in via principale, alla violazione dell’art. 3 della Convenzione Unesco di Parigi del 1970 (ratificata in Italia con la L. n. 873 del 1975).
8. Anche il secondo motivo si appalesa privo di fondamento e va respinto.
Per quanto riguarda le supposte violazioni di legge prospettate è sufficiente richiamare quanto già evidenziato in risposta al precedente motivo con riguardo all’applicabilità, nella fattispecie e come inequivocamente e correttamente ritenuto nell’impugnata sentenza, del principio di ordine pubblico internazionale riconducibile alla Convenzione Unesco del 1970 (ratificata – come detto – dallo Stato italiano con l’apposita Legge di recepimento n. 873 del 1975), secondo cui, in difetto di prova contraria, sono da considerarsi illeciti l’importazione ed il trasferimento di proprietà di beni culturali effettuati in contrasto con le disposizioni adottate dagli Stati partecipanti in virtù della stessa Convenzione.
La Corte di appello non ha conferito alcuna rilevanza alla invocata Convenzione Unidroit del 1995 ai fini dell’estrapolazione di altri principi di ordine pubblico internazionale, risultando, invece, valorizzata – come si vedrà in seguito – solo in via interpretativa ai fini della possibile configurazione di uno stato di buona fede in capo al T. in coordinamento con le norme civilistiche interne.
Né si è venuto a configurare il vizio dell’omesso esame di un fatto decisivo ricollegato alla mancata valutazione (oltre al procedimento penale riguardante lo stesso T., invece considerato) da parte della Corte territoriale, dei profili riguardanti le vicende penali che hanno riguardato i due Consoli, poiché il denunciato vizio attiene, in effetti, a circostanze non decisive ai fini di un possibile raggiungimento di un esito diverso della controversia. Infatti, i profili penalistici delle richiamate vicende sono da distinguersi – avendo una loro propria autonomia ed essendo fondato l’accertamento di eventuali reati su presupposti diversi – da quelli civilistici specificamente implicati dall’azione di rivendicazione instaurata dall’odierno ricorrente (con accollo del relativo onere probatorio a suo carico e per il cui accoglimento è necessario – di regola – la “probatio diabolica” della titolarità del diritto di chi agisce: cfr., tra le più recenti, Cass. n. 1210/2017 e Cass. n. 25052/2018), senza produrre alcun effetto né di influenza né di interferenza.
9. Pure la terza censura non coglie nel segno e va, perciò, disattesa.
La Corte di appello ha correttamente ritenuto che nella valutazione della buona fede rilevante ai fini dell’art. 1153 c.c. non basta che essa sussista con riferimento al momento della consegna del bene, ma occorre indispensabilmente che sia anche accertata la sussistenza di un titolo idoneo al trasferimento della proprietà e, quindi, tale da rendere legittima la sua circolazione (cfr. Cass. n. 2563/1982; Cass. n. 6007/2019 e, da ultimo, Cass. n. 2612/2021).
A tal proposito la stessa Corte ha, per un verso, rilevato che mancava un titolo valido idoneo al trasferimento proprio per effetto dell’illegittima provenienza dei beni (a causa dell’esportazione o, comunque, della loro immissione illegittima nel territorio italiano, in difetto di un’apposita autorizzazione dei Paesi di provenienza), ma ha escluso anche che il T. potesse, comunque, considerarsi in buona fede. E ciò sulla base di un più che motivato ed insindacabile convincimento desunto sia dalla sua particolare qualità soggettiva (essendo uno dei maggiori esperti di arte tessile antica e dedito al commercio e ad iniziative culturali nello specifico settore), sia dalla natura e della qualità degli oggetti per i quali avrebbe dovuto essere in grado di controllare con sicurezza la precisa tracciabilità e con certezza la data della loro esportazione, ragion per cui la sua condotta si sarebbe dovuta considerare quantomeno affetta da colpa grave.
Il giudice di appello ha, poi, giustamente confortato tale approdo valutativo anche sulla scorta dei canoni previsti dalla Convenzione Unidroit (pure essa recepita nell’ordinamento giuridico italiano) e, in particolare, del criterio evincibile dal suo art. 4, laddove il diritto all’equo indennizzo in favore di un possessore di un bene culturale rubato (quindi di provenienza illecita) è subordinato all’assolvimento, da parte del possessore, di provare che lo stesso si trovi nella condizione di non poter ragionevolmente sapere dell’illegittima provenienza del bene e, soprattutto, di aver agito con la dovuta diligenza in occasione dell’acquisto ovvero all’atto di esserne entrato in possesso (circostanze, queste, che, non essendo state riscontrate dal T., hanno ulteriormente avvalorato l’insussistenza della sua buona fede in riferimento al caso concreto).
Con riguardo, inoltre, alla supposta violazione degli artt. 346 e 324 c.p.c. è agevole ravvisarne l’infondatezza sulla scorta del consolidato principio giurisprudenziale (cfr., ad es., Cass. n. 24021/2010 e Cass. n. 24124/2016) in base al quale la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado (e gli odierni controricorrenti lo erano stati), difettando di interesse al riguardo, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione “le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado”, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite o anche quelle esplicitamente respinte qualora l’eccezione mirava a paralizzare una domanda comunque respinta per altre ragioni, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 c.p.c.. E, con riferimento alla vicenda processuale in esame, le parti appellate (v., sul punto, la riproduzione riportata a pag. 6 dell’impugnata sentenza) avevano riproposto – richiamando espressamente le difese prospettate in primo grado – l’eccezione relativa all’assenza della buona fede in capo al T., nonché quella riguardante l’incommerciabilità dei beni ritrovati in suo possesso congiuntamente all’inesistenza di un titolo astrattamente idoneo al loro trasferimento, ulteriore e necessaria condizione prescritta dall’art. 1153 c.c.
10. Anche il quarto motivo è infondato e deve essere respinto.
Infatti, non sussiste all’evidenza il denunciato vizio di omessa pronuncia dal momento che il profilo relativo alla domanda di consegna dei beni al T. nella sua qualità di custode, affinché permanessero presso di lui sotto il vincolo del sequestro (in uno alle richieste risarcitorie conseguenti), risulta espressamente esaminato dal giudice di appello che, con motivazione logica ed adeguata, ha rilevato che la domanda di restituzione dei beni in favore dell’odierno ricorrente non poteva essere accolta neanche nella sua qualità di custode in dipendenza dei provvedimenti di dissequestro adottata in sede penale e civile. Invero – ha congruamente ritenuto la Corte di appello – tali provvedimenti cautelari e con efficacia provvisoria avrebbero dovuto considerarsi recessivi di fronte all’accertamento dell’assenza del presupposto di un valido acquisto, senza oltretutto, trascurare la circostanza che lo stesso T. non aveva dedotto nel giudizio di rivendicazione in che cosa sarebbe consistito il pregiudizio della lamentata mancata consegna.
11. Il quinto motivo è anch’esso da rigettare.
Diversamente da quanto con esso prospettato, infatti, la Corte di appello – al fine di dirimere il conflitto sulla titolarità dei beni – ha avuto riguardo, oltre che alla disciplina civilistica italiana, unicamente alla Convenzione Unesco del 1970 (contenente la disciplina degli oggetti della natura in questione rubati o illecitamente esportati e ratificata in Italia con la L. n. 873 del 1975), dal quale era evincibile il principio di ordine pubblico internazionale di cui si è discorso in risposta al secondo motivo, nel mentre il riferimento alla Convenzione Unidroit del 1995 è stato operato solo a scopo ermeneutico per avvalorare ulteriormente i presupposti necessari per la sussistenza della buona fede in capo al possessore al fine di ottenere l’indennizzo conseguente alla restituzione dei beni già da considerarsi appartenenti “ab origine” agli Stati di provenienza (ossia al loro patrimonio culturale), in mancanza, per l’appunto, dell’emergenza di un diverso e legittimo titolo di proprietà (anche per effetto del rilascio di un’apposita autorizzazione alla loro esportazione). E tale indennizzo non avrebbe potuto essere riconosciuto al T., dovendosi escludere la sua buona fede per le ragioni svolte nella motivazione dell’impugnata sentenza nei sensi precedentemente riportati.
12. La sesta ed ultima censura è pur essa priva di fondamento poiché, in conseguenza della rilevata insussistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di rivendicazione, la Corte di appello ha ritenuto logicamente consequenziale escludere qualsiasi diritto al risarcimento del danno invocato dal T., anche del tipo non patrimoniale in difetto di un comprovato accertamento definitivo di condanna in sede penale a carico dei Consoli peruviano e cileno.
13. In definitiva, alla stregua di tutte le complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto.
Sussistono idonee ragioni per la novità delle questioni trattate (anche in assenza di pregressi orientamenti giurisprudenziali di questa Corte al riguardo) per disporre la compensazione totale delle spese in relazione a tutti i rapporti processuali instauratisi in questa sede di legittimità.
Infine, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del presente giudizio tra tutte le parti.
Omissis.
[1] Sul concetto di “bene” è d’uopo il rinvio a U. Natoli, La proprietà, I, Milano, 1976, p. 77 ss.; S. Pugliatti, Cosa, in Enc. Dir., IX, Milano, 1962, p. 80 ss.; D. Messinetti, Oggetto dei diritti, in Enciclopedia del diritto, XXIX, Milano, 1979, 810; A. Gambaro, I beni, in Tratt. Dir. civ. e comm. Cicu – Messineo, continuato da Mengoni, e poi da Schlesinger, Milano, 2012. Nota di recente F. Longobucco, Beni culturali e conformazione dei rapporti tra privati: quando la proprietà ‘obbliga’, in Patrimonio culturale: profili giuridici e tecniche di tutela, a cura di E. Battelli, B. Cortese, A. Gemma, A. Massaro, Roma, 2017, p. 211 ss., che per la individuazione di un bene, non è necessaria una apposita regola ma è sufficiente un principio. Poiché sono individuati anche da princípi, i beni giuridici non sono un numero chiuso (sul punto l’A, richiama P. Perlingieri e P. Femia, Nozioni introduttive e principi fondamentali del diritto civile, 2^ ed., Napoli, 2004, p. 130 s.). Notava già P. Perlingieri, Introduzione alla problematica della “proprietà”, rist., Napoli, 2011, p. 38, come la funzione ultima della proprietà sia quella di servire alla persona umana e alla collettività.
[2] S. Rodotà, Il terribile diritto, Bologna, 1981, p. 240, ravvisa nella funzione sociale «l’elemento che modifica la struttura tradizionalmente riconosciuta alla proprietà».
[3] S. Rodotà, Lo statuto giuridico del bene culturale, in Annali Associazione Bianchi Bandinelli, Roma 1994, p. 15 ss. Secondo le S.U. Cass., 10 marzo 1969, n. 763, in Giur. It., 1969, 987, i beni culturali appartenenti a privati non sono soltanto soggetti a limitazioni legali della proprietà ma, per la loro particolare funzione, sono «beni di pubblica fruizione».
[4] Cass., Sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Rass. dir. civ., 2012, 524 ss., con nota di G. Carapezza Figlia, Proprietà e funzione sociale. La problematica dei beni comuni nella giurisprudenza delle Sezioni Unite. Nella pronuncia in esame si sottolinea «l’esigenza interpretativa di “guardare” al tema dei beni pubblici oltre una visione prettamente patrimoniale-proprietaria per approdare ad una prospettiva personale-collettivistica. Ciò comporta che, in relazione al tema in esame, più che allo Stato-apparato, quale persona giuridica pubblica individualmente intesa, debba farsi riferimento allo Stato-collettività, quale ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della cittadinanza (collettività) e quale ente preposto alla effettiva realizzazione di questi ultimi». Cfr., altresì, Id., Ambiente e beni comuni, in M. Pennasilico (a cura di), Manuale di diritto civile dell’ambiente, Napoli, 2014, 86 s., secondo il quale, nella prospettiva accolta dalla giurisprudenza, la nozione di beni comuni «trascende la dimensione statica dell’appartenenza, sì da comprendere sia beni pubblici sia beni privati. Si tratta di una sorta di “proprietà di terzo grado” […]. Il titolo di proprietà resta sullo sfondo, poiché viene in rilievo un’ulteriore e più alta funzione del bene destinato […] alla conservazione e alla fruizione collettiva». Pertanto, «momento unificante della qualificazione giuridica dei beni comuni è la funzione sociale, che esprime l’orientamento della disciplina dell’appartenenza e dell’uso dei beni alla promozione della personalità umana». Per ulteriori osservazioni vd. G. Carapezza Figlia, Premesse ricostruttive del concetto di beni comuni nella civilistica italiana degli anni Settanta, in Rass. dir. civ., 2011, 1080 ss. (spec. p. 1071: «è segnata, in tal modo una tappa essenziale in una storia delle idee che recupera il legame fra proprietà e persona, senza disancorarsi dalla funzione sociale, la quale esprime proprio l’orientamento della disciplina dell’appartenenza e dell’utilizzazione dei beni allo sviluppo della persona»).
Nella prospettiva di ricostruire il concetto di proprietà dei beni alla luce dei principi costituzionali e nell’ottica di bilanciare adeguatamente gli interessi sottostanti secondo una vera e propria gerarchia dei valori, con una impostazione rigorosamente assiologica, si vedano A. Iannelli, La proprietà costituzionale, Camerino-Napoli, 1980, 258 ss.; E. Caterini, Il principio di legalità nei rapporti reali, Camerino-Napoli, 1998, p. 43 ss.; C. Tenella Sillani, I diversi profili del diritto di proprietà nel XXI secolo: brevi spunti di riflessione, in Rass. dir. civ., 2013, p. 1058 ss.
[5] Corte cost., 18 luglio 2014, n. 210, in Foro it., 2014, I, 2651.
[6] Si vedano in particolare: M. Trimarchi, La proprietà nella prospettiva del diritto europeo, in M. Comporti (a cura di), La proprietà nella carta dei diritti fondamentali, Milano, 2005, p. 149 ss., e L. Nivarra, La proprietà europea tra controriforma e «rivoluzione passiva, in Eur. e dir. priv., 2011, p. 603, il quale ipotizza il superamento della radicata convinzione che la proprietà sia connotata da un limite interno. Secondo una diversa prospettiva E. Caterini, op. cit., p. 123, secondo il quale, la tutela della proprietà si esercita in considerazione dell’interesse o del valore perseguito a cui corrisponde una specifica disciplina nel rispetto dei principi che ispirano la normativa comunitaria, senza che ciò, però, non faccia venir meno l’adeguata considerazione dell’altro parametro del bilanciamento, ossia la personalità umana.
[7] Art. 345 TFUE: «I Trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri».
[8] Art. 17 CDFUE: «Ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente […]. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale […]».
[9] F. Longobucco, op. cit., p. 217 ss.
[10] In termini sostanzialmente analoghi cfr. A.M. Gambino, Beni extra mercato, Milano, 2004, p. 90 ss.; R. Di Raimo, La «proprietà» pubblica e degli enti privati senza scopo di lucro: intestazione e gestione dei beni culturali, in Rass. dir. civ., 2000, p. 1101 ss..
[11] E. Caterini, Introduzione alla ricerca “Diritto e bellezza. Dal bene comune al bene universale”, in Corti Calabresi, 2013, p. 647 ss.. Si vedano anche le osservazioni di F. Longobucco, op. cit., p. 218.
[12] Da F. Longobucco, op. cit., p. 219.
[13] S. Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, rist., 1964, passim spec. p. 159 ss.
[14] Da parte di F. Longobucco, op. cit., p. 220.
[15] M. Comporti, Per una diversa lettura dell’art. 1153 cod. civ. a tutela dei beni culturali, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano 1995, pp. 395 ss..
[16] R. Sacco – R. Caterina, Il possesso, in Tratt. di dir. civ. e comm., diretto da Cicu-Messineo, continuato da Mengoni – Schlesinger, III ed., Milano 2014, p. 459. Sul punto si veda inoltre M. Cenini, Gli acquisti a non domino, Milano, 2009, p. 182 ss. la quale inoltre con riferimento ai beni culturali “privati” auspica non la generica inapplicabilità della regola indiscriminatamente a tutti i beni quanto piuttosto la creazione di un sistema di pubblici registri che operino successivamente alla commissione di un furto o, più in generale, mediante la istituzione di un sistema di trascrizione per la circolazione dei beni mobili culturali.
[17] L. Mengoni, Gli acquisti a non domino, ristampa della III edizione, Giuffrè, Milano 1994, p. 88.
[18] S. Rodotà, Lo statuto giuridico del bene culturale, in Annali dell’associazione Bianchi Bandinelli, Roma 1994, p. 15 ss.
[19] Mi riferisco, ad esempio, al noto caso del dipinto di Giorgio de Chirico “Natura morta con pesci” deciso dalla II sezione della Cassazione il 14 settembre 1999, n. 9782 che statuì che la buona fede di cui all’art. 1153 c.c. corrisponde al concetto di buona fede dell’art. 1147 c.c. il quale nel secondo comma puntualizza che l’ignoranza di ledere l’altrui diritto per colpa grave non è idonea ad escludere in capo all’acquirente l’omissione di quel minimo di diligenza necessario in capo al compratore per perfezionare il suo acquisto a non domino.
[20] Così F. Longobucco, op. cit., p. 220 ss. sulla scorta delle riflessioni di G. Magri, Beni culturali e acquisto a non domino, in Riv. dir. civ., 2013, p. 743 ss.
[21] Sulla questione si vedano A. Montanari, Possesso «non clandestino» e possesso «occulto» nell’usucapione di opera d’arte: qualche riflessione di arte e diritto a margine di un recente orientamento della Corte di Cassazione, in Jus civile, 2021, p. 1860 ss., e G. Magri, Buona fede, clandestinità del possesso e opere d’arte rubate: riflessioni a margine di una recente pronuncia della Cassazione, Nota a Cassazione civile, sez. II, 14/06/2019 (ud. 22/01/2019, dep. 14/06/2019), n. 16059, in Aedon, 2020, p. 1 ss.
[22] Cosi G. Magri, op. loc. ult. cit., il quale conclude che “è chiaro che un’opera attribuita a un artista di chiara fama e venduta a un prezzo rilevante richiederà indagini e attenzioni maggiori rispetto a un’opera di bottega, che viene venduta per un prezzo irrisorio o che un bene di regio acquistato da un rigattiere dovrebbe indurre a maggiori riflessioni rispetto ad un bene analogo acquistato da un antiquario di fama o da una casa d’aste”.
[23] A. Montanari, op. loc. cit.